Elena Valli
Fra tutte le forme d’arte, e forse in particolar modo, la poesia è stata uno dei mezzi attraverso i quali l’umanità ha tentato di trovare un senso all’irreparabile trauma della Seconda Guerra Mondiale, di spiegarsi e confrontare i terribili orrori dell’Olocausto. Molti hanno considerato questi eventi un punto di non ritorno, una vera e propria interruzione della storia.
La loro desolazione e il loro smarrimento riecheggiano nelle parole di Adorno, secondo cui “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro, e ciò avvelena anche la consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere oggi poesie” (Adorno, 2004:326).
Per molti altri, tuttavia, la Shoah porta con sé un imperativo alla memoria e al racconto e un obbligo morale a confrontarsi con le conseguenze estreme della violenza e dell’intolleranza. Tra i primi autori a descrivere questa realtà c’è un poeta americano che ha dedicato una parte rilevante della propria carriera al dialogo con l’antisemitismo: Anthony Hecht.
Hecht nasce nel 1923 a New York, da una famiglia ebrea-americana emigrata dalla Germania da qualche generazione. Durante i primi anni della formazione universitaria, nel 1944, viene improvvisamente chiamato alle armi. Combatte in Europa, principalmente in Cecoslovacchia e in Germania. È proprio qui che dovrà confrontare la più amara realtà della guerra, resa forse ancora più amara dalla consapevolezza delle proprie origini. Il 23 aprile 1945 il suo reggimento è coinvolto nella liberazione del campo di concentramento di Flossenbürg, un distaccamento di Buchenwald. È l’unico dei suoi compagni a parlare il francese e gli viene affidato il terribile compito di interrogare le vittime e raccoglierne le testimonianze in vista dei processi.
L’esperienza è così drammatica che molti anni più tardi racconterà “[…] il luogo, la sofferenza, i racconti dei prigionieri erano oltre ogni umana comprensione. Per anni mi sono svegliato nella notte gridando.” (traduzione da Hoy, 2004:74).
In un’intervista con Philip Hoy, Hecht spiega di essere stato profondamente segnato dal toccare con mano cosa poteva scaturire dal senso di disprezzo nei confronti degli ebrei, un fenomeno che aveva avuto modo di osservare, anche se in modo blando, nella sua vita di tutti i giorni e nei circoli letterari più prominenti. La consapevolezza del fatto che lui stesso avrebbe potuto subire la stessa sorte se solo la sua famiglia fosse rimasta in Germania lo tormenterà per tutta la vita, assieme alla necessità di mantenere viva la memoria delle vittime da lui incontrate.
Porterà avanti questo compito in molti componimenti, esplorando al contempo le radici storiche dell’odio contro il mondo ebraico. Uno dei suoi tentativi più toccanti, “The Book of Yolek” (1990), è il prodotto degli anni della maturità, e offre un quadro desolante della deportazione.
La sua esperienza di guerra si unisce in questa poesia agli studi compiuti successivamente sull’argomento: la principale fonte di ispirazione è una fotografia del ghetto di Varsavia che mostra un bambino circondato dai soldati, la trama è invece fornita da “The Last Walk of Yanuz Korczak” (1978), un libro su un educatore polacco che seguì i suoi studenti ebrei nel campo di sterminio per non abbandonarli. Tra i suoi alunni c’è un bimbo chiamato Yolek.
La forma - la sestina dantesca - dà un tocco speciale a questo componimento, costringendo l’autore a ripetere alla fine di ogni verso una delle stesse sei parole in ordine sparso. Questo crea una cantilena ripetitiva e una sovrapposizione di azioni. Gli occhi di Yolek diventano i nostri, per farci vivere indirettamente la sua terribile sorte, mentre la voce del protagonista ci invita ad allineare la nostra vita – la vita di ogni uomo - alla sua.
