Dalle piazze globali alle bolle digitali: social media, attivismo e crisi di autorevolezza

Maria Cristina Ianiro

I social network sono spesso descritti come spazi aperti e democratici, in grado di mettere in contatto prospettive diverse. In realtà, le logiche algoritmiche che governano la visibilità dei contenuti finiscono per creare ambienti chiusi, dove alcune voci si amplificano e altre scompaiono. Attivismo digitale, bolle informative e disinformazione si intrecciano in un ecosistema che non riflette tanto la realtà, quanto la sua rappresentazione distorta. Comprendere questi meccanismi significa interrogarsi su come la percezione del mondo venga modellata da piattaforme che privilegiano l’engagement più che l’equilibrio informativo.

 

1. Le piazze globali che diventano bolle digitali

2. Attivismo digitale e il paradosso delle bolle

 3. La crisi di autorevolezza e il rischio democratico

4. Fonti


1. Le piazze globali che diventano bolle digitali

Quando Facebook nacque nel 2004 e, poco dopo, Twitter nel 2006, i social network furono percepiti come strumenti rivoluzionari per la democrazia. Erano le nuove piazze globali: spazi virtuali dove chiunque poteva condividere idee, accedere a notizie, entrare in contatto con persone lontane. Non a caso, nelle prime analisi accademiche venivano associati all’immagine di un web più aperto e inclusivo, capace di superare le barriere geografiche e culturali.

In questa fase pionieristica, la comunicazione era ancora prevalentemente testuale: post lunghi, link ad articoli, discussioni e scambi. Col tempo, però, il medium si è trasformato. L’arrivo di Instagram (2010) ha spostato il baricentro sull’immagine, mentre TikTok e il formato dei reel hanno inaugurato l’era del video breve, istantaneo, pensato per catturare l’attenzione in pochi secondi. Non si tratta solo di un cambiamento estetico: il passaggio da un social network percepito come blog sociale a quello di uno spazio con feed visivo e iper-veloce ha reso i social strumenti sempre più emozionali, dove la narrazione è sostituita dal colpo d’occhio, dal ritmo e dalla capacità di intrattenere.

Parallelamente, le piattaforme hanno assunto un ruolo economico crescente. Con la nascita della creator economy, i social non sono più solo spazi di relazione, ma mercati dove milioni di persone cercano visibilità, follower e sponsorizzazioni. Questo ha rafforzato l’importanza degli algoritmi: per un creator, essere spinto o meno da un feed può fare la differenza tra il successo e l’invisibilità. L’obiettivo è, quindi, diventare virali a prescindere dal contenuto. 

È in questo contesto che i social hanno mutato la loro logica interna. Non si tratta più soltanto informare o connettere, ma di massimizzare il tempo di permanenza online: nel 2024, secondo Pew Research, più della metà degli adulti statunitensi con un account TikTok ha dichiarato di informarsi regolarmente tramite il social, trascorrendo in media oltre due ore al giorno su queste piattaforme. Infatti, per trattenere l’attenzione, gli algoritmi selezionano i contenuti non in base alla loro rilevanza informativa, ma in base alla probabilità di generare interazioni emotive: indignazione, entusiasmo, paura, fascinazione.

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Questo meccanismo, noto come engagement-based ranking, ha conseguenze profonde. Alcuni studi hanno mostrato che i post che suscitano rabbia o indignazione hanno una probabilità del 70% più alta di essere rilanciati rispetto a contenuti neutrali. Su YouTube, le ricerche hanno evidenziato una tendenza a raccomandare video sempre più estremi sullo stesso tema, spingendo gli utenti in un percorso di radicalizzazione algoritmica. Su TikTok, invece, bastano pochi minuti di visualizzazioni per modellare un feed interamente costruito sulle preferenze implicite dell’utente, creando una sorta di specchio che riflette e amplifica i suoi interessi.

Il risultato è un lento passaggio dall’apertura alla chiusura cognitiva. Se nei primi anni i social sembravano spalancare le porte al mondo, oggi tendono a rinchiudere gli utenti in bolle informative: ecosistemi ristretti che rafforzano convinzioni preesistenti e riducono l’incontro con idee alternative. La promessa di democratizzazione si è così trasformata in rischio di polarizzazione. La piazza globale non è scomparsa, ma si è frantumata in mille sotto-spazi paralleli, ciascuno modellato dagli algoritmi e dalle logiche economiche delle piattaforme. 

