Maria Cristina Ianiro
Il 28 maggio si celebra la Giornata Internazionale dell’Igiene Mestruale, un’occasione per riflettere sulle sfide ancora aperte legate al ciclo mestruale, dalla scarsa informazione ai tabù culturali, fino alle disuguaglianze nell’accesso ai prodotti per l’igiene. Sebbene le mestruazioni siano un fenomeno naturale che riguarda metà della popolazione mondiale, il tema rimane spesso circondato da silenzi e pregiudizi. Ancora oggi, in molti Paesi le donne e le ragazze affrontano discriminazioni legate al ciclo, mentre in altri il dibattito sulla qualità e sicurezza dei prodotti mestruali è appena agli inizi. Questa giornata non è solo un momento di sensibilizzazione, ma anche un’occasione per chiedere più ricerca, più consapevolezza e politiche che garantiscano dignità e benessere a tutte.
Nonostante il ciclo mestruale sia un processo biologico che interessa metà della popolazione mondiale per una parte significativa della vita, la ricerca scientifica su questo tema è ancora sorprendentemente limitata. Per decenni, il corpo femminile è stato considerato troppo complesso per essere incluso in studi clinici standard, con il risultato che molte delle conoscenze attuali sulla fisiologia e sulla salute si basano prevalentemente su soggetti maschili. Questo divario nella ricerca ha inevitabilmente delle ripercussioni dirette sulla salute delle donne: molte condizioni legate al ciclo mestruale rimangono sotto-diagnosticate e spesso mal comprese, lasciando le pazienti non solo senza trattamenti adeguati, ma anche con il carico mentale che una mancata diagnosi, inevitabilmente, porta.
Come sottolinea Caroline Criado-Perez nel suo libro Invisible Women (Criado-Perez, 2018:203):
“Le donne stanno morendo — e il mondo medico è complice — perché per troppo tempo ha rifiutato di confrontarsi con il fatto che i corpi femminili sono diversi, e che queste differenze contano.”
In un mondo in cui il sistema patriarcale è fortemente radicato in ogni aspetto della nostra vita, anche la ricerca medica ha storicamente privilegiato il corpo maschile come modello standard, portando a una significativa sottorappresentazione delle donne negli studi clinici. Un'analisi dell’Harvard Medical School del 2022 ha evidenziato che, fino al 2019, le donne erano ancora sostanzialmente escluse dai trial clinici per le principali malattie, creando un pericoloso divario di conoscenze che ha conseguenze tangibili sulla loro salute. Questa disparità ha contribuito a lacune nella comprensione di condizioni specifiche femminili, come l'endometriosi e la PCOS.
L'endometriosi, che colpisce circa il 10% delle donne in età riproduttiva a livello globale, è spesso diagnosticata con ritardi significativi, talvolta fino a 12 anni. Tale ritardo è dovuto, tra le altre cose, alla normalizzazione sociale del dolore femminile e alla stigmatizzazione dei problemi mestruali, che portano a una scarsa consapevolezza della malattia sia tra i pazienti che tra gli operatori sanitari.
Analogamente, la PCOS è una delle endocrinopatie più comuni tra le donne in età fertile, ma si stima che fino al 70% dei casi rimangono non diagnosticati. Uno studio del 2019 ha rilevato che molte donne con PCOS hanno riportato diagnosi ritardate e informazioni inadeguate, evidenziando la necessità di migliorare la sensibilizzazione e l’accesso a cure appropriate.
Queste lacune nella ricerca e nella diagnosi non solo compromettono la salute delle donne, ma perpetuano anche disuguaglianze strutturali nella medicina, figlie di un sistema patriarcale che per troppo tempo ha ignorato i corpi femminili o li ha trattati come deviazioni dal modello maschile. Come afferma la dottoressa Kate Young in un’intervista al Guardian,
“la medicina è costruita attorno al corpo maschile come norma, e tutto ciò che si discosta da quel modello viene considerato problematico”. (ndt)
Quando i sintomi vengono minimizzati e/o quando il dolore mestruale è etichettato come esagerazione o isteria, non si tratta solo di mancanza di dati: si tratta di un atto politico di esclusione. Questo bias sistemico ha effetti concreti: ritardi diagnostici, trattamenti inadeguati, sofferenze non ascoltate.
