Claudio Ciccotti, Eleonora Polacchini, Giulia Regoli, Elena Valli
L’1 novembre del 2005, la risoluzione 60/7 delle Nazioni Unite ha scelto il 27 gennaio come data in cui celebrare la Giornata della Memoria. La data ricorda come, quello stesso giorno, nel 1945, durante l’attacco alla Germania, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Fu allora che l’attenzione di tutti si posò sugli orrori del nazismo, che costarono la vita a 15 milioni di vittime, prima e durante il conflitto bellico.
Zygielbojm (rappresentante ebreo del consiglio nazionale polacco a Londra) fu informato da un gruppo attivo in Polonia sulla catastrofe in atto. A nulla valse il suo monito:
“La responsabilità del massacro della nazione ebrea in Polonia ricade prima di tutto su coloro che lo stanno perpetrando. Ma indirettamente ricade anche su tutta l’umanità, sui popoli e i governi delle nazioni alleate che finora non hanno fatto nessun passo concreto per fermare questo crimine. Osservando passivamente come sono uccisi milioni di bambini, donne e uomini indifesi, sono diventati partecipi di questa responsabilità”.
Sua moglie Manya e suo figlio Tuvia furono imprigionati e uccisi nel ghetto di Varsavia, nell’aprile del 1943. Zygielbojm si suicidò il maggio seguente come ultimo gesto di protesta. La sua denuncia, infatti, non aveva avuto alcun effetto: l’anno prima, aveva raccontato tutto al quotidiano conservatore britannico The Daily Telegraph. Il giornale, però, pubblicò la notizia solo in penultima pagina come uno scoop a cui nessuno diede, poi, realmente ascolto.
Le testimonianze dei sopravvissuti ai campi di concentramento e alle barbarie razziste della politica nazista (sulla propria pelle o indirettamente) hanno permesso al trauma del genocidio di arrivare ai giorni nostri, invitandoci a riconoscere i segnali di un pericolo imminente e impedirlo.
Tra queste voci, ricordiamo come il trauma dell’olocausto abbia condizionato a seguire la vita e le opere di autori come Hannah Arendt, Anthony Hecht e Sylvia Plath.
La vita di Hannah Arendt fu immersa nel vivo fermento filosofico: nacque nella patria di Kant, sposò due filosofi, fu allieva di Heidegger e Jaspers ma, neppure di fronte a una carriera costellata di saggi, articoli e riflessioni sulla vita dell’essere umano e il suo agire, volle mai essere riconosciuta come filosofa, quanto piuttosto come storica della politica.
Arendt nacque nell’attuale area urbana di Hannover nel 1906 da una famiglia ebrea. I suoi studi universitari in filosofia la portarono a conoscere illustri menti degli anni Venti, tra cui Heidegger, con cui ebbe una relazione che le costò molte critiche sia perché l’uomo, più grande di lei, era sposato e con figli, sia perché lui aveva appoggiato il regime nazista (almeno agli albori).
Pubblicò la sua tesi sul filosofo Jaspers e sul concetto di amore nell’opera di Sant’Agostino, mentre la sua ambita carriera nella docenza universitaria era ostacolata dalla politica antisemita del governo nazista. Arendt si mostrò sensibile e attenta al tema dell’antisemitismo ma questo richiamò l’attenzione della Gestapo, che la fece imprigionare nel 1933. Dopo qualche mese di reclusione si diresse a Parigi, dove diede il suo aiuto a diversi rifugiati ebrei. Ormai osservata speciale del regime, Arendt fu punita dal governo nazista per questo aperto sostegno alla comunità ebrea e le venne tolta la cittadinanza tedesca.
Nemmeno il secondo matrimonio con un poeta tedesco riuscì a farla scampare alle pulizie etniche in atto dal regime: fu internata nel campo di concentramento di Gurs (città caduta, nel mentre, sotto il controllo nazista). Riuscì a scappare dal campo dopo poche settimane e nel 1941 lasciò anche la Francia, alla volta degli Stati Uniti, munita di un visto falso. A New York fu ben accolta, si prodigò per la comunità ebraica, scrisse alcuni articoli sulla condizione di vita degli ebrei e sull’antisemitismo. Dopo qualche anno fu naturalizzata americana e iniziò a insegnare in molti college americani tra cui Princeton, Yale e Berkeley.
