Teorie del complotto: il bisogno di credere a un’altra verità

Maria Cristina Ianiro

Il 20 luglio 1969 milioni di persone assistettero in diretta televisiva a uno dei momenti più iconici del ventesimo secolo: Neil Armstrong fece un piccolo passo per l’uomo, ma uno enorme per l’umanità. A oltre cinquant’anni di distanza, quello sbarco è ancora celebrato come un traguardo epocale — ma anche discusso, ridimensionato e, in alcuni casi, apertamente negato.

Tra le teorie del complotto più longeve e radicate, quella che mette in dubbio l’allunaggio è forse la più rappresentativa: continua a circolare, ad alimentare sospetti, a essere oggetto di meme e di video rivelatori che promettono di svelare una presunta messinscena orchestrata dalla NASA. Eppure, l’interesse per questa teoria non riguarda solo il contenuto, quanto il meccanismo che le sta dietro.

Perché si crede nei complotti, anche quando le prove li smentiscono? Che funzione hanno questi racconti alternativi? Come cambiano nel tempo? Partendo dall’allunaggio, il fenomeno del complottismo non può essere più considerato un’eccezione marginale, quanto una vera e propria forma di narrazione che risponde — spesso in modo disfunzionale — a bisogni reali: controllo, ordine, significato.

 

1. Il complotto lunare: la madre di tutte le teorie moderne

2. Perché crediamo ai complotti: tra ansia, identità e controllo

3. Dal set televisivo alla rete: media e immaginario complottista

4.  Il paradosso finale: complotti contro l’algoritmo (diffusi dagli algoritmi)

5. Fonti 

 

1. Il complotto lunare: la madre di tutte le teorie moderne

L’idea che l’allunaggio del 1969 sia stato una messinscena orchestrata dalla NASA e dal governo statunitense nasce in un clima di crescente sfiducia verso le istituzioni, in un’America post-Vietnam e post-Watergate. A diffondere la teoria fu inizialmente Bill Kaysing, ex dipendente della Rocketdyne, azienda coinvolta nella produzione dei motori per i razzi Saturn V.  Nel 1974, Kaysing scrisse We Never Went to the Moon: America’s Thirty Billion Dollar Swindle, un libro autopubblicato e privo di fondamento tecnico, ma capace di esercitare un fascino duraturo.

Kaysing sosteneva che il governo americano, consapevole di non poter vincere la corsa allo spazio contro l’Unione Sovietica, avesse simulato lo sbarco in un set cinematografico allestito in Nevada. Da lì in poi, la teoria ha preso diverse diramazioni: c’è chi cita l’assenza di stelle nelle fotografie lunari, chi l’orientamento sbagliato delle ombre, chi la bandiera americana che sembra sventolare, e persino chi individua presunti errori di montaggio nei filmati ufficiali. Ogni elemento viene presentato come una prova, non tanto perché regga a un’analisi scientifica, ma perché risponde a un desiderio narrativo di smascheramento.

Chi aderisce a queste narrazioni vuole sentirsi in grado di cogliere ciò che altri non vedono. Questo approccio, che trasforma ogni dettaglio in un possibile smascheramento, è tipico del pensiero complottista: una forma di lettura paranoica della realtà in cui nulla è accidentale e ogni elemento nasconde un’intenzione.

Come spiega lo storico Robert Alan Goldberg nel suo Enemies Within: The Culture of Conspiracy in Modern America (2001), le teorie del complotto funzionano secondo una logica interna coerente, che collega eventi in realtà scollegati, ignora le spiegazioni ufficiali e vede nell’élite dominante una volontà di manipolazione sistematica. Nel caso dell’allunaggio, tutto — dalle luci alle ombre, fino alla postura degli astronauti — diventa parte di un copione, costruito non per essere credibile, ma per essere decifrato. Il fascino della teoria non è quindi nella prova, ma nell’atto stesso del dubbio.

 Le confutazioni da parte della comunità scientifica non si sono fatte attendere. Numerosi fisici, astronomi e tecnici della NASA hanno spiegato in modo chiaro e accessibile i presunti misteri: l’assenza di stelle è dovuta all’esposizione fotografica, le ombre divergenti dipendono dalla morfologia del suolo lunare e la bandiera si muove perché dotata di una struttura orizzontale rigida per rimanere visibile, ma oscilla, inevitabilmente, per inerzia al momento dell’installazione. Eppure, a distanza di decenni, la teoria continua a circolare.