Per colmare questo divario serve un cambiamento sistemico e radicale. Significa investire in modo concreto nella ricerca sulla salute femminile, ridefinire i criteri di inclusione negli studi clinici, e formare medici e operatori sanitari a riconoscere e valorizzare la specificità biologica, ormonale e psicofisica delle pazienti. Significa, in altre parole, decostruire un impianto medico che ha interiorizzato – e riprodotto – le logiche di un sistema di potere che ha reso invisibili i bisogni delle donne.
Il ciclo mestruale e le patologie a esso correlate non sono aspetti marginali, né tantomeno temi di nicchia: sono questioni centrali per la salute pubblica e per la giustizia di genere. Riconoscerlo non è solo una responsabilità scientifica, ma una vera e propria presa di posizione politica.
Parlare di mestruazioni significa anche affrontare il tema dell’accesso materiale e della sicurezza dei prodotti igienici. In molte parti del mondo, milioni di donne, ragazze e persone che mestruano non hanno accesso continuativo a prodotti sicuri e igienici per gestire il ciclo. Questa condizione, nota come period poverty, non riguarda solo i contesti a basso reddito o del Sud globale: esiste anche nei Paesi occidentali, dove l’acquisto regolare di assorbenti, tamponi o coppette mestruali può rappresentare un peso economico insostenibile. Nei contesti scolastici, carcerari o lavorativi, la mancanza di distributori gratuiti o di spazi adeguati per cambiarsi in sicurezza incide direttamente sulla possibilità di frequentare le lezioni, lavorare, muoversi liberamente nello spazio pubblico. L’impossibilità di gestire le proprie mestruazioni in modo dignitoso non è un dettaglio trascurabile, ma una grave violazione dei diritti fondamentali. È una questione che riguarda il diritto alla salute, all’istruzione, alla partecipazione sociale.
La povertà mestruale è un effetto concreto di un sistema patriarcale che continua a rimuovere le esigenze specifiche delle donne dalla sfera pubblica e politica. Finché i prodotti mestruali saranno trattati come beni di lusso – spesso tassati come tali – e non come bisogni primari, il corpo femminile continuerà a essere escluso da una piena cittadinanza. E mentre si lotta per l’accessibilità, si apre un’altra frontiera di disuguaglianza: quella legata alla qualità e alla sicurezza dei prodotti mestruali in commercio.
Molti assorbenti, tamponi e altri prodotti per l’igiene mestruale contengono sostanze chimiche potenzialmente nocive, eppure la loro composizione rimane per lo più invisibile alle consumatrici. Uno studio del 2019 pubblicato sul Journal of Women’s Health ha rilevato che alcuni di questi prodotti possono contenere tracce di diossine, furani, pesticidi residui, ftalati, metalli pesanti e composti organici volatili (COV), molti dei quali classificati come potenzialmente tossici o interferenti endocrini. Le diossine, ad esempio, sono sottoprodotti del processo di sbiancamento a base di cloro e sono state associate a disturbi del sistema immunitario, problemi riproduttivi e cancro. Nonostante la loro pericolosità, le quantità riscontrate vengono spesso considerate “nei limiti di legge” — ma qui sta il problema: i limiti di legge, laddove esistono, sono spesso stabiliti in base a studi effettuati su soggetti maschili o non tengono conto della vulnerabilità dei tessuti vaginali, che sono tra le zone più permeabili del corpo umano.
La FDA (Food and Drug Administration), che regola questi prodotti negli Stati Uniti, non richiede ai produttori di rivelare tutti gli ingredienti presenti negli assorbenti e tamponi, poiché sono classificati come “dispositivi medici”, non come beni di consumo. In Europa, la situazione non è molto diversa: solo nel 2022 la Commissione Europea ha avviato una revisione delle norme sui prodotti di igiene intima per valutare la presenza di interferenti endocrini, ma a oggi non esiste ancora un obbligo uniforme di trasparenza sugli ingredienti. Le etichette rimangono vaghe, i controlli insufficienti, e l’onere dell’informazione ricade ancora una volta sulle consumatrici, che si trovano a navigare un mercato opaco e spesso guidato più dal marketing che dalla tutela della salute.
