Giulia Regoli
Che cosa significa essere NDN (not dead native, nativo non ancora morto, ndr.) e queer nel Canada odierno? Come si può conciliare l’essere vivi con l’esistere in una società che ogni giorno ti fa credere che la tua esistenza sia uno sbaglio? In quale modo si può continuare a sopravvivere in un mondo costruito per marginalizzare - fisicamente e psicologicamente - chi non rispetta determinati standard?
Nel suo memoir Storia del mio breve corpo (2021), Billy-Ray Belcourt, autore cresciuto nella riserva della Driftpile Cree Nation, non cerca direttamente di dare una risposta a queste domande. Infatti, la sua esistenza in quanto persona queer e nativa è già di per sé una continua lotta e tensione tra la vita e la morte. Nel libro, ciò che fa è raccontare la sua persona, la sua vita, che è inevitabilmente intrecciata a quella di chi, come lui, è costretto ai margini.
Per raggiungere questo scopo, Belcourt costruisce un testo che appare come smembrato, con capitoli e sezioni che spaziano dalla poesia alla sperimentazione linguistica, dai racconti alle citazioni. Infatti, è un testo che strutturalmente ricorda Gli Argonauti di Maggie Nelson (autrice a cui fa spesso riferimenti): in entrambi, emerge fortemente questo bisogno di esulare dalle formule standard del linguaggio per crearne uno nuovo, che sia proprio e che possa raccontare il mondo da un punto di vista fuori dalle dinamiche colonizzatrici, eterocispatriarcali e prettamente maschili della lingua stessa.
“Quello che la poesia ci incita a fare, proseguo, è resistere alle macchine di morte e ai tristi mietitori che presiedono i nostri territori, e proteggerci da esse. Forse, suggerisco, la poesia saprà prendersi cura di quella verità che i giurati hanno lasciato lì a morire. Forse siamo tutti qui riuniti, dico al pubblico, nel nome della reciproca solidarietà e di un genere di scrittura che penetra nella solitudine di un’esistenza e si apre radicalmente alla gioia.” (Belcourt, 2012:139)
Nato come poeta, Belcourt trova nella creazione artistica - e nella poesia in particolare - una potentissima arma non solo di resistenza, ma di fioritura e di sviluppo di un mondo nuovo e alternativo in cui persone queer e NDN possono avere luogo e tempo per conoscersi e riconoscersi, l’opportunità di vivere, anziché sopravvivere. “La poesia mi ha dato uno spazio in cui soffrire” (ibidem, 140), scrive, un anfratto in cui poter rilasciare le emozioni che le continue violenze e storie di morte nella società non danno il tempo di sentire e che anzi normalizzano. Intrecciando eventi personali, fatti di cronaca, stragi e abusi di potere, Belcourt mostra sulla pagina la discriminazione sistemica a cui vengono sottoposte quotidianamente le persone native in Canada, in un mondo che non è costruito per loro, che anzi ne ha disgusto, tanto che le loro morti non vengono considerate. Nella sua Litania per la sopravvivenza, la poeta Audre Lorde scriveva questo verso: “Non era previsto che noi sopravvivessimo”: è esattamente questo il destino che - leggendo Storia del mio breve corpo - si intuisce la società abbia in mente per i NDN.
“A ogni mio passo fioriscono coltelli dove sono passato. Perfino avanzare in punta di piedi è una forma di violenza. Non verso nemmeno una lacrima per questo. Piango per altre questioni, come il fatto che nelle Americhe una fetta enorme dell’essere vivi si basi sul fingersi morti. Per procedere col tran tran quotidiano devo fingermi morto almeno in parte, di fronte alla rabbia dei bianchi e alla sovranità dei bianchi e alla fame dei bianchi e al perdono dei bianchi e all’innocenza dei bianchi.” (ibidem, 62)
Ma il vivere sui bordi, nell’arte e nella vita, come traspare dalle parole di Belcourt, apre anche infinite opportunità di ripensare la società e rifondarla a partire dai bisogni comuni e da ciò che dà più gioia. “La marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza” scriveva bell hooks nel suo Elogio del margine (2020;128): la scrittura, in particolare, offre infinite occasioni di ripensare rivoluzionariamente alle dinamiche e alle connessioni che dominano il mondo per crearne delle altre. Le parole sono materiale fondamentale per aprirsi gli spazi che Michel Foucault - autore caro a Belcourt che vi si trova in sintonia nella ricerca della libertà - chiamava eterotopie: luoghi aperti su altri luoghi, in cui il mondo reale viene sospeso ma non annientato, e in cui i rapporti si possono ridefinire.
Il punto fondamentale di questa ripartenza, e di cui ogni pagina di Storia del mio breve corpo è profondamente impregnata, è l’amore come fonte più pura di solidarietà:
“Mostrare affetto, nel senso femminista del termine, significa pensare al di fuori di una singola vita, e farlo implica partecipare a un processo di autorealizzazione che trascende l’individuo. Con l’affetto possiamo farci crescere una pelle collettiva [...].” (Belcourt, 2012: 108)
Il trauma collettivo, generazionale, ma anche individuale, di vivere in un mondo che non accetta chi devia dalla norma, che trascura queste persone fino a spingerle a morire, che salvaguarda una piccola e determinata parte di popolazione a discapito di tutto il resto, non può che alleviarsi tramite la creazione di reti collettive che vadano a sollevare questo fardello dalle spalle di uno per portarlo avanti tutti insieme. Così, i momenti di buio possono trovare un qualche tipo di illuminazione. Così, come dice Belcourt, “invece di lasciare che quei vuoti mi inghiottiscano, però, vi pianto fiori di ogni tipo” (ibidem, 33), perché se - appunto - non era previsto che i NDN e le persone queer sopravvivessero, lo era ancora meno che vivessero con gioia.
Belcourt, Storia del mio breve corpo. Edizioni Black Coffee, 2021.
bell hooks, Maria Nadotti, Elogio del margine-Scrivere al buio. Tamu Edizioni, 2020.
Foucault, Utopie Eterotopie. Cronopio, 2006.
Lorde, D’amore e di lotta. Poesie scelte. Le Lettere, 2018.
Nelson, Gli Argonauti. Il Saggiatore, 2016.
Foto 1 da Rolling Stones (data di ultima consultazione: 07/08/2022).
Foto 2 da Il Libraio.it (data di ultima consultazione: 07/08/2022).