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Uno degli elementi più suggestivi e rappresentativi dell’intreccio tra cultura pop e immaginario cospirativo è il presunto coinvolgimento del regista Stanley Kubrick, che avrebbe collaborato con la NASA per realizzare le riprese dell’allunaggio. L’ipotesi nasce dal successo del film 2001: Odissea nello spazio (1968), la cui accuratezza visiva alimenta l’idea che fosse possibile simulare realisticamente un viaggio lunare. Interviste manipolate, battute ambigue e documentari privi di fonti hanno fatto il resto. In questo caso, più che la verosimiglianza, funziona il fascino dell’intreccio simbolico: Hollywood, la guerra fredda e l’inganno tecnologico.

Oggi, la convinzione che l’uomo non sia mai stato sulla Luna resta una posizione marginale, ma sopravvive come forma culturale e retorica. La sua persistenza non è dovuta tanto alla qualità delle prove offerte, quanto alla capacità di costruire una narrazione alternativa che ribalta il consenso. Dubitare dello sbarco lunare diventa un atto di sfida, un’affermazione di indipendenza critica, anche a costo di ignorare dati verificabili. È in questo senso che l’allunaggio può essere considerato la madre di tutte le teorie del complotto moderne. Una visione del mondo in cui nulla è come appare, e dove dietro ogni grande evento si nasconde sempre un inganno.

 

2. Perché crediamo ai complotti: tra ansia, identità e controllo

Le teorie del complotto fioriscono nei vuoti: di fiducia, di senso e di controllo. Si tratta di narrazioni che offrono una forma di ordine simbolico in un mondo percepito come instabile. Anche se le teorie complottistiche hanno spesso un contenuto inquietante, rassicurano sul piano cognitivo: eliminano il caso, individuano dei colpevoli e costruiscono un senso. Così, permettono a chi le abbraccia di sentirsi informato e facente parte di una minoranza più consapevole, capace di vedere ciò che altri ignorano. 

Come osserva la psicologa sociale Karen Douglas, credere nei complotti può rispondere a tre tipi di bisogni: epistemici (capire il mondo), esistenziali (sentirsi al sicuro), e sociali (preservare un’immagine positiva del proprio gruppo).

La narrazione cospirativa semplifica la complessità: trasforma ambiguità e caos in trame leggibili, spesso animate da antagonisti riconoscibili. In un certo senso, funziona come un antidoto simbolico al disorientamento: se tutto è manipolato da una cabala segreta, allora niente è veramente casuale e questo, per quanto inquietante, può risultare paradossalmente confortante.

Ad esempio, nelle narrazioni complottiste,l’11 settembre non è più un attacco improvviso, ma il frutto di un piano interno. La pandemia da Covid-19, per alcuni, non è un’emergenza sanitaria globale, ma un esperimento di controllo orchestrato da élite farmaceutiche. Anche la morte di personaggi pubblici, come Lady Diana o Paul McCartney (nel caso della teoria che sarebbe stato sostituito), viene riletta come parte di una regia nascosta, anziché come frutto del caso, dell’errore o del destino.

Inoltre, chi aderisce a una teoria del complotto spesso si sente parte di una minoranza risvegliata, dotata di uno sguardo più lucido degli altri. Questo atteggiamento ha una forte componente identitaria: credere al complotto non è solo un modo di leggere la realtà, ma anche di distinguersi. “Io non mi faccio fregare”, “vedo quello che altri ignorano”: una postura che rafforza l’autostima e offre un senso di superiorità epistemica, anche a costo di rinunciare al consenso scientifico.

La sfiducia verso istituzioni, scienza e media mainstream è il terreno fertile su cui queste narrazioni crescono. Più queste fonti vengono percepite come compromesse, più aumenta la disponibilità a cercare e ad accettare spiegazioni alternative, anche improbabili. Come scrive Michael Barkun nel suo A Culture of Conspiracy (2003), il complottismo è una forma di stigmatized knowledge, ovvero un sapere marginale che si legittima proprio in opposizione al sapere ufficiale. In questo quadro, la verità non è ciò che è dimostrabile, ma ciò che le élite vogliono nascondere.