The Book of Yolek
Wir Haben ein Gesetz,
Und nach dem Gesetz soll er sterben.*
The dowsed coals fume and hiss after your meal
Of grilled brook trout, and you saunter off for a walk
Down the fern trail. It doesn’t matter where to,
Just so you’re weeks and worlds away from home,
And among midsummer hills have set up camp
In the deep bronze glories of declining day.
You remember, peacefully, an earlier day
In childhood, remember a quite specific meal:
A corn roast and bonfire in summer camp.
That summer you got lost on a Nature Walk;
More than you dared admit, you thought of home:
No one else knows where the mind wanders to.
The fifth of August, 1942.
It was the morning and very hot. It was the day
They came at dawn with rifles to The Home
For Jewish Children, cutting short the meal
Of bread and soup, lining them up to walk
In close formation off to a special camp.
How often you have thought about that camp,
As though in some strange way you were driven to,
And about the children, and how they were made to walk,
Yolek who had bad lungs, who wasn’t a day
Over five years old, commanded to leave his meal
And shamble between armed guards to his long home.
We’re approaching August again. It will drive home
The regulation torments of that camp
Yolek was sent to, his small, unfinished meal,
The electric fences, the numeral tattoo,
The quite extraordinary heat of the day
They all were forced to take that terrible walk.
Whether on a silent, solitary walk
Or among crowds, far off or safe at home,
You will remember, helplessly, that day,
And the smell of smoke, and the loudspeakers of the camp.
Wherever you are, Yolek will be there, too.
His unuttered name will interrupt your meal.
Prepare to receive him in your home some day.
Though they killed him in the camp they sent him to,
He will walk in as you’re sitting down to a meal.
Wir Haben ein Gesetz,
Und nach dem Gesetz soll er sterben.
I carboni bagnati fumano e sibilano dopo il pasto
con la trota di ruscello grigliata, e ti metti in cammino
lungo i sentieri delle felci, non importa verso che posto,
ti basta essere mondi e settimane lontano da casa,
e sulle colline di mezza estate hai eretto il campo
negli splendori bronzo cupo del giorno
La poesia si apre con una citazione biblica dal Vangelo di Giovanni (19:7) nella quale Cristo viene condannato a morte dagli ebrei al posto del criminale Barabba, con le parole “Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire”. L’accusa agli Ebrei di essere gli uccisori di Cristo è una causa storica dell’odio nei loro confronti, qui suggestivamente citata in tedesco; gli apparenti colpevoli della morte di Gesù diventano vittime innocenti dell’odio, quando un peccato non commesso si rivolta contro di loro.
La prima sezione si apre con una scena bucolica, descritta da un protagonista apparentemente sereno. I carboni ormai spenti e il pasto consumato suggeriscono uno stato di tranquillità, mentre “le colline di mezza estate” e gli “splendori del giorno” incorniciano un paesaggio nel quale ha trovato il suo rifugio, “mondi e settimane lontano da casa”. Fin da questo momento il concetto di casa si estende nello spazio e nel tempo come luogo simbolico, luogo dal quale si fugge e che si ricrea, che adotterà successivamente nuovi significati.
che finisce. Ti ricordi, in pace, un altro giorno
da bambino, ricordi uno specifico pasto:
una grigliata di pannocchie e un falò al campo
estivo. Quell’estate ti perdesti sul Cammino
Natura; più di quanto non ammetta, pensavi a casa;
nessun altro sa verso chissà quale altro posto
L’enjambement tinge di un significato più malinconico “il bronzo cupo del giorno” e la voce ricorda con nostalgia un pasto consumato durante l’infanzia.