L’apprezzamento verso Arendt crebbe anche a seguito della pubblicazione di Vita Activa. La condizione umana (1958) che analizza l’azione e il suo potenziale politico: agire significa iniziare qualcosa, rompere uno schema e un ordine prefissati, coinvolgendo una pluralità di persone. L’immagine più evocativa di questo concetto, per lei, è la nascita: nascere rompe lo schema dell’eterno ritorno e, come un imprevisto, genera uno spazio di libera manovra per l’individuo.
Con le sue azioni, una persona è in grado di cambiare le regole del gioco. In questo senso, Arendt rompe completamente con la tradizione filosofica a lei corrente, solitamente incentrata sull’immaginario della morte. La nascita, il potere politico intrinseco all’azione e la rottura con lo schema valsero a Hannah Arendt anche le simpatie del movimento femminista (soprattutto italiano). Morì a New York il 4 dicembre del 1975 per un attacco cardiaco a 69 anni.
Per Arendt, essere donna, ebrea e di formazione filosofica non era sinonimo di appartenenza ad alcun gruppo, etnia, partito o credo religioso. La rottura di questi vincoli emerge chiaramente nei suoi carteggi con le persone care (prima tra tutte Mary McCarthy) in cui si dimostra convinta di quanto siano le azioni a determinare l’identità di una persona. Arendt si riferisce all’agire non in quanto al fare produttivo (tipico dell’epoca moderna), bensì all’azione politica. La studiosa riscatta così la dignità della vita pubblica e del dialogo tra quei cittadini, la cui dimensione privata era schiacciata dai regimi totalitaristi. Per lei, ogni essere umano può sottrarsi ai meccanismi che lo condizionano e trovare il significato della sua esistenza attraverso le azioni pubbliche.
All’inizio degli anni ‘60 chiese al New Yorker di farle seguire in Israele il processo ad Adolf Eichmann, il funzionario tedesco fra i maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei. Il mondo pensava che lei, famosa ebrea in carriera, sarebbe andata a Gerusalemme per scrivere ciò che gli altri si attendevano davvero da lei: la restituzione nuda e cruda degli orrori perpetrati da un mostro, l’indignazione per lui e la compassione per il proprio popolo di origine.
La restituzione di quel processo fu ben altro e venne pubblicato nel 1963 col titolo di La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme. In quel gerarca Arendt individuò l’apoteosi dell’uomo mediocre, non stupido, ma semplicemente senza idee: questo aveva reso Eichmann un individuo predisposto a diventare, poi, un grande criminale di guerra. Infatti, la mancanza di memoria o l’incapacità di avere un dialogo con se stessi, per riflettere sul proprio operato con costanza, può portare persone ordinarie a compiere azioni terribili e malvagie. Arendt tornò a parlare di Eichmann anche nell’introduzione all’ultima sua opera, rimasta incompiuta, La vita della mente (1978), focalizzandosi sulla sua incapacità di pensare. Questa non era sinonimo di scarsa intelligenza o cultura: si trattava, piuttosto, di un’incapacità a saper distinguere il bene dal male, perché nella sua mente imperava il disordine delle emozioni e l’obbedienza alla norma e all’autorità.
Eichmann, come molti criminali nazisti, sul fronte della vita privata poteva essere un comunissimo uomo coi propri interessi e le proprie passioni, così come un buon padre o marito, ma al contempo aveva obbedito all’ordine dei suoi superiori e organizzato le più spietate operazioni legate al genocidio ebreo. Una coscienza di questo tipo, in cui emozioni e ragione non hanno più aderenza alla realtà e sono completamente avulse all’empatia (lasciando il posto alla burocrazia), non è più in grado di chiedersi se quel che ha fatto è giusto o sbagliato.
Arendt vede il pensiero come uno strumento con cui dare un senso all’agire politico, sottraendolo all’imprevedibilità: questo è rivoluzionario. Lei non crede ideologicamente a un futuro migliore e non è nostalgica del passato. Piuttosto, ha voluto comprendere il perché degli eventi e dell’agire umano (Arendt, 1950:LXXIX-LXXXII), per essere davvero contemporanea, calata nel suo tempo, anche a costo di potersi ritrovare di fronte all’artefice della Shoah e a familiarizzare momentaneamente con lui.
