Maria Cristina Ianiro
Il 25 marzo 1585 viene costituita a Firenze l’Accademia della Crusca, un’istituzione che raccoglie studiosi ed esperti di linguistica e filologia della lingua italiana. L'idea dei fondatori era quella di fare un vero e proprio lavoro di pulizia della lingua, un po' simile a quello che si fa quando si separa la crusca dalla farina. La metafora del grano e del pane è alla base di tutto il simbolismo legato alla storia di questa importante istituzione culturale che, con quasi cinquecento anni di storia, insieme alle altre Istituzioni Linguistiche Nazionali della Federazione Europea, opera nella protezione e nel mantenimento della Lingua Italiana come “pura”.
In un mondo in continuo cambiamento, dove ruoli, generi e inclusività sono tematiche sempre più comuni nel dialogo mediatico, la lingua italiana a che punto si trova?
La sociolinguista Vera Gheno, specializzata in comunicazione digitale e questioni legate alla lingua, al genere e all’inclusività linguistica, nel suo Potere alle parole (2019) scrive:
“Ogni parola che scegliamo e non scegliamo di usare racconta qualcosa di ciò che siamo e non siamo. Abbastanza letteralmente, le parole sono atti di identità”.
Le parole possiedono, infatti, la notevole capacità di plasmare i nostri pensieri, le nostre emozioni e i nostri comportamenti, contribuendo così in modo sostanziale alla formazione delle nostre identità culturali ed esperienze di vita. Inoltre, il linguaggio riesce a sfidare le dinamiche di potere prevalenti che perpetuano le disuguaglianze e le ingiustizie (Ng e Deng, 2017). In questo contesto, l'importanza del linguaggio inclusivo non può essere sottovalutata, poiché riconosce e onora attivamente la diversità nella società.
L'uso del linguaggio non è neutro. Riflette e rafforza le credenze culturali e le norme sociali che danno forma ai ruoli e alle aspettative di genere tradizionali. Shazu (2014) ha notato una forte connessione tra le strutture linguistiche, i vocabolari, il loro uso e i ruoli sociali di uomini e donne. Le caratteristiche di genere insite nel linguaggio si manifestano in varie dimensioni linguistiche, tra cui la grammatica, i pronomi e la terminologia. Questa influenza linguistica multiforme sottolinea la necessità di un approccio sfumato e deliberato al linguaggio, che riconosca il suo potere di sfidare o rafforzare gli stereotipi e le dinamiche di genere prevalenti. Attraverso la parola, dunque, sia il singolo sia la collettività si autodefiniscono, si autorappresentano, si identificano con un gruppo e non con un altro, sono in grado di riconoscere i confini a cui appartengono.
Il primo di questi confini è quello del genere: è sempre possibile individuare (ed esprimere) nella lingua utilizzata la propria identità di genere? Esistono categorie per le quali risulta difficile, se non impossibile, autodefinirsi linguisticamente?
L’altro aspetto che bisogna sicuramente considerare riguarda le sfumature semantiche che alcune parole assumono quando sono declinate al maschile e al femminile.
Per esempio, agli uomini viene di solito assegnato il titolo di "Signore", mentre alle donne può essere assegnato sia quello di "Signora” che "Signorina", andando a sottolineare da un lato il maggiore interesse mostrato per lo stato civile di una donna rispetto a quello di un uomo e dall'altro quello dell’età.
Se ci focalizziamo su determinati mestieri, è comunemente accettato parlare di infermiere e infermiera, di attore e di attrice, ma nel momento in cui si inizia a utilizzare la parola “direttrice” nascono i primi problemi.
Anche se questi tropi di conversazione possono sembrare così familiari da non notarli o da essere persino considerati innocui, il linguaggio di genere può rafforzare e perpetuare stereotipi dannosi e discriminatori. Ad esempio, l'uso del termine "lista nera" (o comunemente “blacklist”) implica qualcosa di negativo, che è stato bandito. Al contrario, "whitelist" (utilizzato molto nell’informatica) implica qualcosa di positivo. Questo linguaggio può contribuire allo stereotipo dannoso secondo cui "nero" è associato a cose negative o indesiderabili, poetando con sé connnotati etnici.
Il linguaggio è uno dei mezzi più potenti attraverso cui perpetrare il sessismo e la discriminazione di genere. Lo stereotipo secondo cui le donne dovrebbero mostrare tratti di condivisione/affetto e gli uomini quelli di forza/competenza si riflette nelle scelte lessicali della comunicazione quotidiana.