 

2. Attivismo digitale e il paradosso delle bolle

Se i social hanno frammentato la piazza globale in sotto-spazi paralleli, è proprio in questi microcosmi che l’attivismo digitale ha trovato terreno fertile. Le piattaforme hanno permesso a movimenti sociali di emergere con una forza e una rapidità impensabili nell’era pre-digitale. Basti pensare a #BlackLivesMatter, nato su Twitter nel 2013 dopo l’uccisione di Trayvon Martin, o a #MeToo, che dal 2017 ha messo in luce esperienze di violenza e molestie sessuali in ogni parte del mondo. In entrambi i casi, i social network non si sono limitati a funzionare da megafoni: hanno reso visibile come esperienze vissute e raccontate da singole persone fossero in realtà espressione di dinamiche sistemiche, legate a razzismo e sessismo, che per lungo tempo erano rimaste marginalizzate nello spazio pubblico tradizionale.

Lo stesso meccanismo che amplifica le voci può anche distorcerle. L’attivismo online vive una tensione strutturale: da un lato, la possibilità di diffondere messaggi e mobilitare persone; dall’altro, la dipendenza dalle logiche algoritmiche. Un hashtag può guadagnare milioni di interazioni in poche ore, catalizzando l’attenzione internazionale, ma può anche scomparire rapidamente se non genera engagement sufficiente. La velocità del ciclo informativo digitale produce campagne online in grado di raggiungere rapidamente un alto picco di attenzione (viralità) ma che faticano a mantenere continuità quando l’algoritmo sposta il focus altrove. Diversi studi parlano di issue-attention cycle o di slacktivism, indicando come l’attivismo digitale privilegi spesso l’evento spettacolare e la partecipazione simbolica (like, condivisioni, hashtag) rispetto al lavoro più lento e strutturale di organizzazione politica. 

Questa logica si traduce in una forte dipendenza dai trend. È ciò che è accaduto, ad esempio, con l’ondata di post a sostegno di Black Lives Matter dopo l’uccisione di George Floyd nel 2020: in poche settimane il movimento è diventato centrale nelle agende politiche e mediatiche, ma gran parte dell’attenzione online si è spostata rapidamente altrove, lasciando agli attivisti il compito difficile di trasformare la visibilità in cambiamenti politici concreti.

A ciò si aggiunge il fatto che l’attenzione algoritmica premia contenuti emotivi, sintetici e facilmente condivisibili, mentre penalizza le forme di comunicazione più complesse o riflessive, riducendo così la possibilità di sviluppare discussioni articolate. In questo modo, la profondità del dibattito e la capacità di incidere nel lungo periodo rischiano di essere sacrificate alla logica dell’attenzione immediata.

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In parallelo, l’architettura stessa delle piattaforme incoraggia una polarizzazione dei discorsi. Gli algoritmi tendono a proporre contenuti che confermano le opinioni già espresse dagli utenti: ciò rafforza identità e appartenenze, ma limita l’incontro con visioni differenti. È proprio così che nascono le bolle informative in cui gli utenti interagiscono quasi esclusivamente con chi condivide la loro visione del mondo, creando comunità molto coese ma sempre meno dialoganti con l’esterno. Questo meccanismo non ha un orientamento politico intrinseco: funziona tanto per i movimenti progressisti quanto per quelli regressivi.

È lo stesso sistema che ha reso possibile l’ascesa di Black Lives Matter o MeToo a dare visibilità alle campagne anti-vax o alle mobilitazioni pro-Trump culminate nell’assalto a Capitol Hill nel gennaio 2021. In tutti questi casi, la viralità ha funzionato come acceleratore: un’infrastruttura che premia i contenuti capaci di suscitare emozione, indipendentemente dal loro orientamento o dalla loro veridicità.

Il risultato è un ecosistema ambivalente. I social network funzionano come acceleratori di consapevolezza e mobilitazione, ma anche come camere di risonanza che frammentano il discorso pubblico. La promessa iniziale di una piazza aperta e globale si trasforma così in una mappa di micro-arene in competizione, dove la capacità di  restare in tendenza  conta più della costruzione di un dialogo.