Questo sforzo di conciliazione non significa venire a patti con la realtà dei fatti o perdonare: significa rendere tutti responsabili di un nuovo inizio, spoglio dagli incubi e dagli eccessi, mosso solo dall’amore per il mondo. Il fatto che abbia manifestato questa sua massima concezione dell’agire politico nei confronti di Eichmann la spinse ben oltre le aspettative di tutti: tutto il mondo, infatti, per lei, è potenzialmente in grado di essere vittima della banalità del male. L'antidoto è solo uno: l’agire politico.
Hannah Arendt dedicò la sua carriera a contrastare con la lucidità del suo pensiero filosofico l’ignoranza dell’antisemitismo e dei soprusi razziali. Anche molti suoi contemporanei, dopo l’esperienza della guerra, si unirono al suo sforzo, con l’intento di riflettere sui terribili eventi che avevano sconvolto il loro tempo e di commemorarli. La poesia, in particolare, ebbe l’arduo compito di trovare le parole per descrivere l’indicibile. A questo sforzo contribuì, tra gli altri, il poeta Anthony Hecht (1923 – 2004), americano di nascita ma, come la Arendt, di origini tedesche ed ebraiche.
Queste particolari origini furono motivo di un profondo conflitto interiore per il newyorkese Hecht, in particolar modo a seguito alla sua esperienza di guerra proprio in Germania. Lì partecipò alla liberazione del campo di concentramento di Buchenwald come membro delle truppe alleate. Unico tra i compagni a conoscere il francese e il tedesco, proprio grazie alle sue radici, fu incaricato di raccogliere le testimonianze dei prigionieri ebrei, in vista del processo ai nazisti.
La consapevolezza di essere sfuggito per puro miracolo a una tale sorte lo tormentò come un fantasma per tutta la vita e diventò uno dei temi principali della sua opera poetica. Poesie come "Behold the Lilies of the Field" (The Hard Hours, 1967) e "Sacrifice" (The Darkness and the Light, 2001) infatti, narrano di violenze e soprusi osservati attraverso gli occhi dei sopravvissuti, a loro volta segnati indelebilmente da un senso di colpevolezza e dal dovere della testimonianza.
Tornato in America dopo una breve parentesi in Giappone, alla fine della guerra, Hecht si dedicò nuovamente allo studio della poesia (una passione troncata sul nascere dal servizio militare) presso il Bard College e, in seguito, al Kenyon College, dove entrò in contatto con alcuni dei maggiori rappresentanti della poesia contemporanea. Dopo un primo incarico come professore alla NYU, ottenuto grazie a Tate, Hecht intraprese la carriera di insegnante di letteratura rinascimentale presso istituti prestigiosi quali Smith, Bard, Harvard e Yale.
La carriera accademica lasciò spazio anche all’attività letteraria: la prima raccolta di poesie, A Summoning of Stones (1954), fu composta presso la American Academy di Roma, dove il poeta visse per un anno grazie a una prestigiosa borsa di studio.
In Italia, in particolare, fece la conoscenza di W. H. Auden, la cui opera ebbe una forte influenza sui suoi testi poetici, e sviluppò un forte interesse per la pittura e la scultura. Molte opere d’arte italiane sono infatti al centro delle sue più poesie più note. The Hard Hours (1967), la sua seconda raccolta incentrata sulle esperienze di guerra, gli valse il premio Pulitzer, e lo rese noto all’interno del panorama poetico americano. Negli anni successivi, oltre a nuove raccolte di poesia, Hecht si dedicò anche alla critica letteraria di testi rinascimentali e religiosi, e fu insignito del ruolo di Poet Laureate presso la Biblioteca del Congresso dal 1982 al 1984.
Fu proprio nell’ambiente universitario che l’autore conobbe Sylvia Plath e Hannah Arendt. L’incontro tra Hecht e Plath avvenne presso lo Smith College: i due insegnavano lo stesso corso base di letteratura inglese e, come testimonia Hecht, erano soliti vedersi nel tempo libero assieme al marito di Sylvia, il poeta Ted Hughes.
Pur essendo etichettati dai critici come rappresentanti di due correnti poetiche opposte, il formalismo e la poesia confessionale, la loro opera presenta tematiche simili. Entrambi, infatti, sentono fortemente il peso della situazione storica e politica del loro tempo, e ne esprimono l’impatto nei loro testi. Entrambi, furono ospedalizzati per problemi di salute mentale. Nelle loro riflessioni, il proprio sconvolgimento interiore si innesta in un contesto più ampio di disperazione e sfiducia di fronte ai terribili eventi di quegli anni.
