Giulia Regoli
Negli anni, la rappresentazione della sofferenza femminile ha attraversato diverse prospettive. Se, infatti, la prospettiva maschile (male gaze) da secoli domina il mondo della letteratura, dell’arte e dei media, di recente sono emerse sempre più donne che raccontano della propria o altrui condizione, provando a far passare un’immagine complessa e sfaccettata del dolore e delle reazioni da esso provocate. In questo contesto si collocano nomenclature come sad girl (ragazza triste), dissociative feminism (femminismo dissociativo), unhinged woman (donna svitata): tutti tentativi di rivoluzionare lo spazio mediatico conferito alle donne che, però, presentano le loro criticità.
Nel contesto sociale di radice patriarcale in cui viviamo, le donne subiscono vari tipi di discriminazioni e oppressioni che hanno delle conseguenze non indifferenti a livello psicologico.
Le femministe della seconda ondata negli anni Sessanta - specialmente negli Stati Uniti - avevano iniziato a far notare questa differenza intrinseca a un sistema ancora binario rispetto al genere. Nel dettaglio, Betty Friedan provava a definire questo senso di malessere collettivo nel suo The Feminine Mystique (1963): un saggio in evidenzia un disagio psicologico condiviso, circa i ruoli che la società imponeva alle donne e a cui, loro malgrado, non potevano sfuggire.
Spostandoci poi su un piano più prettamente estetico, l’attenzione posta sull’aspetto fisico e sui modi di fare di persone di genere femminile è stata indagata in testi come The Beauty Myth (1990) di Naomi Wolf, ponendo l’accento su come gli standard di bellezza siano una forma di controllo rispetto a queste soggettività e arrivino a causare importanti stress a livello psico-fisico.
In questo senso, la rappresentazione della tristezza femminile (in reazione a un sistema violento sulla base del genere) è stata rivendicata dalle donne che hanno voluto centrare la propria esperienza. Fino ad allora c'era stato spazio solo per quella descritta dagli uomini, attraverso il cui sguardo essa veniva appiattita e privata di ogni significato politico.
Riprendendosi questo spazio mediatico, sono molti oggi i personaggi femminili che soffrono su uno schermo o tra le pagine di un libro in maniera molto più sincera e più ascrivibile alla realtà. Il problema, però, rimane il fatto che il dominio del male gaze porta ancora oggi con sé degli strascichi che influenzano persino le rappresentazioni più prettamente femminili: come scriveva Margaret Atwood nel suo The Robber Bride, “you are a woman with a man inside watching a woman” (1993: 392), esemplificando questa tendenza voyeuristica delle donne a osservarsi dall’esterno attraverso quello che hanno appreso dallo sguardo maschile.
Per questo motivo, il rischio dell’appiattimento della figura della sad girl continua a essere estremamente presente, soprattutto in ottica di una certa esaltazione estetica che spoglia la tristezza di ogni radice politicizzata. Il pericolo è quello che la tristezza femminile, assieme alla unhinged woman (donna considerata folle per avere reazioni esplosive o esagerate) diventi un tropo letterario, televisivo e cinematografico, livellando la complessità dei vissuti e riducendo tutto a un solo standard.
Se, infatti, il dolore si fa performance, si perde poi la causa del dolore, che questo tipo di rappresentazioni punta a smantellare. Come scrive Jamison (2014), questa trasposizione, in certi casi, può diventare il pretesto perfetto per trascurare la realtà di questa sofferenza, romanticizzandola o idealizzandola:
“We may have turned the wounded woman into a kind of goddess, romanticized her illness and idealized her suffering, but that doesn’t mean she doesn’t happen.”
Quando entra in gioco una tristezza che si rifà più alla rassegnazione, ci sono stati dei prodotti mediatici che hanno rappresentato la sofferenza femminile attraverso l’auto-sabotaggio, il sarcasmo, una prospettiva fatalista e l’uscire fuori da sé.
L’emblema di tutto ciò è la serie tv Fleabag (2019) di Phoebe Waller-Bridge, in cui la protagonista in situazioni di disagio, rompe la quarta parete e si dissocia dalla realtà adottando l’ironia come meccanismo di coping, cioè come metodo per superare delle difficoltà particolarmente stressanti.