Di conseguenza, il linguaggio riproduce sottilmente le asimmetrie sociali di status, ruolo e potere a favore degli uomini. Esaminando questi stereotipi in diverse lingue, si nota ancora di più come nelle lingue come l’italiano ci sia una norma nascosta ma consensuale secondo cui l'essere umano prototipico è maschio quindi la lingua, di base, presente struttura e sintassi sbilanciate a favore della rappresentazione di genere maschile. È il caso di alcuni termini femminili che derivano dalla corrispondente forma maschile oppure del “maschile sovraesteso” (l’abitudine di parlare di una persona il cui genere ci è sconosciuto o di gruppi in cui sono presenti persone di diversi generi al maschile).
Tuttavia, tali forme linguistiche hanno come effetto negativo una possibile scomparsa delle donne nelle rappresentazioni mentali: il rischio dell’utilizzo eccessivo del maschile sovraesteso è infatti quello di non far formare un’immagine cognitiva di persone diverse tra loro. Sebbene esistano espressioni linguistiche corrette dal punto di vista del genere per prevenire queste derive negative (ad esempio, si potrebbe dire “signori e signore” per rivolgerci a un pubblico misto, invece di dire solo “signori”), esistono altrettante forme implicite di pregiudizio di genere nel linguaggio ancora più difficili da sopprimere.
A quasi quarant'anni dalla pubblicazione di Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana per la scuola e l’editoria scolastica (1986) e Il sessismo nella lingua italiana (1987) di Alma Sabatini si discute ancora sul femminile e del suo uso all’interno della lingua italiana.
Dallo studio di Sabatini, che per prima ha posto l’attenzione sul sessismo nella lingua, emerge che il problema della “donna nella lingua” può essere analizzato nel duplice aspetto di come si parla delle donne (quindi, l’uso della lingua) e di cosa il sistema linguistico mette a disposizione per riferirsi alle donne (le caratteristiche morfosintattiche pertinenti).
La lingua e le pratiche sessiste che incorpora sono indicatori, se non addirittura responsabili, degli stereotipi di genere presenti nella società. Vedendo il linguaggio come uno strumento di comunicazione, percezione e classificazione della realtà, il suo uso dovrebbe essere giusto non nel senso normativo-prescrittivo del termine, ma nel senso di equo e non discriminatorio. L’autrice si rivolge in particolare alla scuola e alla stampa perché è proprio nel momento educativo e, poi, in quello dell’informazione che l’individuo forma e fissa definitivamente la propria percezione della realtà e può quindi essere maggiormente influenzato dalle immagini e dagli stereotipi che si riferiscono ai due sessi in modo asimmetrico.
Nello specifico, Sabatini affronta vari aspetti comuni nell’utilizzo della lingua italiana: oltre al “maschile sovraesteso”, nota anche la “polarizzazione semantica”, ovvero l’utilizzo di aggettivi e sostantivi che acquistano significati diversi a seconda che si riferiscano a donne o uomini (un esempio banale potrebbe essere l'aggettivo “libero” che se riferito a un uomo ha connotazioni morali e intellettuali, mentre se riferito a una donna allude più frequentemente al suo comportamento sessuale).
L’autrice nota però una cosa importante: la lingua italiana permette di parlare in maniera non sessista. Infatti, Sabatini crede che il motivo per il quale non sia comune adoperare un linguaggio inclusivo risieda nel fatto che gli esseri umani sono animali fortemente abitudinari: si è abituati a sentire il maschile in certe situazioni e il femminile in altre, e non ci si sforza di cambiare.
Dal 1987 a oggi, però, la discussione su un uso più inclusivo del linguaggio è sicuramente progredita Inizialmente, si è svolta/si è sviluppata soprattutto nei contesti della politica, del movimento femminista e dell’attivismo LGBT+. Ciò che è cambiato profondamente, da alcuni anni a questa parte, è il sistema dei mezzi di comunicazione di massa che è diventato sempre più “della massa”: tramite il web e, soprattutto, grazie all’avvento dei social network, ognuno ha modo, almeno teoricamente, di essere contemporaneamente emittente e fruitore della comunicazione. I nuovi media (che tanto nuovi, ormai, non sono, avendo a conti fatti una trentina di anni) hanno dato a ogni persona la possibilità di partecipare attivamente al dibattito pubblico - un dibattito aperto a tutti, con ogni conseguenza del caso.