L’amicizia con Hannah Arendt risale invece a una festa di compleanno per Auden – il quale, pur convivendo con il compagno Chester Kallman, era stato così affascinato dal rigore morale della donna da farle una proposta di matrimonio. Hecht fu poi collega del marito della donna, Heinrich Blücher, al Bard College, e i tre divennero grandi amici. Hecht ricorda Arendt ammirato in un’intervista:
“la sua erudizione era illimitata, o così mi sembrava … Era inoltre una donna di grande fascino” (Hoy: 1999, p. 44).
Tra le opere di Arendt che più ebbero impatto sul pensiero poetico di Hecht c’è sicuramente La banalità del male. Il poeta dedica infatti numerosi articoli al tema dell'antisemitismo, leggendolo in chiave storico-letteraria. Partendo da testi canonici – Il Mercante di Venezia, Il Vangelo di Paolo – mette in luce i meccanismi dell’odio razziale e la minaccia totalitaria che si insidia in qualsiasi organizzazione intollerante delle diversità, tra le quali la Chiesa stessa.
La sua denuncia, più di quella della filosofa, prende una piega storica: opere come Rites and Ceremonies, un tributo all’Olocausto (The Hard Hours, 1967), o The Book of Yolek (The Transparent Man, 1990) presentano l’odio contro la cultura e il credo ebraici come un fenomeno ciclico, osservabile dal Medioevo ai giorni nostri. Questi soprusi vengono rappresentati, nell’ottica filosofica di Arendt, come gesti dettati, ciecamente, da ignoranza e paura: la guerra, come lui insiste nel ricordare, porta i soldati a diventare macchine senza pensiero, così come la violenza annichilisce chi ne è vittima, e di conseguenza è compito di ciascuno, in tutte le epoche, fare uno sforzo intellettuale e morale per comprendere i subdoli meccanismi che portano l’uomo a tali estremi.
Una sua poesia in particolare, More Light! More Light! o Più luce! Più luce! (1967, qui nella traduzione di Egan e Abeni, 2018), è dedicata proprio a Hannah Arendt e a Heinrich Blücher:
Composti nella Torre prima della sua esecuzione
questi versi commoventi, condotto allora sul tragitto
penoso verso il rogo, sottomesso, dichiarò:
«Invoco il mio Dio a testimone, non ho commesso alcun delitto».
Né lo abbandonò il coraggio, ma la morte fu tremenda,
il sacco di polvere da sparo non si accendeva.
Le gambe, mentre lui implorava urlante la Luce Misericordiosa,
erano bastoni di vesciche su cui la linfa nera ribolliva ed esplodeva.
E quello non fu che uno, e niente affatto dei peggiori,
concessagli almeno la sua commiserevole dignità;
e gli astanti recitavano preghiere per la pace dell’anima sua,
nel nome di Cristo che ciascun uomo giudicherà.
Ci spostiamo adesso al limitare di un bosco tedesco.
Si ordina di scavare una fossa a tre uomini tenuti in scacco,
e in questa viene ordinato ai due ebrei di sdraiarsi
per essere sepolti vivi dal terzo, un polacco.
La poesia è divisa concettualmente in due scene, la prima descritta dalle tre quartine iniziali e la seconda dalle quattro successive, sintetizzate poi in un passaggio conclusivo.
Il primo episodio riguarda l’uccisione di un dissidente religioso nella Tower of London, durante il periodo Elisabettiano. La seconda, introdotta da una descrizione che richiama un campo lungo cinematografico, ci rende invece spettatori di un episodio di violenza della Seconda Guerra Mondiale, in un bosco vicino a Weimar, la patria di Goethe. Qui, vediamo dei soldati nazisti alle prese con un polacco e due ebrei.
Nonostante le differenze poetiche, un confronto tra questo testo e Daddy, una delle più note poesie di Plath, con varie implicazioni personali, rivela alcune somiglianze nel modo in cui i due poeti concepiscono il tema dell’Olocausto. Entrambi i testi sono divisi in brevi strofe, i cui versi rimati terminano spesso in parole monosillabiche, che suonano all’orecchio come fredde e perentorie. I personaggi sono metonimicamente rappresentati da un’unica parte del loro corpo - nel caso di Daddy dai baffi, o dallo stivale in entrambi i componimenti. Soprattutto, entrambe le rappresentazioni sono impostate sul ritorno ciclico del carnefice, un ritorno interrotto solo dalla morte. Alla promessa del bene si sostituisce la certezza del male, “Non Dio, una svastica piuttosto” (Daddy, 1962).