La forza di queste narrazioni sta proprio nella loro struttura oppositiva: più un'informazione viene smentita dai canali istituzionali, più può apparire autentica agli occhi dei credenti. È un paradosso che rovescia la logica della prova: il rifiuto da parte dell’autorità diventa una conferma della verità nascosta. Come osserva Cass R. Sunstein, questo meccanismo funziona anche grazie al rafforzamento reciproco che avviene all’interno di comunità chiuse, dove si crea un effetto echo-chamber: si selezionano solo fonti allineate e si screditano tutte le altre.

Non si tratta solo di credere in una teoria, ma di costruire un’identità collettiva vera e propria che si oppone all’establishment. La teoria del complotto diventa così uno strumento per riappropriarsi di un senso di autonomia epistemica: l’idea di pensare con la propria testa, anche a costo di isolarsi. È proprio in questo contesto che il sapere stigmatizzato assume un valore politico e simbolico: non solo “sapere altro”, ma “sapere meglio, in contrasto con un sistema corrotto e manipolatorio.

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Anche la teoria del complotto sull’allunaggio riflette questo bisogno di ordine e significato in tempi turbolenti. In un clima segnato dalla Guerra Fredda, dal disincanto post-Vietnam e dalla crisi di fiducia nelle istituzioni, immaginare che lo sbarco sia stato una messinscena offre una spiegazione alternativa che ribalta la narrazione ufficiale. Non importa quanto sia inquietante l’idea di un inganno globale: ciò che conta è che questa narrazione fornisca un copione coerente, con responsabili chiari e motivazioni precise. In questo modo, anche lo sbarco sulla Luna viene ricondotto a una logica leggibile, che rafforza il senso di autonomia e la sfiducia verso l’establishment.

Va anche considerato il contesto tecnologico in cui avvenne l’allunaggio. Nel ‘69, l’idea che un razzo potesse raggiungere la Luna, inviare immagini in diretta e far tornare gli astronauti sani e salvi sulla Terra appariva a molti quasi incredibile. I computer erano ancora agli albori, i televisori trasmettevano in bianco e nero, e la distanza tra ciò che la scienza prometteva e ciò che era accessibile alla comprensione del cittadino medio era enorme. Questa distanza ha contribuito ad alimentare il sospetto: l’impresa poteva sembrare più simile a un grande spettacolo mediatico che a un evento scientifico trasparente. Col tempo, questa percezione si è trasformata, adattandosi ai nuovi media e facendo leva sulla retorica del “com’è possibile che con quella tecnologia ci siano riusciti?”. Anche in questo caso, il dubbio non nasce solo dai fatti, ma da una distanza percettiva tra ciò che è stato raccontato e ciò che viene ritenuto credibile.

 

3. Dal set televisivo alla rete: media e immaginario complottista

Fin dal primo momento, la teoria del finto allunaggio ha avuto a che fare con luniverso mediatico. L’evento stesso fu uno dei primi esempi di partecipazione globale mediata: milioni di persone incollate ai televisori, testimoni di un’impresa altrimenti invisibile, resa reale dallo schermo. 

Il fatto che l’allunaggio sia stato vissuto come una diretta televisiva, con immagini in bianco e nero diffusa dalle reti americane, ha alimentato l’idea che si trattasse di un film piuttosto che di una documentazione di un evento in corso. La suggestione è diventata ancora più forte con l’avvento di tecnologie visive sempre più sofisticate: se oggi possiamo simulare un atterraggio lunare al computer, perché non pensare che potesse farlo anche la NASA, magari con l’aiuto di Hollywood, già nel 1969?

Il sospetto complottista cresce, dunque, non solo nonostante i media, ma anche grazie ai media. Fotografie, filmati, registrazioni diventano oggetti da analizzare, rallentare, scomporre. Ogni immagine è un possibile indizio, ogni zoom una rivelazione. Il media, che dovrebbe confermare l’evento, diventa il luogo in cui cercare la prova del falso.

Il passaggio all’era digitale ha radicalizzato questo meccanismo. YouTube, blog e social network hanno moltiplicato i canali di diffusione delle teorie, permettendo a chiunque di produrre e condividere contenuti contro-informativi con una veste professionale. Video amatoriali che analizzano le ombre delle missioni Apollo, documentari che riprendono la teoria del complotto kubrickiano, thread su Reddit che promettono “la verità che nessuno ti dice”: tutto contribuisce a creare un ecosistema parallelo in cui la versione ufficiale diventa solo una delle tante possibili.

