Maria Cristina Ianiro
"No one wants to die before the end of the story" (nessuno vuole morire prima che finisca la sua storia, ndt.) dice un personaggio dell’ultimo romanzo di Rebecca Makkai, The Great Believers (2018). Sfortunatamente, molte delle persone nel libro della Makkai non sono in grado di correre più veloce della morte: decimate da una piaga che, all'epoca dei fatti narrati, silenziosa e indisturbata, ha mietuto le sue prime centinaia (se non migliaia) di vittime: il virus dell'HIV.
The Great Believers racconta la storia della diffusione dell'AIDS, concentrandosi sugli anni '80 nella città di Chicago. Il romanzo segue le vicende di Yale Tishman, direttore di un museo d’arte che sta cercando di acquisire una collezione privata da Nora, un’ormai anziana modella vissuta nella Parigi degli anni ‘20, proprietaria di molte opere preziose risalenti al periodo tra le due Guerre. Yale, omosessuale, sta anche affrontando la perdita di molti dei suoi amici a causa dell'AIDS, che sta decimando rapidamente la comunità LGBT di Chicago.
Le sue vicende si intrecciano con quelle della sua migliore amica, Fiona, che 30 anni dopo i fatti di Chicago, nel 2015, è ancora segnata dalla perdita dei suoi amici, e sta cercando di rintracciare sua figlia a Parigi, con la quale ha perso da tanto tempo i contatti.
Durante il soggiorno parigino di Fiona presso un vecchio amico (un famoso fotografo che ha documentato la crisi di Chicago), la donna si ritrova finalmente alle prese con i devastanti modi in cui l'AIDS ha influenzato la sua vita e il rapporto con sua figlia. La storia di Yale e quella di Fiona si intrecciano attraverso l’isterismo e il crepacuore degli anni Ottanta, e il caos del mondo moderno, mentre entrambi lottano per trovare qualcosa di positivo nel bel mezzo del disastro.
Secondo il New York Times, Makkai, già autrice di due romanzi e di una raccolta di storie, è molto brava a differenziare i suoi personaggi, a volte servendosi anche solo di un paio di dettagli azzeccati. La sua narrazione apre mondi non familiari alla maggior parte dei lettori, mescolando e intersecando la fiction con la grande realtà storica.
Quando Ivan Turgenev lesse Guerra e pace affermò che Tolstoj era stato capace di comprendere, meglio di qualsiasi altro scrittore, come gli eventi che alterano la storia influenzano anche la vita di ciascuno. Tolstoj infatti credeva che qualsiasi cambiamento, sia esso nella singola vita di un personaggio, sia esso appartenente a eventi della grande storia, sia sempre di fondamentale importanza per la struttura del romanzo stesso.
Secondo il famoso giornale americano, Makkai adotta proprio questo modello di analisi storica trasportata nella letteratura.
Entrambe le parti della sua narrazione (la storia di Yale nel 1985 e quella di Fiona nel 2015) riguardano la perdita inconsolabile e gli sforzi per sopravviverne e, se possibile, ricostruirsi un futuro. Entrambe le storie trattano del potere e dei limiti dell'amore.
La loro giustapposizione ricorda che anche un'epidemia di proporzioni impensabili non esclude che un lettore possa interessarsi alle vicende di una madre disperata alla ricerca della figlia scomparsa. Anzi, proprio come sosteneva Tolstoj, sono questi dettagli infinitesimali a rendere un romanzo armonico.
Le due storie non sono infatti per nulla estranee ai loro eventi letterari. La relazione spezzata tra Fiona e Claire (la figlia) è, a suo modo, un'altra vittima dell'epidemia, facendo da specchio/contraltare ai contagi e alle morti di tanti amici di Fiona che negli anni hanno quasi completamente fiaccato la sua capacità di amare. Così come per Yale che, nell’impossibilità di controllare a pieno la propria infezione, cerca di manipolare Nora in tutti i modi per avere i dipinti, Nora a sua volta rischia di essere travolta dalla catena degli eventi e di essere indirettamente coinvolta dalla diffusione dell’HIV.
L'AIDS ha da sempre rappresentato una minaccia tanto concreta quanto invisibile, che ha minato (e continua a minare) la vita di chi contrae il virus, non solo a livello fisico ma anche psicologico, emotivo e affettivo, soprattutto a causa dello stigma che lo accompagna nelle società.
Si tratta di una condizione che attraversa e riguarda intere comunità (ma non solo) e che col suo trauma scuote la quotidianità di chi ne è colpito in prima persona e dei suoi affetti: ad oggi si contano circa 35 milioni di decessi a causa del virus dell'HIV nel mondo.
Anche secondo il The Guardian, nel libro di Makkai il dolore riecheggia attraverso i il tempo. In un punto del romanzo, infatti, Nora si chiede se sia giusto ‘cedere’ una memoria quando si è gli unici a custodirla, si chiede se questo abbandono possa essere addirittura comparato a un omicidio.
