"Davanti al dolore degli altri" di Susan Sontag

Giulia Regoli

Giulia Regoli recensisce Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag su CanadaUsa

Nel 2003 Susan Sontag pubblicava il libro Davanti al dolore degli altri (riproposto in traduzione in Italia nel 2021 da Nottetempo), un saggio che riflette sulle potenzialità e i limiti delle immagini quando esse rappresentano l’orrore e la violenza

L’autrice esplora principalmente il rapporto tra fotografia e scene di guerra, ma i suoi ragionamenti possono essere applicati al rapporto che in generale esiste tra il dolore e la traslazione visiva dello stesso, tra chi lo vive e chi lo osserva. Indagando questa tensione sempre presente tra il fare esperienza e l’osservarla, Sontag scrive un testo che risulta ancora molto attuale, specialmente se si considera la società contemporanea dal punto di vista della prevalenza delle immagini e del bombardamento mediatico fatto di violenza e atrocità

Le questioni affrontate sono, perciò, molteplici: la scrittrice ripensa la fotografia come testimonianza oggettiva/soggettiva degli eventi, si fa domande rispetto alla veridicità della riproduzione del dolore e, soprattutto, spinge a riflettere sulla figura dello spettatore e su quelli che possono essere i risvolti della contemplazione delle immagini e la conseguente interpretazione.

Per fare ciò, parte da un’analisi di Le Tre Ghinee (1938) di Virginia Woolf, un testo in cui l’autrice britannica rivendica il potere delle immagini come potente mezzo di ripudio della guerra, asserendo una sorta di neutralità nel campo fotografico come racconto delle atrocità. Eppure, come sostiene invece Sontag, le fotografie narrano una storia:

 

La guerra per Woolf, come per molti polemisti che vi si oppongono, è generica e le immagini da lei descritte mostrano vittime anonime, anch’esse generiche. [...] Per chi crede fermamente che il diritto stia da una parte e l’oppressione e l’ingiustizia dall’altra, e che la lotta debba continuare, ciò che conta è invece proprio chi viene ucciso e da chi” (pp. 19-20).

 

Nell’idea che la rappresentazione di una violenza serva indistintamente a suscitare repulsione e sdegno nei confronti della stessa, viene omessa la posizione di privilegio da cui la si guarda e - a volte - la si ritragga. Così, diventa evidente come la fotografia non possa essere considerata un mezzo imparziale, perché è “al tempo stesso una registrazione obiettiva e una testimonianza personale” (p. 38). L’occhio di chi scatta, connesso a tutta una serie di parametri culturali e sociali che formano il soggetto, non può essere perfettamente neutrale. Questo stesso meccanismo si replica nella diffusione delle immagini e anche nelle persone che diventano partecipi osservandole. Analizzando varie raccolte di fotografie di guerra nel dettaglio, Sontag vuole mettere in risalto questi aspetti, continuando a interrogarsi sulla rappresentazione del dolore e sulle sue conseguenze

 

Più un luogo è remoto o esotico, maggiori sono le possibilità di avere immagini frontali e a figura intera dei morti e dei moribondi. Di conseguenza, l’Africa postcoloniale esiste nella coscienza del grande pubblico dei paesi ricchi - oltre che attraverso la sua musica sensuale - soprattutto come una successione di fotografie indimenticabili che raffigurano vittime con gli occhi sgranati [...]. Queste immagini trasmettono un duplice messaggio. Mostrano sofferenze scandalose e ingiuste, a cui si dovrebbe porre rimedio. E al tempo stesso confermano che questo è il genere di cose che accade in quei luoghi” (p. 86).

 

In questo senso, le fotografie delle atrocità di guerra possono sì suscitare reazioni di rifiuto ma replicano anche intrinsecamente le dinamiche colonizzatrici e discriminatorie che sono esistite e ancora esistono nella società. 

Davanti al dolore degli altri è un titolo che spinge anche a interrogarsi su chi effettivamente siano questi “altri” e l’autrice ci riflette a partire proprio dalla storia delle guerre e dalla loro de-localizzazione per creare uno stato di pace sempre apparente (in particolare negli Stati Uniti, ma in generale in quelli che sono i paesi occidentali del mondo). Le fotografie non cambiano solo in base a chi le scatta, ma anche a chi le mostra e a chi le guarda. 