Non luce dal santuario a Weimar oltre la collina
né luce dal cielo apparve. Ma egli si rifiutò.
Una Lüger s’assestò nella fondina.
Scàmbiati di posto con gli ebrei, gli si ordinò.
Quella sovrabbondanza di morte insensata ne aveva prosciugato
l’anima. La terra spessa montava verso la faccia sconvolta.
Quando solo la testa restò esposta, arrivò l’ordine
di tirarlo fuori e di tornare dentro un’altra volta.
Quest’ultimo aspetto è particolarmente evidente in More Light! More Light!.
I corpi dei protagonisti sono intenzionalmente resi impersonali in entrambe le scene: le gambe del martire rinascimentale diventano “bastoni” bruciati dall’esplosione, e il nazista viene rappresentato soltanto attraverso la sua arma, la Lüger. A distanza di secoli, vittima e carnefice sono perennemente annichiliti dalle azioni inumane che vivono sulla loro pelle: come nota il poeta, “quella sovrabbondanza di morte insensata ne aveva prosciugato l’anima”. Se nell’ottica cristiana la storia è un percorso lineare che, con il ritorno di un salvatore capace di annullare l’errore di Adamo, tornerà a essere ciclico cancellando ogni azione maligna, qui l’unica ciclicità evidente e senza scappatoia è quella della violenza: il sacrificio degli ebrei conduce a sempre nuovi sacrifici, senza possibilità di redenzione, dal Rinascimento al 1945:
Nessuna luce, nessuna luce nel ceruleo occhio polacco.
Quando finì, uno stivale da cavallo pressò la terra forte.
La Lüger si librò leggera dalla fondina.
Colpito in pancia, in tre ore sanguinò a morte.
Non una preghiera, niente incenso, s’alzò in quelle ore
che divennero anni; e venivano ogni sera
muti spettri dai forni, filtrando nell’aria frizzante,
posandosi sui suoi occhi come fuliggine nera.
La perversione di questo ordine divino della storia ricorre una seconda volta, oltre che nel rapporto tra le due scene, all’interno della seconda. L’atto di seppellire vive le due vittime si oppone simbolicamente all’immagine della resurrezione di Cristo. Un breve spiraglio di speranza si presenta quando l’uomo polacco, tornato lucido per un istante, rifiuta di uccidere i due, prendendo posizione contro i soldati.
Questo atto di pietà umana tuttavia viene immediatamente schiacciato dal sistema nazista: l’uomo viene sepolto nella terra al posto dei due ebrei e i superiori lo torturano per farlo cedere alla violenza, fino a quando, dopo aver compiuto l’orribile atto, l’uomo viene a sua volta fucilato. In questa scena non vi è alcuna speranza di vita, ma soltanto le azioni di automi mossi da pericolose ideologie inculcate poco a poco nelle loro menti.
Le ultime parole di Goethe, Più luce! Più luce! che incitano sia alla luce della vita nel momento della sua fine, sia a perseguire la luce della ragione, vengono sostituite dallo stato presente, dove non appare “Nessuna luce” – non “nell’occhio del polacco”, nè “dal santuario” o “dal cielo”. Hecht sembra dunque intendere che, se Dio non risponde alle suppliche, sostenere la civiltà e rispettare i diritti individuali è una responsabilità interamente umana – una responsabilità costantemente ravvivata dal ricordo delle conseguenze dell’odio.
Al tempo di Shakespeare, come al tempo in cui scrivono Plath e Arendt, permane la macchia indelebile dei delitti che sono stati commessi. Sui loro occhi, come su quelli dell’uomo polacco, un uomo realmente vissuto (la sua storia è riportata in The Theory and Practice of Hell di Eugene Kogon, del 1950) si posano “ogni sera muti spettri dai forni… come fuliggine nera”.
Sylvia Plath nacque prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e visse abbastanza a lungo per vederne le conseguenze. In particolare, nei suoi scritti, il tema dell’Olocausto è molto presente e pervade il suo immaginario poetico in modi diversi, pur non essendo lei stata testimone oculare della violenza nazista in Europa. Per esempio, in "The Thin People", poesia contenuta nella sua prima raccolta Il Colosso (1960), il punto di vista è quello di una persona molto distante dalla realtà del genocidio, ma che ne rimane comunque colpita a tal punto da essere tormentata dalle immagini delle vittime che non vogliono né devono essere dimenticate.
