Giulia Regoli
I nomi di Anne Sexton e Sylvia Plath riecheggiano ancora oggi nel mondo della letteratura quasi come se fossero una maledizione. Entrambe donne, poete, scrittrici, con le loro parole diedero voce al disagio della condizione femminile e sfidarono la stratificazione di una società che non permetteva loro di scegliere. Le loro morti, nell’immaginario comune, sono rimaste più impresse delle loro vite, che invece sono piene di spunti, riflessioni e messaggi ancora attuali. Sia attraverso le loro parole, che tramite il loro rapporto personale, sono state due figure importanti che hanno raccontato la complessità della loro esistenza.
Anne Sexton nacque nel 1928 in Massachussets. L’ambiente familiare era per lei estremamente ostile, tra la dipendenza da alcool del padre e l’ipotesi di abuso presente nella biografia Anne Sexton. Una vita (1991) di Diane Middlebrook. Inoltre, anche l'ambiente scolastico era per lei soffocante, poiché dopo le varie disobbedienze venne iscritta dai genitori a un istituto professionale in cui le donne imparavano sostanzialmente come essere delle buone madri e mogli. Per questo motivo decise di scappare nel 1947 con Alfred Muller Sexton, che poi sposò.
Già da questa breve panoramica biografica sui primi anni della sua vita, si può notare come Anne Sexton abbia vissuto sulla sua pelle delle limitazioni che hanno poi condizionato la sua scrittura, le sue decisioni e anche la sua salute mentale. Infatti, in un’intervista rilasciata alla Paris Review nel 1968 e riportata sull’Enciclopedia delle donne, lei stessa dichiarò di soffrire molto della mancata soddisfazione che aveva nel ricoprire il ruolo di moglie e madre, tanto da arrivare a tentare il suicidio:
“Ero una vittima del Sogno Americano, il sogno borghese della classe media. Tutto quello che volevo era un pezzettino di vita, essere sposata, avere dei bambini. Pensavo che gli incubi, le visioni, i demoni, sarebbero scomparsi se io vi avessi messo abbastanza amore nello scacciarli. Mi stavo dannando l’anima nel condurre una vita convenzionale, perché era quello per il quale ero stata educata, ed era quello che mio marito si aspettava da me… Questa vita di facciata andò in pezzi quando a ventotto anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi.”
La perenne tensione tra il voler aderire alle aspettative e il disagio che si prova quando si arriva a farlo; il divario tra la paura di desiderare qualcosa di altro e di più, e il sentimento di dovere legato alla prospettiva di rientrare in canoni specifici: questi sono tutti elementi che Anne Sexton ha sperimentato fin da adolescente e che negli Stati Uniti della metà del Novecento erano comuni alla condizione femminile. Anche Sylvia Plath ne ha scritto in abbondanza.
Come Sexon, lei nacque in Massachussets, ma quattro anni dopo, nel 1932. Nonostante la vicinanza geografica, però, le due poete si conobbero solo nel 1959 grazie alla loro attività artistica.
Plath ha parlato molto (specialmente nel suo romanzo semi-autobiografico La campana di vetro) di come la sua ambizione di scrittrice sia stata sempre inconciliabile con il suo essere donna. Il suo desiderio di voler portare avanti sia una carriera, sia una famiglia, sia di realizzarsi a livello personale, si scontrava continuamente con una società in cui le figure femminili venivano incasellate in etichette specifiche.
Inoltre, il suo rapporto con gli uomini - a partire dal padre, morto quando lei era piccola e quindi assente, fino ad arrivare al matrimonio burrascoso col poeta Ted Hughes - ha contribuito ad appesantire questa situazione di estremo disagio, esasperando il suo malessere.
Anne Sexton e Sylvia Plath vengono quindi spesso accomunate per le loro diagnosi di disturbo mentale, per i tentati suicidi e per la vicinanza alla morte. In realtà, il loro rapporto di amicizia si reggeva su delle solide basi che riguardavano soprattutto il loro modo di vedere il mondo e la loro espressione artistica attraverso la poesia.
Quando le due scrittrici si incontrarono per la prima volta, Sylvia Plath aveva 26 anni, mentre Anne Sexton 30.