Questa mancanza di trasparenza è il sintomo di una rimozione sistemica: come accade nella ricerca medica, anche nell’ambito della sicurezza dei prodotti mestruali il corpo femminile viene trattato come un’eccezione o, peggio, come un tabù. I media mainstream raramente affrontano in maniera critica la questione delle sostanze chimiche presenti nei prodotti per le mestruazioni, e quando lo fanno, spesso ricorrono a un linguaggio rassicurante o banalizzante, che evita di mettere in discussione le responsabilità delle aziende produttrici e la complicità delle istituzioni sanitarie. Sempre secondo la Dottoressa Young:
“La riluttanza dei media a trattare apertamente i rischi legati ai prodotti mestruali ha contribuito a una pericolosa mancanza di consapevolezza.” (ndt)
Ancora una volta, l’invisibilità è strutturale. Come nel caso della ricerca clinica basata sul modello maschile, anche qui il silenzio è politico: un silenzio che lascia milioni di donne esposte a rischi sanitari invisibili, rinchiuse in un sistema che presume la loro adattabilità, la loro sopportazione, la loro ignoranza. Parlare apertamente della composizione dei prodotti mestruali non è solo una questione di trasparenza o di consumo consapevole, ma un atto di sovversione contro un sistema che continua a decidere cosa possiamo – o non possiamo – sapere sui nostri corpi.
In un contesto simile, la cosiddetta “scelta consapevole” diventa una finzione: quando la trasparenza è assente e le alternative ecologiche o ipoallergeniche hanno costi proibitivi, la gestione del ciclo mestruale diventa una questione di classe. Il fatto che la sicurezza mestruale sia lasciata al libero mercato e alla responsabilità individuale, e non trattata come una questione strutturale di salute pubblica, riflette una precisa gerarchia politica dei corpi: quelli femminili, e soprattutto quelli poveri e marginalizzati, continuano a essere i meno tutelati. Riconoscere questa realtà non significa problematizzare il ciclo, ma rifiutare un sistema che fa della disuguaglianza e dell’invisibilità il suo fondamento.
Se la scarsa ricerca scientifica e la disuguaglianza nell’accesso ai prodotti mestruali rappresentano i sintomi più evidenti di un sistema patriarcale che marginalizza il corpo femminile, esiste una radice culturale più profonda e insidiosa che alimenta entrambi: il tabù sociale legato al ciclo mestruale. Le mestruazioni, benché fisiologiche e ricorrenti, sono ancora oggi trattate come qualcosa da nascondere, da silenziare, da rendere invisibile. Questa costruzione culturale produce stigma, vergogna e isolamento, soprattutto tra le giovani, contribuendo a una sistematica esclusione delle persone che mestruano dalla piena partecipazione sociale, educativa e professionale.
Secondo una ricerca condotta da Plan International UK, una ragazza su dieci nel Regno Unito ha dichiarato di non essere andata a scuola durante il ciclo mestruale per vergogna. Un’altra indagine del 2021, promossa da Intimina su scala europea, ha mostrato che il 65% delle donne italiane ha provato imbarazzo nel comprare prodotti mestruali, e che più della metà ha nascosto di avere le mestruazioni a scuola o sul posto di lavoro. Non si tratta di semplici disagi individuali: questi dati riflettono una cultura che associa il sangue mestruale alla contaminazione, al disordine, alla debolezza, perpetuando narrazioni tossiche che si interiorizzano fin dalla giovane età.
L’assenza sistemica dell’educazione mestruale nei programmi scolastici contribuisce a rafforzare questa invisibilità. In Italia, ad esempio, non esiste un’educazione mestruale obbligatoria nelle scuole, e dove se ne parla, lo si fa spesso in modo frammentario e marginale, lasciando a famiglie, influencer o brand il compito – o il potere – di colmare il vuoto. La mancanza di un linguaggio pubblico condiviso attorno alle mestruazioni rafforza l’idea che si tratti di un argomento privato, scomodo o inappropriato, rinforzando stereotipi sessisti e infondati che associano le donne al disordine emotivo, alla debolezza o all’irrazionalità. Il pregiudizio secondo cui una donna è isterica perché ha il “ciclo” ne è una manifestazione quotidiana.
Questa cultura del silenzio non si limita al piano interpersonale, ma permea anche i mezzi di comunicazione e la rappresentazione pubblica del corpo mestruante. Per decenni, nelle pubblicità dei prodotti igienici, il sangue è stato rappresentato con liquidi blu, a indicare una presunta necessità di neutralizzare visivamente un’esperienza ritenuta sgradevole o impresentabile. Solo di recente alcuni brand hanno scelto di mostrare realisticamente il sangue rosso, ma si tratta ancora di eccezioni in un panorama dominato dalla censura e dalla sanitizzazione del corpo femminile.
In questo contesto, parlare di ciclo mestruale diventa un atto politico. Interrompere il silenzio, rompere il tabù, rivendicare lo spazio linguistico e visivo del sangue mestruale significa scardinare una narrazione millenaria che ha costruito il corpo femminile come corpo da regolare, contenere, medicalizzare. Significa riconoscere che l’invisibilità sociale delle mestruazioni non è naturale, ma culturalmente costruita e funzionale a un sistema che disattiva la soggettività e l’autodeterminazione delle donne e delle persone che mestruano.