Le pannocchie e il “falò da campo” animano benevolmente un momento vissuto da bambino e la serenità del momento è appena scalfita dal ricordo di un’inquietudine comune alle prime esperienze nel mondo: “più di quanto non ammetta, pensavi a casa”. Nonostante la ripetizione del presente - quasi imperativo - “ricordi”, una necessità che già fa capolino nella poesia, la coda di ogni verso ha una connotazione positiva, congruente con la vita presente: il “Cammino Natura” è ora un cammino nel bosco nel quale perdersi volutamente, il campo estivo è divenuto un “campo” dove rifuggire la vita quotidiana, ed ogni elemento inquietante è divenuto familiare, è stato assimilato nel normale processo della crescita.
la mente vaga. 1942, il 5 agosto.
Era mattino, faceva un caldo cane. Fu il giorno
che vennero all’alba coi fucili alla Casa
del Bambino Ebreo, interrompendo il pasto
di pane e zuppa, mettendoli in fila sul cammino
in formazione stretta verso un particolare campo.
Come “la mente vaga”, così fa l’ultimo verso della sezione precedente, che riproducendo il flusso di pensiero del protagonista sfocia, con una nuova sezione, in un nuovo ricordo. Ciò che rende insostenibile l’orrore dei campi di sterminio è la consapevolezza del dolore inflitto a un essere umano non dissimile da se stessi.
È così che nella sestina le azioni si ripetono, assieme agli stessi finali di frase scombinati, apparentemente allo stesso modo per il “Bambino Ebreo” del rifugio.
Nella realtà, ogni cosa viene contaminata dalla cruda ombra della violenza. Il calore dell’estate non è un abbraccio rassicurante ma un disagio per i bambini come Yolek, il cui pasto - non una grigliata, ma una semplice zuppa – viene interrotto dai fucili. Nel loro immediato futuro, per un destino perverso, non ci sono campi estivi e spaventi effimeri ma il campo di lavoro, “particolare” in ogni possibile accezione negativa e ancora a lui sconosciuta.
Nel normale contesto vitale, fatto di “giorno”, “pasto” “cammino”, parole che scandiscono la vita, anche il concetto più familiare e vicino all’uomo, quello di “casa”, viene svuotato di ogni significato quando legato a un complemento di specificazione che crea, appunto separazione e discriminazione: “la Casa del Bambino Ebreo”.
Il libro di Yolek, introdotto dalle parole di San Giovanni, diventa uno dei libri dei profeti, incaricato però di consegnare un messaggio privo di speranza. Come il peccato originario separa Dio dall’uomo e corrompe la perfezione del linguaggio, così l’antisemitismo perverte ogni legame umano e semantico.
Quante volte hai pensato a quel campo,
come se in modo arcano ti spingessero a quel posto,
e ai bambini, a come furono costretti al cammino,
Yolek che era debole di polmoni, e nemmeno un giorno
oltre i cinque anni, cui si impose di lasciare il pasto
e trascinarsi tra guardie armate a quella lunga casa.
La consapevolezza di questa disparità provoca assoluta empatia nei confronti di Yolek, tanto che il protagonista non può scindere la propria esperienza dalla sua. Yolek lo segue come uno spettro, e ogni sua sensazione, rivissuta, diventa una dolorosa ossessione: “come furono costretti al cammino”, “cui si impose di lasciare il pasto/ e trascinarsi”, come i polmoni di Yolek fossero deboli e lui avesse, secondo un’espressione che vuole rimarcare il paradosso della violenza contro i deboli “non un giorno oltre i cinque anni”.
La sequenzialità delle coordinate, la ripetizione del “Come” tradiscono l’ossessione di una mente che non può giungere a un compromesso con quanto deve confrontare.
Di nuovo agosto s’avvicina. Ci porterà a casa
i consueti tormenti di quel campo
in cui Yolek fu spedito, il suo piccolo pasto
interrotto, le reti elettrificate, il numero apposto
nel tatuaggio, la calura straordinaria del giorno
in cui tutti vennero forzati a quel terribile cammino.