Era il 1959, e alla Boston University si teneva un workshop di scrittura con il poeta Robert Lowell, considerato uno degli iniziatori della poesia confessionale, stile a cui sono poi state assimilate anche le due autrici. Tramite quel seminario hanno gettato le basi per un rapporto di amicizia in cui condividere molto di sé, persino le parti più oscure.
Nel libro Three-Martini Afternoons at the Ritz: The Rebellion of Sylvia Plath & Anne Sexton (2021), Gail Crowther narra proprio di come dopo ogni lezione si trovassero al Ritz a bere e a discutere di qualsiasi argomento, dalla morte alla poesia, dal sesso al suicidio. Lo raccontò Sexton stessa in una lettera indirizzata a Charles Newman, direttore della rivista Tri-Quarterly - e tradotta in italiano sulla rivista Pangea:
“Orbitavamo silenziosamente intorno alla classe e poi, dopo ogni lezione, ci infilavamo nella mia vecchia Ford e sfrecciavamo nel traffico verso il Ritz, o lì vicino. Parcheggiavo sempre davanti a un cartello ‘Zona di carico’ e dicevo loro ‘Va bene, perché adesso andiamo a caricarci’ e ci infilavamo nel Ritz a bere tre o quattro Martini… Spesso, molto spesso, Sylvia e io parlavamo a lungo dei nostri primi tentativi di suicidio, a lungo, nel dettaglio, in profondità, tra una nocciolina e l’altra. Il suicidio è, dopotutto, l’opposto della poesia. Sylvia e io discutevamo spesso di opposti.”
La loro relazione era ribelle proprio nell’abbracciare lati che a volte sembra sia impossibile far coesistere: Sexton e Plath si confidavano, parlavano dei loro più intimi disagi, ma allo stesso tempo erano due poete donne immerse in una società misogina. Questo fattore ha inciso molto anche sulla rivalità cresciuta tra loro, sull’invidia che provavano l’una per l’ambizione dell’altra, per la bravura, per le parole. Ciononostante, il sentimento che le legava non era meno vero.
“We talked death - she said - and this was life for us” (“Parlavamo della morte - diceva - e questo per noi rappresentava la vita”, ndr.), così Joyce Carol Oates, in un suo articolo per il New York Times, riporta le parole di Anne Sexton a proposito delle conversazioni che aveva con Sylvia Plath.
L’ammirazione che avevano l’una per l’altra poteva anche trasformarsi in gelosia, ma la loro prospettiva condivisa sulle cose era un materiale molto resistente su cui costruire questo scambio. Parlando di morte - anche della loro - erano capaci di parlare di ciò che era la loro vita, sia tra di loro che nelle loro poesie.
Sia Sylvia Plath che Anne Sexton sono morte per suicidio a circa dieci anni di distanza: la prima nel 1963, la seconda nel 1974. La fine della loro vita, insieme alle loro turbolente esperienze di disagio a livello psichico, le ha portate a essere ricordate come poete “maledette”, sempre tese verso la morte e con un lato oscuro che ancora non si può completamente comprendere. La critica ha spesso letto le loro opere alla luce di ciò, invece che analizzare e riconoscere la potenza e la presa che hanno avuto e hanno tutt’ora su un grande pubblico.
Il loro incontro era stato fonte inesauribile di supporto emotivo e artistico: moltissime erano le cose che condividevano, sia in positivo che in negativo, e i confronti che avevano sulla complessa situazione di essere due scrittrici in un mondo letterario prettamente maschile. Il loro scambio di lettere testimonia questo legame tanto complesso quanto profondo, dato che si protrasse a lungo, persino quando una viveva negli Stati Uniti e l’altra in Inghilterra. Anche dopo la morte di Plath, questi elementi si ritrovano nella voce di Sexton, che non solo era sua amica, ma anche sua grande ammiratrice, al punto da provare invidia per lei.
Nella poesia Sylvia’s Death, i suoi versi portano alla luce aneddoti di vita, sentimenti di rabbia e affetto, espressioni di dolore per una mancanza sentita a livello profondo. La figura di Plath e il suo ultimo gesto vengono inserite in un contesto estremamente quotidiano, evitando la demonizzazione del suo suicidio - costruendo i versi come se fossero parte di una di quelle conversazioni tra un drink e l’altro, diventata però tristemente monologo:
“Sylvia, Sylvia / where did you go / after you wrote me / from Devonshire / about raising potatoes / and keeping bees?”