 

3. La crisi di autorevolezza e il rischio democratico

È proprio in queste micro-arene che l’attivismo digitale ha trovato una cassa di risonanza potente ma fragile. Le implicazioni non riguardano soltanto il dibattito online: toccano il cuore stesso della vita democratica. L’erosione delle fonti di informazione tradizionali e l’affidamento crescente ai feed sociali producono infatti una crisi di autorevolezza. Non è più la verifica giornalistica a garantire la veridicità di una notizia, ma la sua capacità di suscitare emozioni e generare interazioni. In questo slittamento, i social non si limitano a riflettere la realtà: finiscono per ridefinirla, trasformando la sfera pubblica in un flusso di narrazioni concorrenti.

La questione diventa più delicata quando a sfruttare questa dinamica non sono solo singoli utenti o piccoli influencer, ma attori, personaggi pubblici e addirittura politici. Negli ultimi anni sono emerse inchieste che documentano l’uso dei social per campagne coordinate di disinformazione, capaci di condizionare opinioni pubbliche intere. La Russia, ad esempio, ha utilizzato troll farm e reti di bot per influenzare le elezioni statunitensi del 2016, mentre recenti analisi hanno mostrato come Israele abbia investito in pubblicità mirate e contenuti manipolativi durante il conflitto a Gaza. In entrambi i casi, l’obiettivo non era informare ma orientare, sfruttando la logica algoritmica che privilegia la viralità rispetto all’attendibilità.

La personalizzazione estrema dei feed amplifica questo rischio. Ognuno vede un frammento di mondo cucito sulle proprie preferenze implicite, rendendo difficile distinguere tra informazione autorevole e propaganda mirata. In questo modo, lo stesso evento può apparire in forme diverse a seconda della bolla in cui ci si trova, senza un terreno comune di confronto. È un paradosso che mina l’idea di spazio pubblico condiviso, presupposto indispensabile di ogni democrazia.

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Le conseguenze sono profonde: la polarizzazione non resta confinata online, ma filtra nelle istituzioni, nei processi elettorali e persino nelle relazioni quotidiane. La disinformazione non produce solo opinioni divergenti: può alimentare sfiducia sistemica, minando la credibilità di governi, media e istituzioni scientifiche. Se ogni bolla digitale costruisce una propria versione dei fatti, ciò che viene meno non è soltanto il consenso politico, ma il terreno stesso della realtà condivisa su cui quel consenso dovrebbe poggiare.

Un esempio emblematico è rappresentato dalla gestione della pandemia di Covid-19: campagne virali di disinformazione hanno spinto milioni di persone a rifiutare i vaccini o a diffidare delle autorità sanitarie, nonostante l’evidenza scientifica. In diversi Paesi, dalla Germania agli Stati Uniti, i movimenti no-vax si sono tradotti in proteste di piazza e in pressioni politiche capaci di rallentare le strategie di salute pubblica. La logica delle piattaforme, orientata all’engagement, ha amplificato contenuti emotivi e complottisti molto più rapidamente delle informazioni verificate, mostrando quanto fragile possa diventare la fiducia collettiva quando i social sostituiscono le fonti autorevoli.

Allo stesso tempo, la frammentazione del discorso pubblico rende più difficile costruire soluzioni condivise a sfide globali come il cambiamento climatico, la salute pubblica o la regolazione dell’intelligenza artificiale. Senza un minimo comune denominatore informativo, il confronto democratico rischia di degenerare in una somma di monologhi paralleli, ciascuno rinchiuso nella propria architettura algoritmica.

In assenza di media riconosciuti come arbitri del discorso pubblico, la percezione collettiva diventa il prodotto di logiche commerciali e strategie politiche opache. La promessa di un’informazione più aperta e partecipata rischia così di rovesciarsi in un sistema fragile, esposto a manipolazioni esterne e incapace di garantire quella pluralità di voci che dovrebbe costituire il fondamento stesso della democrazia.

 

4. Fonti

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Get to know us. (2019, November 22). Me Too Movement. Ultimo accesso: 12 settembre 2025

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Political polarisation and interactions on social media: Common patterns exist internationally. (n.d.). Sapienza Università di Roma. Ultimo accesso: 10 settembre 2025, 

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Spring, M. (2023, October 15). Who’s behind Israel-Gaza disinformation and hate online? BBC News. Ultimo accesso: 12 settembre 2025, 

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