Nel 2023, Oxfam ha pubblicato la sua Guida al linguaggio inclusivo, sostenendo che il linguaggio inclusivo può essere un potente strumento per trasformare la società, sfidare idee dannose, riformulare le questioni relative allo sviluppo e costruire un futuro più equo.
La guida Oxfam applica i principi femministi per promuove un linguaggio inclusivo che affronta le questioni di potere intersezionali legate a genere, razza, sessualità e disuguaglianza. L'autoconsapevolezza nella comunicazione può permettere di evitare di rafforzare gli stereotipi oltre a presentare numerosi vantaggi. L'ICAEW Insights (2022) sostiene che cercare di adottare delle scelte linguistiche inclusive può promuovere un senso di appartenenza per le persone che sono state storicamente escluse (per motivi di razza, etnia, genere, orientamento sessuale, età, disabilità o altri aspetti). Il linguaggio inclusivo può aiutare a eliminare i pregiudizi inconsci e a garantire che tutti si sentano accolti e valorizzati.
Tuttavia, nonostante gli evidenti vantaggi per molti, il linguaggio inclusivo di genere è spesso ferocemente contestato e contrastato, poiché minaccia lo status quo e sfida le tradizionali strutture di potere che favoriscono pochi.
La riflessione su una lingua più inclusiva non solo è legittima ma forse è addirittura necessaria al fine di poter includere e rappresentare chi fino ad ora è vissuto nascosto. Si tratta, dunque, di capire quali sono i mezzi con cui è possibile accogliere e rappresentare le differenze insite alla società. Nello specifico dell’italiano, se da una parte ci sono mezzi grammaticali utili a rappresentare il maschile e il femminile dall’altra parte, il binarismo di genere insito nella lingua non permette di includere chi non si riconosce nella categoria maschile o in quella femminile.
Possiamo ampliare i mezzi linguistici a disposizione attraverso nuovi modi e nuove forme?
È il caso di usi come l’asterisco (*), lo schwa (ə) o a volte la “u” che, in particolare nello scritto, tentano di superare il limite dell’italiano dato dall’assenza del neutro. Per quanto al momento lo schwa appaia come la soluzione più praticabile poiché si tratta di un fonema neutro, già esistente e applicabile, presenta ugualmente dei limiti. Come spiega proprio Gheno in un articolo uscito su La Falla, magazine del Cassero LGBTI Center di Bologna, lo schwa “non compare al momento sulle tastiere di cellulari o computer”, ma solo nella sezione dei simboli e caratteri speciali dei programmi di scrittura. Perciò scrivere un testo con lo schwa può risultare piuttosto macchinoso. Inoltre, essendo un suono presente solo in alcuni dialetti dell’Italia meridionale, può risultare difficile da comprendere e pronunciare per coloro che non conoscono e non parlano quei dialetti. Per provare a far fronte a queste difficoltà, è nata Italiano inclusivo, una piattaforma che ha lo scopo di promuovere l’introduzione dello schwa offrendo strumenti utili per conoscere, scrivere e pronunciare al meglio il fonema.
Per promuovere un linguaggio inclusivo, bisogna essere disposti ad ammettere e correggere uno stigma, ad ascoltare gli altri, a fare domande e a conoscere il contesto storico di certe parole ed espressioni. Un linguaggio scortese, irrispettoso, discriminatorio o escludente rischia di allontanare chi ci circonda, di avere un impatto negativo sulle relazioni e di dare un'impressione sbagliata su ciò che si apprezza e su ciò in cui si crede.
Secondo la professoressa di Language e Communication presso l’Università di Oxford Deborah Cameron, ci saranno sempre delle reazioni contrarie a qualsiasi cosa si cerchi di innovare, soprattutto a livello linguistico. A suo dire, le persone devono usare le parole che vogliono, ma nel mondo in cui viviamo non si può più pretendere di usare certe parole perché ritenuto convenzionale. Se ci sono opzioni, c'è una scelta e questa scelta, se viene fatta e comunicata, può essere sempre più significativa.
Adottando quindi un linguaggio inclusivo nelle nostre conversazioni quotidiane e promuovendo un ambiente di apprendimento inclusivo, è possibile contribuire concretamente a un mondo più equo e inclusivo. Attraverso scelte linguistiche ed educative consapevoli, possiamo mettere le generazioni future in condizione di comprendere e apprezzare la diversità delle esperienze umane, aprendo la strada a una società più rispettosa ed equa.
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