In questo contesto, l’allunaggio diventa metafora del potere dei media stessi: se sono riusciti a farci credere che l’uomo è andato sulla Luna, cos’altro potrebbero averci fatto credere? Il complotto funziona allora come racconto autocritico sulla società dell’informazione, dove ogni immagine può essere manipolata e ogni verità fabbricata.

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Non è un caso che alcune tra le teorie più persistenti si appoggino proprio su materiali visivi, apparentemente tecnici, che circolano con dinamiche virali. Il ruolo dei media non è solo quello di trasmettere, ma di costruire e autenticare la realtà. Quando questa funzione viene messa in discussione, ogni racconto ufficiale diventa sospetto.

Un esempio emblematico è quello del Plandemic, un video cospirazionista diffuso nel 2020 all’inizio della pandemia da Covid-19. Presentato sotto forma di documentario, con interviste a presunti esperti e un’estetica da inchiesta giornalistica, il video affermava che la pandemia fosse stata pianificata da un'élite globale per controllare la popolazione attraverso i vaccini. La forza del messaggio non stava tanto nei contenuti privi di fondamento e presto smentiti, quanto nella forma mediale: l’uso di un linguaggio pseudo-scientifico, l’alternanza di immagini di repertorio e grafiche tecniche, l’apparente calma razionale con cui venivano espresse tesi estreme.

Il successo virale del video ha quindi mostrato quanto i mezzi di comunicazione possano conferire autorevolezza anche a contenuti infondati, e quanto il formato visivo, se ben confezionato, possa simulare una verità. Quando i media non vengono più percepiti come autentici, allora il focus non è più sul contenuto dell'informazione ma sull’impressione che essa produce: se sembra vero, può essere creduto e condiviso. È qui che la logica del complotto si intreccia con quella della viralità.

Nel caso dell’allunaggio, la retorica del “ce lo hanno mostrato in TV, quindi non può essere vero” ribalta la fiducia nel mezzo. Il televisore, un tempo simbolo di autorevolezza istituzionale, diventa un oggetto di sospetto; lo schermo, anziché aprire una finestra sul mondo, viene percepito come un sipario che nasconde la messinscena. Questo sospetto non si dissolve con l’arrivo di internet, ma cambia forma: oggi non si crede tanto a ciò che si vede, quanto a ciò che circola fuori dai canali ufficiali.

Così, mentre la televisione è associata a una narrazione omologata e controllata, la rete si presenta come uno spazio libero in cui la verità, finalmente, può emergere. Tuttavia, la presunta libertà è condizionata dai meccanismi invisibili che regolano la circolazione dei contenuti. Le piattaforme digitali non sono strumenti neutri: selezionano, filtrano e promuovono ciò che raggiunge l’utente attraverso algoritmi opachi, progettati per massimizzare l’attenzione e l’interazione. E i contenuti più estremi, divisivi o coinvolgenti tendono a generare più engagement e, quindi, a essere premiati. Come sottolinea il rapporto 2023 dell’European Digital Media Observatory, i messaggi complottisti prosperano in questi ambienti perché si presentano come verità rivelate, capaci di attivare emozioni forti e comunità identitarie.

In questo contesto, il problema non è solo cosa viene detto, ma come e da chi viene trasmesso. Un video su YouTube, un reel su Instagram o una catena su Telegram possono oggi apparire più autentici di un servizio del telegiornale, proprio perché sembrano venire dal basso, da una presunta minoranza informata che ha accesso a verità che le autorità non vogliono farci sapere. La legittimità della fonte viene così ribaltata: non è più garanzia di verità l’essere verificati, ma l’essere non ufficiali.

È in questo scenario che la logica del complotto si intreccia con quella della viralità. La verifica delle fonti passa in secondo piano rispetto alla capacità di generare risonanza emotiva. Più un contenuto colpisce, turba o apre gli occhi, più è condiviso, a prescindere  dalla sua attendibilità. 

Come osserva Claire Wardle, fondatrice di First Draft, la disinformazione funziona perché si inserisce in narrazioni preesistenti e soddisfa bisogni emotivi, identitari, sociali. La questione, allora, non è solo cosa credere, ma a chi credere e perché. In un mondo iperconnesso la costruzione della realtà passa per algoritmi, influenze sociali e dinamiche psicologiche. La verità, dunque, diventa sempre più una questione di percezione condivisa, piuttosto che di verifica oggettiva.