Da qui, secondo la scrittrice Emmeline Clein, nasce l’era del dissociative feminism (femminismo dissociativo) in cui il distacco emotivo e il ritiro sociale fanno da padroni. L’esperienza centrale è - appunto - quella della dissociazione: nei momenti climatici più importanti, il personaggio interessato esce dal proprio corpo e si guarda in terza persona. L’atto del sorvegliarsi dall’esterno, dice Clein (2019), non è niente di nuovo per una donna, che comincia a farlo da molto giovane, già soltanto nell'atto di dover scegliere cosa indossare e come truccarsi in base alle situazioni:
“Most girls learn to dissociate early, usually in early adolescence but really whenever we first notice the way our outfits and makeup or lack thereof can provoke reactions. Quickly, we adopt the daily, quotidian dissociation of getting dressed in the morning or prepared to go out at night, a process that involves stepping outside your body to see it from the outside, and dressing it depending on the occasion.”
Per cui, se già da piccole e nelle situazioni più quotidiane si inizia a uscire da sé per controllare di essere sempre composte, perfette e il più possibile aderenti agli standard sociali femminili, va da sé che ci sia una più facile propensione a farlo soprattutto quando ci si trova immerse in un disagio che non si vuole o non si può sopportare. Il tentativo è, perciò, quello di rappresentare un’esperienza abbastanza comune, che però incontra alcune criticità riguardo a un discorso di privilegi sociali.
Infatti, la donna rappresentata è molto spesso aderente a degli standard di conformità, in termini estetici: “pretty, white, cisgender, and tortured enough to be interesting but not enough to be repulsive. Often described as relatable, she is, in actuality, not” (Liu, 2019). Il soggetto quindi si può permettere di avere determinati atteggiamenti senza per forza subire uno stigma che sia di natura psichiatrica, razziale o abilista. La rappresentazione allora rimane comunque godibile, sia a livello psicologico che estetico, rischiando di far passare un’immagine edulcorata dell’angoscia e della rassegnazione che questi personaggi stanno effettivamente sperimentando sulla loro pelle.
Il femminismo dissociativo diventa, così, uno dei metodi di contrasto rispetto all’appiattimento e alla patologizzazione che si riserva verso le soggettività socialmente riconosciute e classificate come donne, ma bisogna anche comprenderne i pericoli, che si rifanno soprattutto alla possibilità di assimilazione a un femminismo privilegiato, come quello bianco (white feminism, ndr.).
Se il personaggio di Fleabag può essere considerato una sorta di archetipo di riferimento del femminismo dissociativo, la presenza di svariati personaggi afferibili a quella sfera dimostra quanto il fenomeno sia sparso e, di conseguenza, quanto l’esperienza della dissociazione sia comune nel genere femminile. In particolare, nel mondo letterario, ci sono delle autrici che hanno molti punti di contatto con questa dimensione: una su tutte, Ottessa Moshfegh.
I personaggi che popolano i suoi testi vivono sempre in una sorta di ibernazione da molti punti di vista: hanno una vita particolarmente ordinaria senza avere le energie per cambiarla; attuano comportamenti autodistruttivi; sentono la loro esistenza come insignificante e fanno esperienza di pessime condizioni sociali, economiche o familiari. Su questa tematica, il suo romanzo più rilevante è My Year of Rest and Relaxation (2018), in cui la protagonista vuole prendersi - come è tradotto il titolo nella pubblicazione italiana del 2019 - un anno di riposo e oblio. Per farlo, rimane a casa e assume continuamente dei farmaci per anestetizzare la sua mente, dopo aver perso entrambi i genitori e la voglia di vivere. Il suo obiettivo è quello di reincarnarsi dopo questo periodo di tempo: di rinascere in una maniera più consona alle sue aspettative, di distaccarsi completamente dal suo modo di affrontare la vita per crearne un altro che le dia molta più soddisfazione e incentivi a continuare.
L’alienazione, in questo caso, è ricercata anche nelle forme di contatto e di trasmissione più tipiche dell’epoca contemporanea: la protagonista nasconde il telefono per non guardarlo; passa ore a guardare la tv, solo per sentire di non esistere. In più, la scrittura in prima persona favorisce un’identificazione con il personaggio, nel tentativo di far comprendere le logiche dietro alle sue azioni ed empatizzare con le emozioni vissute.