Continuando ad analizzare le sue opere, però, questa vicinanza emotiva si trasforma sempre di più in vera e propria immedesimazione, soprattutto nella poesia "Daddy" - tradotta in italiano col titolo "Papà" e contenuta nella raccolta Ariel (1965) - in cui Plath paragona il rapporto oppressivo che aveva con il padre a quello di una prigioniera ebrea con il suo aguzzino nazista.
Questo aspetto potrebbe esprimere quanto l’Olocausto abbia segnato la coscienza collettiva mondiale, a tal punto da toccare le corde emozionali anche di chi non ne ha sperimentato la violenza e l’ingiustizia in prima persona. Il critico letterario George Steiner, per esempio, nella sua analisi della poesia, spiega come a suo parere l’autrice riesca in un “atto di generalizzazione” a trasmettere in maniera efficace la sua personale sofferenza attraverso un’immagine pubblica e istantaneamente riconoscibile come l’orrore dell’Olocausto.
Tuttavia, è importante evidenziare come questa immedesimazione possa risultare controversa: in quanto donna bianca americana, Plath non ha mai vissuto sulla propria pelle questo tipo di violenze e discriminazioni, ma le ha comunque utilizzate per raccontare altri tipi di abusi che ha sofferto durante la sua esistenza.
Infatti, date le origini tedesche del padre e la contemporaneità agli eventi dell’Olocausto, il coinvolgimento emotivo potrebbe essere stato tale da spingere la scrittrice a intraprendere questa strada descrittiva forte ma problematica: la poesia, riletta insieme ad alcune altre frasi delle sue poesie e dei suoi Diari (1982) contenenti espressioni antisemite, permette di osservare le parole della scrittrice sotto una nuova luce, sottolineandone le controversie e gli aspetti offensivi verso un gruppo di persone che ha storicamente vissuto una pervasiva discriminazione razziale.
L’opera di immedesimazione dell’autrice va quindi letta avendo la consapevolezza di tutti i suoi limiti, del periodo storico in cui è vissuta e delle sue esperienze personali. In quanto lettori è necessario domandarci se l’atto di appropriazione storica e culturale di Sylvia Plath sia legittimo, poiché alcuni passi tratti dai Diari in cui l’autrice descrive delle persone ebree, usando aggettivi come ‘viscido’, ‘unto’, ‘rozzo’ e ‘debole’, portano a riflettere sul fatto che il paragone fra diverse tipologie di discriminazione (in questo caso fra antisemitismo e sistema patriarcale) possa essere un espediente utile alla pratica della poesia confessionale più che una dichiarazione di solidarietà verso le vittime dell’Olocausto.
In "Daddy", le dinamiche di potere tra nazisti ed ebrei vengono tradotte in quelle in atto fra uomini e donne nel sistema patriarcale dell’epoca. I carnefici nazisti diventano le figure maschili oppressive che popolano la vita dell’autrice (suo padre su tutte), mentre Plath diventa la prigioniera.
La poesia, scritta quattro mesi prima del suicidio dell’autrice, descrive una relazione padre-figlia molto complicata e soffocante di cui Plath ha a lungo patito le conseguenze (come si evince anche dalla sua storia con Ted Hughes, qui citata). La scrittura è stata un buon espediente per esorcizzare questo dolore, benché i suoi tentativi di esprimere a parole il suo malessere siano arrivati solamente molto tempo dopo la morte del padre (che avvenne quando lei aveva appena otto anni):
“Non servi più, non servi più, / O nera scarpa, tu / In cui trent’anni ho vissuto / Come un piede, grama e bianca / Trattenendo fiato e starnuto”
Così inizia il racconto della figura di Otto Plath: per la figlia, lui rappresentava una prigione, una trappola, un luogo di contenimento asfissiante e senza apparente via d’uscita, tanto che nemmeno la sua morte precoce le permise di sfuggire alla sua memoria e rescindere questo legame tossico. Le parole di Sylvia Plath, infatti, sono dure e - forse - anche scioccanti. In passi come: “Papà, ammazzarti avrei dovuto. / Ma sei morto prima che io / Ci riuscissi”, l’autrice confessa la sua disperata voglia di allontanarsi dal fantasma di suo padre che ancora la condiziona nella vita presente.
