Giulia Regoli
Gli Argonauti (2015) è un libro scritto dall’autrice statunitense Maggie Nelson molto difficile da definire: un saggio, un diario, un’autobiografia, tutte queste cose insieme.
Forse la definizione più adatta sarebbe quella di una lunga riflessione che parte dalla storia personale della scrittrice - in particolare, dalla sua relazione con l’artista transgender Harry Dodge - per abbracciare tematiche che possono essere universali: la costruzione della propria identità; l’esperienza della maternità; l’andare oltre delle definizioni che, invece di liberare, intrappolano.
La narrazione è quella di uno spaccato della vita della scrittrice: la sua storia d’amore con Harry, la ricerca della maternità e la gravidanza, il percorso di transizione affrontato dal suo compagno di vita.
Pagina dopo pagina, le parole di Nelson scorrono affiancate da quelle di nomi del calibro di Eve Kosofsky, Audre Lorde, Roland Barthes, e molti altri, nel tentativo di affermare la dignità della fluidità come luogo in cui si può vivere trovando il proprio io.
“How to explain, in a culture frantic for resolution, that sometimes the shit stays messy?” (Com’è possibile, in una società in cui tutto è bianco o nero, spiegare che il rifiuto del binarismo non è una perenne indecisione, ma la propria identità?, ndt.).
In Gli Argonauti, il racconto della storia di Harry Dodge si colloca proprio in questa cornice: Harry usa i pronomi maschili e Nelson narra del suo percorso di transizione FtoM, ma è una persona non-binary genderfluid, che non si riconosce cioè sempre e solo in un determinato genere (uomo o donna).
Com’è costretto spesso a precisare, “I’m not on my way anywhere” - tutto questo non è una ricerca, ma un punto di arrivo nella conoscenza di se stesso.
Nelson non parla solamente dell’identità di lui: il punto cardine di Gli Argonauti è soprattutto il loro rapporto, il loro modo di vivere un amore che esula dagli schemi sociali predefiniti e anche da quelli che si stanno ricreando.
I due sfidano ogni giorno un mondo eteronormativo - che vede nella coppia uomo-donna l’unica relazione sentimentale possibile - e anche molte delle invisibilizzazioni portate avanti dalla comunità LGBT+ stessa, che presta attenzione solamente a determinate battaglie, tralasciando quelle di moltissime altre persone che non possono riconoscersi in questa società.
La soluzione non è la ripetizione delle dinamiche oppressive da parte degli oppressi - per così dire la creazione di un’omonormatività - ma piuttosto la continua messa in discussione di questi assiomi tramite una comunità libera da etichette (una società cosiddetta queer) per dare vita a spazi di ascolto e comprensione.
Pagina dopo pagina, in Gli Argonauti diventa sempre più evidente come per Nelson queer non sia solo una parola, un termine ombrello: è un’esperienza di vita fluida, la percezione che non esistano opposti che si escludono, ma molteplici parti di sé che cambiano nel tempo pur combaciando sempre.
L’esempio che calza a pennello nella descrizione di questo concetto è l’esperienza della gravidanza fatta da Nelson: una trasformazione radicale, la coesistenza dell’io e dell’altro nello stesso corpo, la realizzazione che il continuo mutamento è gioia in sé e non qualcosa che la porterà.
“Is there something inherently queer about pregnancy itself, insofar as it profoundly alters one’s ‘normal’ state, and occasions a radical intimacy with - and radical alienation from - one’s body?”(p. 13).
La gravidanza (frutto di un’inseminazione artificiale) diventa l’occasione per parlare di come non esista una gerarchia di modi più o meno giusti di formare una famiglia o di vivere la maternità: Nelson è una madre che aspetta e desidera suo figlio insieme al compagno: “insemination after insemination, wanting our baby to be” (p. 77).
Oltre i concetti sociali di giusto e sbagliato, arbitrariamente stabiliti ai danni di chi non rientra in quella che è la norma, esistono sentimenti e mondi interiori la cui validità esiste a prescindere, anche se troppo spesso non viene riconosciuta.
Queer allora significa superare questi confini e vivere nel mezzo: non come in un limbo, aspettando di arrivare a uno degli opposti, ma rendendo le sfumature parte della propria identità.
Spesso le definizioni arrivano a eliminare questa complessità, cancellando di conseguenza parti fondamentali della propria vita e della propria esperienza:
“[...] Words are not good enough. Not only not good enough, but corrosive to all that is good, all that is real, all that is flow. We argued and argued on this account, full of fever, not malice. Once we name something, you said, we can never see it the same way again. All that is unnameable falls away, gets lost, is murdered” (p. 4).
Se le parole non bastano, se uccidono tutto ciò che scorre e cambia, se modificano il modo di vedere le cose al punto da appiattirle e banalizzarle, come può la lingua aiutare nel trovare una definizione di sé che esuli dal binarismo per cui tutto è giusto o sbagliato, normale o anormale?
Questo è il punto di Gli Argonauti ed è anche il motivo per cui è stato scelto questo titolo: come la nave Argo - che portò Giasone e gli Argonauti alla conquista del vello d’oro nella mitologia greca - manteneva il suo nome pur cambiando le sue parti, così la lingua deve offrire nuove sfumature e nuovi significati, senza però snaturarsi o stravolgersi.
Parlando della sua gravidanza, della sua relazione e della sua famiglia, nello spazio breve di circa centocinquanta pagine, Nelson riesce a decostruire i canoni di normalità dettati dal contesto sociale e a dare dignità a un modo di vivere che rifiuta questi stereotipi, oltrepassandoli ogni giorno.
Oltre il binarismo e l’illusione degli opposti, è lì che bisogna indagare e iniziare a costruire un’identità che sia davvero libera e che appartenga solamente a sé.
Nelson, Maggie, Gli Argonauti, 2015.
The Argonauts, goodreads.com (ultima consultazione 29/08/2021).