La protagonista, in ogni caso, è una donna bianca di classe privilegiata, fattore che rende possibile tutta una serie di comportamenti che non sarebbero altrimenti fattibili. Lei come altri personaggi ascritti in questo universo hanno delle connotazioni problematiche, poiché rimangono privilegiate anche nell’angoscia e decidono di nascondersi semplicemente perché possono farlo, ignorando il fatto che esistono altre donne a cui questa tregua non viene concessa:
“These women are tortured and unpleasant yet interesting; they have the resources to remove themselves from oppression and thus feel no need to fight for the rights of women without said resources” (Peyser, 2022).
Le anti-eroine che possono permettersi di ritirarsi nella loro tristezza e apatia - dovuta comunque a un sistema che le discrimina in quanto donne - sono privilegiate nel loro essere bianche, cisgender, con un corpo conforme agli standard sociali e di classe almeno media. Come Ottessa Moshfegh, anche altre scrittrici hanno creato personaggi simili: da Kristen Roupenian con il suo racconto Cat Person (2017), in cui la protagonista si dissocia durante un incontro di natura sessuale avuto con un uomo da cui è a tratti disgustata e a tratti attratta, fino alle persone che si incontrano nei romanzi di Sally Rooney, la cui passività e rassegnazione sono segni tipici di riconoscimento. Il femminismo dissociativo si è diffuso, così, in ambito letterario, provando a rappresentare la tristezza femminile in una maniera che, a volte, arriva ad apparire anche controproducente.
Il femminismo dissociativo è un fenomeno importante per l’epoca in cui viviamo, perché traspone a livello letterario, televisivo e cinematografico una tendenza femminile al distacco e all’autosorveglianza derivata da traumi di radice prettamente patriarcale e da condizioni di vita influenzate da standard sociali non indifferenti. Eppure, questa forma di dissociazione rimane un privilegio che si possono prendere solamente delle persone che - chiamando in causa il concetto di intersezionalità - hanno dei vantaggi che riguardano la razzializzazione, la classe sociale e la conformità.
Sebbene questa rappresentazione della condizione della sofferenza femminile sia importante - perché effettivamente sperimentata da molte persone che vi si ritrovano - il rischio è quello di produrre anche un filone di interpretazione che contribuisce ulteriormente all’appiattimento delle figure in questione, come succede nei prodotti mediatici in cui domina il male gaze. Quando si parla di genere, in particolare di quello femminile, si tende ad avere una visione voyeuristica del dolore, fattore che inevitabilmente avvalora i concetti di unidimensionalità e assimilazione che si cerca di combattere. Infatti, come spiega bene Jamison (2014), la sofferenza delle donne viene indagata più per curiosità che per altro e viene spesso idealizzata, provocando un distacco dalla realtà che ne annulla il potenziale sovversivo:
“The pain of women turns them into kittens and rabbits and sunsets and sordid red satin goddesses, pales them and bloodies them and starves them, delivers them to death camps and sends locks of their hair to the stars. Men put them on trains and under them. Violence turns them celestial. Age turns them old. We can’t look away. We can’t stop imagining new ways for them to hurt.”
Atwood, Margaret. The Robber Bride. Anchor, 1998.
Clein, Emmeline. “The Smartest Women I Know Are All Dissociating”, su BuzzFeed News (data di ultima consultazione: 04/07/2023).
Friedan, Betty. The Feminine Mystique. Penguin Books, 2010.
Garland, Emma. “Enter the Fleabag era: What does it mean to be a ‘dissociative feminist’?”, su Dazed (data di ultima consultazione: 04/07/2023).
Jamison, Leslie. “Grand Unified Theory of Female Pain”, su VQR (data di ultima consultazione: 04/07/2023).
Liu, Rebecca. “The Making Of A Millennial Woman”, su Another Gaze (data di ultima consultazione: 04/07/2023).
Moshfegh, Ottessa. Il mio anno di riposo e oblio. Feltrinelli, 2019.
Peyser, Sophia. “The ‘Fleabag’ Era of Dissociative Feminism Must End”, su Lithium Magazine (data di ultima consultazione: 04/07/2023).
Roupenian, Kristen. Cat Person. Einaudi, 2019.
Wolf, Naomi. The Beauty Myth: How Images of Beauty are Used Against Women. Vintage Books, 1991.
Foto 1 da Strike Magazines.
Foto 2 da Just About TV.
Foto 3 da NPR.