 

4. Il paradosso finale: complotti contro l’algoritmo (diffusi dagli algoritmi)

C’è una sottile ironia nel modo in cui le teorie del complotto si diffondono oggi: le stesse tecnologie che ne sono bersaglio spesso ne diventano i principali vettori. È il caso degli algoritmi delle piattaforme social, ormai al centro di decine di narrazioni cospirazioniste. Secondo queste teorie, i feed di TikTok, YouTube o Instagram sarebbero controllati da entità oscure, se non direttamente da “intelligenze artificiali senzienti” che manipolano le masse per scopi imprecisati: dall’istupidimento collettivo al controllo mentale. L’idea che esista un algoritmo onnisciente che decide cosa vediamo, chi votiamo, cosa compriamo, se vivremo o moriremo, è diventata essa stessa una nuova forma di mito contemporaneo.

Il caso del programmatore di Google Blake Lemoine, ad esempio, ha fatto il giro del mondo nel 2022: secondo lui, l’IA sviluppata da Google (LaMDA) aveva raggiunto uno stato di coscienza e mostrava segni di spiritualità. Nonostante l’azienda abbia smentito tutto, le sue dichiarazioni hanno rianimato l'immaginario collettivo di una macchina pensante che ci osserva, ci giudica e ci nasconde la verità. Su forum come Reddit o 4chan, o nelle chat Telegram, circolano costantemente teorie secondo cui ChatGPT, Siri o Alexa sarebbero interfacce per entità superiori o strumenti per alterare la realtà percepita delle masse. Queste affermazioni non hanno alcuna base empirica, ma in un contesto di sfiducia radicale, diventano plausibili per una parte del pubblico.

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Il paradosso è che queste teorie non si diffonderebbero affatto senza gli stessi algoritmi che esse accusano. Uno studio pubblicato su Nature nel 2023 ha mostrato come i contenuti cospirazionisti abbiano una probabilità del 70% più alta di generare engagement rispetto ai contenuti verificati e neutri. I motori di raccomandazione delle piattaforme, che premiano l'interazione emotiva, favoriscono quei video e quei post che generano indignazione, paura o fascinazione. È l’economia dell’attenzione che incoraggia l’irrazionale: se un video con una teoria cospirazionista sulla "grande sostituzione" o sul "5G che attiva i virus" genera più click, sarà promosso automaticamente. Non perché un’entità lo vuole, ma perché un algoritmo lo misura.

Un altro esempio è il dilagare su TikTok di micro-teorie come quella dei “treni fantasma” (convogli governativi che viaggerebbero di notte per spostare materiali segreti) o quella secondo cui le sirene esisterebbero davvero ma i governi mondiali le nasconderebbero. Questi contenuti, anche quando partono come meme o ironia, trovano presto un pubblico che li prende sul serio e l’algoritmo li eleva nel feed di migliaia di utenti. Un'analisi britannica del 2023 ha evidenziato come i bambini e adolescenti ricevono contenuti cospirazionisti già entro 2-3 minuti dall’iscrizione su alcune piattaforme in base ai primi like e visualizzazioni.

In questo scenario, la logica stessa del sospetto diventa autoreferenziale. Se tutto può essere una menzogna, allora anche la negazione del complotto lo è. E se un contenuto viene censurato o segnalato come falso, non fa che rafforzare l’idea che qualcuno non vuole che venga visto. Così, le teorie del complotto sopravvivono e, anzi, prosperano, proprio perché il mondo contemporaneo è diventato troppo complesso per essere compreso senza una narrativa che lo semplifichi. I social e gli algoritmi non creano i complotti, ma ne offrono un terreno fertilissimo: rapido, personalizzato e coinvolgente.

Il risultato è che le teorie cospirazioniste si adattano perfettamente alla logica digitale: sono brevi, provocatorie, semplificano la realtà e offrono un nemico chiaro. Funzionano perché si adattano alla nostra psicologia ma anche perché si adattano perfettamente al linguaggio della rete. E così, mentre milioni di utenti cercano la “verità nascosta” sfidando l’establishment, finiscono spesso per farsi trasportare da un’altra forza invisibile, impersonale e impersonificata: l’algoritmo.

 

5. Fonti

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Immagine 1 da: BBC Bitesize – What is a conspiracy theory?, BBC, [consultato il 26 maggio 2025].