Giulia Regoli recensisce Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag su CanadaUsa

Un altro fattore molto importante da considerare quando si indaga la contemplazione delle immagini di sofferenza è fino a che punto lo spettatore possa arrivare a essere partecipe ed emotivamente coinvolto nel dolore rappresentato o se l’azione rimanga sempre - almeno su certi livelli - voyeuristica. In questo senso, secondo Sontag, entrano in gioco dei meccanismi che escono fuori dall’orbita del controllo razionale:

 

Qualunque immagine mostri la violazione di un corpo attraente è, in una certa misura, pornografica. Ma anche le immagini ripugnanti possono affascinare. Tutti sanno che a rallentare il traffico davanti a un orribile incidente automobilistico non è soltanto la curiosità. In molti casi si tratta anche del desiderio di vedere qualcosa di raccapricciante” (p. 111).

 

Proprio su questa scia si sviluppa un concetto molto dibattuto al giorno d’oggi: quello della pornografia del dolore, cioè della spettacolarizzazione da parte dei media di immagini che mostrano violenze facendo leva proprio su questa ambivalenza umana dell’interesse per la crudeltà. 

Per spiegare questo impulso, Sontag riprende il sublime di Edmund Burke, per cui la persona, davanti all’orrore e alla tragedia, prova questo sentimento di richiamo per la bellezza della scena che le si presenta davanti. Nella società contemporanea, questa componente è risultata monetizzabile e proprio su di essa si basa la non necessaria diffusione di video e foto che rappresentano violenza.

Al tempo stesso, l’iperesposizione a questo tipo di immagini causa, sempre secondo l’autrice, una sorta di assuefazione perché l’empatia, come un muscolo, va allenata. Il bombardamento mediatico, invece, non lascia spazio di respiro né di azione: l’unica cosa che si può fare è chiudere gli occhi o voltarsi dall’altra parte, il resto è solo abitudine.

 

Inondati da immagini che in passato ci avrebbero scioccato e indignato, stiamo perdendo la capacità di reagire. La compassione, forzata fino all’estremo, si intorpidisce. Così sostiene una diagnosi ormai familiare. Ma quale rimedio invoca? Che sia imposto un limite alla diffusione delle immagini di carneficina, autorizzandola, per esempio, solo una volta alla settimana? [...] Ma non ci sarà un’ecologia delle immagini. Nessun comitato di tutori razionerà l’orrore, per conservarne intatta la capacità di scioccare. E neppure gli orrori diminuiranno” (p. 125). 

 

Non c’è una soluzione univoca a questi dilemmi e neppure Sontag si propone di delinearla come si fa con un piano d’azione. Il suo punto è la sua riflessione: se le persone sono abituate a considerare le fotografie di guerra come mezzi neutri, che possono solo suscitare sdegno nei confronti dell’orrore oggettivo della stessa, non significa che loro poi reagiscano a questa violenza. La contemplazione, in questo senso, assume sempre una componente voyeuristica, a cui le fotografie aggiungono l’illusione del consenso. In realtà, le immagini non sono mai puramente oggettive ma hanno molteplici sfumature di significato che cambiano in base ai punti di vista di chi le realizza e chi le guarda. Applicando i punti analizzati in Davanti al dolore degli altri alla società mediatica contemporanea, emergono numerose problematiche che riguardano proprio l’esposizione del dolore e il suo significato

 

Non riusciamo a immaginare davvero come è stato. Non possiamo immaginare quanto sia terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventi. Non capiamo, non immaginiamo.  È questo ciò che pensano con convinzione tutti i soldati, e tutti i giornalisti, gli operatori umanitari, gli osservatori indipendenti che si sono ripetutamente esposti al fuoco e hanno avuto la fortuna di eludere la morte che ha falciato chi stava loro vicino. E hanno ragione” (p. 144).

 

Foto 1 da Istoé.

Foto 2 da Spazio Libri La Cornice.