Allo stesso tempo, dalle parole di Anne Sexton trapela non solo la frustrazione di aver perso una figura importante, ma anche la rabbia che Plath fosse arrivata alla conclusione prima di lei, senza coinvolgerla, raggiungendo ciò che tentavano insieme di esorcizzare parlandone:
“Thief — / how did you crawl into, / crawl down alone / into the death I wanted so badly and for so long, / the death we said we both outgrew, / the one we wore on our skinny breasts, / the one we talked of so often each time / we downed three extra dry martinis in Boston, / the death that talked of analysts and cures, / the death that talked like brides with plots, / the death we drank to, / the motives and the quiet deed?”
In un lungo dialogo pieno di domande che non avranno mai risposta, Sexton continua a chiederle come abbia potuto arrivare alla morte così in fretta - quella stessa morte che anche lei desiderava così tanto e di cui tanto avevano discusso, quasi come se si sentisse tradita dal suo gesto.
Nel suo articolo The Barfly Ought to Sing (1970), Anne Sexton parla di lei e Sylvia Plath come due falene inevitabilmente attratte dalla luce della morte: infatti, nonostante le sue parole di rammarico e quasi di biasimo nei confronti dell’amica, qualche anno dopo anche lei avrebbe compiuto il suicidio, rimanendo così iscritta in una fantasmatica dimensione di presenza/assenza che circonda le scrittrici che esternano i pensieri più bui delle loro menti.
Il rapporto di amicizia esistito tra Anne Sexton e Sylvia Plath è stato complesso sotto molti punti di vista, come complessa era la loro situazione di donne negli Stati Uniti degli anni ‘50.
Sebbene si aiutassero molto sfogandosi a vicenda su diverse tematiche e dandosi man forte nello sgomitare in un mondo prettamente dominato da uomini, c’erano anche dei motivi di invidia ricorrenti tra le due, dovuti principalmente alle loro ambizioni immerse nella società patriarcale.
Inoltre, le similitudini che spesso si ritrovano tra le loro biografie personali, il loro stile poetico e, soprattutto, i loro malesseri a livello mentale, hanno portato a una sorta di consacrazione delle due scrittrici, per cui sono diventate emblemi di femminilità e sofferenza a scapito della loro stratificazione artistica e personale. Infatti, come nel loro rapporto conversavano di morte e di suicidio per dire in realtà molto altro, così con le loro parole apparentemente fitte e oscure comunicano messaggi di straordinaria importanza, sia per la società dell’epoca che per quella attuale.
Le due autrici si sono supportate, emozionate, invidiate e forse anche un po’ odiate in una mistura di emozioni e sentimenti che appartengono proprio alla complessità di riconoscersi come donna, nel tentativo forse disperato di affrontare il dolore che questo comporta e che in The Unabridged Journals of Sylvia Plath (2000:77) Plath descrive come “being born a woman is my awful tragedy”.
Crowther, Gail. Three-Martini Afternoons at the Ritz, 2021
Gambino, Valentina. “‘Intensa, perspicace, strana, bionda, dolce… tra un Martini e qualche nocciolina io e Sylvia parlavamo di suicidio’. Due lettere di Anne Sexton”, su Pangea (data di ultima consultazione: 24/09/2023)
Middlebrook Wood, Diane. Anne Sexton. Una vita, 2005
Newman, Charles. The Art of Sylvia Plath: A Symposium, 1970
Oates, Joyce Carol. “Singing the pathologies of our time”, su New York Times (data di ultima consultazione: 24/09/2023)
Petrassi, Elena. “Anne Gray Harvey Sexton”, su Enciclopediadelledonne.it (data di ultima consultazione: 24/09/2023)
Plath, Sylvia. The Unabridged Journals of Sylvia Plath. Anchor Books, 2000
Sexton, Anne. “Sylvia’s Death”, su All Poetry (data di ultima consultazione: 24/09/2023)
Foto 1 da Limina Rivista.
Foto 2 da BonCulture.
Foto 3 da Foller.