Questa visione di prigionia, in seguito, inizia a ricalcare sempre più la metafora dell’aguzzino nazista e della prigioniera ebrea: a partire dalla “nera scarpa”, le immagini con cui viene identificato il genitore rimandano continuamente alla parte del carnefice e al simbolismo nazista (“Per me ogni tedesco era te”, “E il tuo baffo ben curato / E l’occhio ariano di un bel blu”, “Non un Dio ma svastica nera”); mentre quelle con cui Plath descrive se stessa fanno trasparire la sua situazione di vittima (“Era un treno, un treno che / Ciuff-ciuff come un ebreo portava via me”, “Da ebrea mi mettevo a parlare”).
All’interno del poema, resta costante il tema del terrore che lei ha del padre, paragonato a quello delle persone ebree che erano state private di qualsiasi potere decisionale sulla propria vita sotto il controllo del regime nazista, prima con le leggi razziali, poi nei campi di concentramento.
Plath scrive che “Ogni donna adora un fascista” perché, a suo parere, le dinamiche di potere e discriminazione nella società sono talmente rese naturali che non è poi così difficile, per una persona oppressa, cadere vittima dell’amore per il suo oppressore. Forse è proprio questo ciò che successe a lei stessa. Nonostante la volontà di sfuggire al controllo della figura paterna, provava ancora una malsana nostalgia e un grande affetto per lui:
“Avevo dieci anni che seppellirono te. / A venti cercai di morire / E tornare, tornare da te”.
Otto Plath è allo stesso tempo un diavolo e un dio, viene demonizzato e idealizzato attraverso gli occhi di sua figlia, che prova per lui tanto affetto quanto assoggettamento: una figura che la domina e la controlla, ma di cui - allo stesso tempo - non le è mai stato insegnato come vivere senza. Dopo anni, la stessa condizione si ripresenta nel rapporto con il marito Ted Hughes, a cui fu legata per sette anni e da cui fu tradita.
“Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi- / Il vampiro che diceva di essere te / E un anno il mio sangue bevé, / Anzi sette, se tu / Vuoi saperlo”.
In questo senso, l’intera poesia appare come un esercizio di esorcizzazione della figura paterna che è rimasta nella sua mente per lungo tempo, condizionando il suo modo di rapportarsi con le figure maschili ed evidenziando le dinamiche patriarcali di controllo che Sylvia Plath ha vissuto anche successivamente alla morte del padre. “Papà, carogna, ho finito”, conclude, come se fosse riuscita a scacciare una volta per tutte questa presenza dalla sua vita.
La metafora dell’Olocausto, perciò, vorrebbe sottolineare come le relazioni di potere siano simili tra loro: le connessioni carnefice-vittima, uomo-donna, padre-figlia, marito-moglie, secondo l’esperienza della poetessa, provengono tutte dalla stessa matrice che porta ripercussioni dolorose e grande sofferenza a chi le subisce.
Il terrore che Sylvia Plath aveva di suo padre Otto, il senso di impotenza di fronte al marito Ted Hughes che sembrava prosciugare la sua vitalità, la sensazione generale di essere costantemente sotto il controllo di una qualche figura maschile in quanto donna, la portarono ad assimilare le sue vicende personali a un evento storico che aveva recentemente scosso la coscienza collettiva. Quanto questa operazione sia stata efficace, quanto sia possibile empatizzarci, e quanto sia stata legittimo farlo può essere stabilito solo dalle persone che hanno subito le persecuzioni dell’Olocausto e da chi, ancora oggi, subisce gli effetti pervasivi dell’antisemitismo.
Anthony Hecht, The Hard Hours, New York: Atheneum, 1968.
Anthony Hecht, Le ore dure, traduzione a cura di Moira Egan e Damiano Abeni, Roma: Donzelli editore, 2018.
Arendt, “Prefazione alla prima edizione”, in Le origini del totalitarismo, a cura di A. Martinelli, Torino, Edizioni di Comunità 1999.
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Hannah Arendt, Enciclopedia delle Donne, data di ultima consultazione 16/01/2021.
Hannah Arendt, l’ebrea che scandalizzò il mondo mostrando la banalità dello sterminio nazista, Tempi, data di ultima consultazione 16/01/2021.
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George Steiner, On Daddy da modernamericanpoetry, data di ultima consultazione 21/01/2021
Leila Einhorn, Revisiting the Holocaust Metaphors of Sylvia Plath, coloradoreview.colostate.edu data di ultima consultazione 21/01/2021.
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