L’agosto che ritorna allinea le sorti del protagonista, del protagonista da bambino e di Yolek, preso come simbolo della vittima indifesa. Il mese più caldo diventa il mese dei forni crematori, una associazione che nemmeno i “carboni bagnati” del presente possono esorcizzare. La forma ripetitiva della sestina enfatizza l’associazione tra i tre, e soprattutto traduce da un punto di vista formale la ripetizione neurotica di un ricordo incancellabile. Le stesse frasi di prima - la camminata, il pasto interrotto, la vita lasciata a metà – vengono riportate con una minima variazione, e si aggiungono dettagli della vita nei campi: “le reti elettrificate” opposte agli sterminati paesaggi boschivi di una normale infanzia e “il numero apposto/del tatuaggio”, che denotano la degradazione dei prigionieri allo stato di animali in gabbia.
Che si tratti di un silenzioso, solitario cammino
O che ti trovi tra la folla, lontano o al sicuro a casa,
ti ricorderai, sempre, impotente, quel giorno,
l’odore di fumo, gli altoparlanti del campo.
Ovunque ti trovi, ci sarà anche Yolek in quel posto.
Il suo nome impronunciato interromperà il tuo pasto.
La poesia vuole sottolineare come la violenza subita da Yolek generi tanta altra violenza, propagata all’osservatore e a tutta l’umanità: anche se siamo in un “solitario cammino” o “tra la folla”, ci troveremo a fronteggiare sia il senso di soffocamento provocato dal ricordo che non svanisce sia la costrizione al ricordo.
Hecht costruisce così, in forma dialettica, la differenza tra vittima e testimone, tra pericolo e salvezza, tra il desiderio di non ricordare e l’impossibilità di dimenticare. Questo contrasto si dipana accanto alla descrizione del campo di sterminio, costruito nel corso del componimento da un accumularsi di immagini (il fumo, gli altoparlanti si aggiungono alla descrizione).
È solo alla fine dell’ultimo distico che ogni paradosso si unisce nell’ottica di una prospettiva più ampia e primordiale, la natura umana che ci accomuna, capace di trascendere spazio e tempo: “Ovunque ti trovi, ci sarà anche Yolek in quel posto”, un posto che è stato declinato come casa, campo di sterminio, vallata o prigione in tutti i versi precedenti, e le cui coordinate non sono più importanti.
Preparati a riceverlo a casa tua un giorno:
anche se l’hanno ucciso in quel campo, quell’agosto,
alla fine del cammino entrerà da te mentre cominci il pasto.
In questa sintesi finale, tutti diventiamo fratelli nella violazione di diritti fondamentali, e tutti soccombiamo alla logica del male, sempre destinato a generare altro male: l’infanzia senza ombre del testimone è avvelenata dall’infanzia rubata di Yolek, così come il suo presente. Tutto il tempo è contaminato dal ricordo che si espande, e secondo uno schema che si ripete: “il suo nome impronunciato “interromperà il tuo pasto” - come il suo è stato interrotto.
La terzina finale, volutamente dimezzata e conclusiva, vuole essere un monito al lettore; dopo essere stata coinvolta in un dialogo con se stessa e con Yolek la voce, diventata la nostra stessa voce, si rivolge a noi. Nemmeno noi possiamo sfuggire al fantasma dell’olocausto, un incubo generato dalla vita spezzata che si ripercuote sulla vita.
Auschwitz non ha ucciso la poesia, ma il suo ricordo la perseguita come un fantasma, il fantasma al contempo del rimorso e del terrore che è proprio dei sopravvissuti e dei privilegiati.
Adorno, Theodor, Dialettica negativa, Einaudi (2004)
Hecht, Anthony, The Book of Yolek. In The Transparent Man, Oxford UP (1991), p. 73
Hecht, Anthony, Il Libro di Yolek (trad. a cura di Moira Egan e Damiano Abeni). In Le ore dure, Donzelli poesia (218)
Hoy, Philip, Anthony Hecht in Conversation with Philip Hoy. Between the lines (2004)
Foto 1 da poesiadelnostrotempo.it (data di ultima consultazione 20/07/21 )