A tutto questo si aggiunge un dato apparentemente marginale ma in realtà rivelatore: la stessa parola “mestruazioni” è spesso evitata nel linguaggio quotidiano, sostituita da eufemismi come “il ciclo” o “quelle cose”. Questo slittamento lessicale non è casuale, ma è parte integrante del tabù: se non si può nemmeno pronunciare una parola, come si può pensare di affrontare in modo libero e consapevole tutto ciò che essa comporta? La vergogna passa anche da qui: da una lingua che censura, riduce, svia.
Allo stesso modo, il ciclo mestruale resta un argomento largamente sconosciuto agli uomini, compresi molti educatori, datori di lavoro e decisori politici. Ad esempio, uno studio pubblicato sulla rivista Sex Roles ha rilevato che molti uomini hanno conoscenze limitate o errate sulle mestruazioni, il che contribuisce a perpetuare stigmi e discriminazioni nei confronti delle donne. Inoltre, una ricerca condotta dall'UNESCO ha evidenziato che la mancanza di educazione mestruale tra gli insegnanti maschi può portare a un ambiente scolastico meno supportivo per le studentesse durante il loro ciclo mestruale. Questa ignoranza sistemica, spesso giustificata come “naturale” o “irrilevante”, è in realtà un prodotto culturale che contribuisce a escludere le esigenze delle donne dallo spazio pubblico e istituzionale. Non sapere significa non riconoscere, e non riconoscere significa perpetuare un sistema che marginalizza il corpo femminile e lo riduce a problema da gestire — nel silenzio.
Parlare di mestruazioni significa molto più che parlare di biologia o igiene. Significa interrogare un sistema che per secoli ha costruito gerarchie di valore attorno ai corpi, alla loro visibilità, al loro potere di parola. Significa guardare in faccia le strutture — mediche, politiche, linguistiche, mediatiche — che hanno contribuito a fare del sangue mestruale qualcosa da nascondere, da sopportare in silenzio, da non nominare. Ma il sangue mestruale non è solo un fatto fisiologico: è un nodo politico, culturale, economico. È una lente attraverso cui osservare le disuguaglianze che attraversano la nostra società.
In un mondo che ancora stenta a nominare apertamente le mestruazioni, il linguaggio è uno strumento fondamentale. Le parole che scegliamo — o evitiamo — dicono molto su ciò che consideriamo accettabile, raccontabile, umano. Se “ciclo” è ancora oggi la formula più comune per indicare le mestruazioni, allora la prima rivoluzione è semantica: imparare a chiamare le mestruazioni con il loro nome, parlarne senza paura, inserirle nel discorso pubblico senza scuse né eufemismi. Ma la battaglia linguistica non è solo nella lingua parlata: passa anche per i media, per gli algoritmi, per l’architettura invisibile del digitale. I social penalizzano immagini e contenuti che mostrano il sangue mestruale in modo esplicito, cancellando account, demonetizzando contenuti, nascondendo hashtag. La censura algoritmica del sangue è una nuova forma di tabù, aggiornata ai tempi della sorveglianza digitale, ma ugualmente violenta: rimuove, disattiva, punisce la visibilità di un’esperienza quotidiana e reale.
Anche le politiche pubbliche continuano a rimuovere — o delegare — le questioni legate al ciclo mestruale. In pochi Paesi al mondo esiste un vero congedo mestruale riconosciuto per chi soffre di dolori debilitanti: in Europa, solo la Spagna ha approvato una legge in tal senso nel 2023. Ma ancora oggi il dibattito su questi temi viene spesso liquidato come “privilegio” o come potenziale ostacolo alla carriera, a dimostrazione di quanto la sofferenza femminile sia ancora considerata irrilevante, scomoda, o una colpa da gestire in silenzio.
Rompere il silenzio sulle mestruazioni non significa mitizzarle o sacralizzarle. Significa riconoscerle come parte integrante dell’esperienza umana, e quindi degne di tutela, ascolto, attenzione, spazio. Significa costruire una società in cui il corpo che mestrua non sia più trattato come un’anomalia da gestire, ma come un corpo legittimo, visibile, politico.
Perché non è solo sangue. È storia, è disuguaglianza, è potere. Renderlo visibile è il primo passo per cambiarla.
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