“When someone’s gone and you’re the primary keeper of his memory, letting go would be a kind of murder, wouldn’t it? I was stuck with all that love.” (Makkai, 2018:662)
Sopravvivere a un evento traumatico (sia esso una perdita, una malattia, una guerra, una catastrofe ambientale) carica la persona del peso della memoria del trauma subito, rendendola simbolo vivente di un ricordo che può essere collettivizzato, ri-significato, rinegoziato, per comprendere davvero gli eventi vissuti. Si eredita il dolore che deriva dalla perdita, ma si ereditano anche i ricordi, il carico e l’opportunità di preservare certi momenti, di portare avanti l'eredità di quelli perduti.
Il ruolo di custode della memoria è complicato, come ha scoperto Rebecca Makkai quando ha intervistato per il suo romanzo pazienti, medici, infermieri, attivisti e storici che hanno vissuto in prima persona l'epidemia di AIDS. Lei stessa dichiara di averli coinvolti nel suo lavoro di ricerca non tanto per costruire una trama o dei personaggi più verosimili, ma quanto per capire i piccoli dettagli, le sfumature di chi ha vissuto quell’esperienza sulla sua pelle e che quindi avesse dei ricordi intimi e viscerali.
È proprio da questi dialoghi che l’autrice del libro dichiara di essere riuscita a creare una trama bipartita: la storia di Fiona (custode di una memoria e di un trauma) che vive nella Parigi del 2015 è stata concepita e scritta proprio perché l’autrice sentiva un forte bisogno di dare spazio ai sopravvissuti.
“I became very close with almost everyone that I spoke to. I wasn’t looking for characters because I didn’t need that and I didn’t want that. I wasn’t looking for a plot. I was looking for texture and I was looking for realism.” (Makkai, 27/05/2020)
Leggere oggi, durante una nuova e terribile pandemia, The Great Believers fa realizzare che il nostro mondo è e cambierà per sempre da questo momento, ma nessuno sa ancora come verranno raccolti e raccontati i pezzi di questa storia una volta messa la parola fine alla pandemia.
Ci si potrebbe chiedere se il COVID contribuirà a un'altra "lost generation". Quel soprannome - reso popolare da Gertrude Stein e dal suo protetto Ernest Hemingway - è più comunemente applicato a coloro che sono diventati maggiorenni durante la prima guerra mondiale.
Denota anche specificamente gli americani che accorsero a Parigi all'indomani della guerra per cercare di elaborare la loro nuova realtà attraverso la letteratura. Ma Makkai è più interessata al modo in cui F. Scott Fitzgerald lo usa nel suo saggio "My Generation", su come cioè la guerra abbia trasformato completamente i suoi pari:
“We were the great believers. Well—many are dead, and some I have quarreled with and don’t see anymore. But I have never cared for any men as much as for these who felt the first springs when I did, and saw death ahead, and were reprieved—and who now walk the long stormy summer.”
La scrittrice conferisce lo stesso titolo di “Great Believers” (grandi sognatori, ndt.) a coloro che hanno assistito e sofferto durante il culmine dell'epidemia da HIV tra la metà degli anni '80 e l'inizio degli anni '90.
La reazione iniziale del governo degli Stati Uniti all'AIDS, documentata per la prima volta nel 1981, fu quella di ignorarlo, minimizzarlo e respingerlo. I membri dell'amministrazione Reagan ne deridevano la gravità e il presidente non ammise neppure pubblicamente la malattia fino al 1985. Quando lasciò l'incarico nel 1989, più di 89.000 americani erano morti di AIDS.
Sulla scia di una perdita così incredibile, il ruolo di custode della memoria è complicato da domande sul senso di colpa dei sopravvissuti, che Makkai ha ritrovato nei soggetti intervistati. Molti di loro si chiedevano se meritassero di raccontare queste storie e perché spettasse farlo proprio a loro.
Un intervistato si è sentito così in colpa per aver condiviso la storia di un amico defunto da arrivare a pensare che, se il suo amico fosse stato ancora in vita, probabilmente si sarebbero allontanati. Ha detto a Makkai che si sentiva "unworthy of being the keeper of his legacy" (non degno di essere il portatore della sua memoria, ndt.).
Ma i ricordi sono il modo in cui tenere in vita chi non c’è più e spetta ai sopravvissuti proteggerli e condividerli.
Gran parte di The Great Believers considera come la memoria e l'arte siano intrecciate: in che modo gli interventi storici sulla vita di un singolo hanno un impatto sulle persone e sulle generazioni, e come affrontiamo queste interruzioni? Leggendo diari dell'epoca della prima guerra mondiale, Makkai ha condiviso in un'intervista di essere stata colpita da "severe trauma that was really not dealt with in any way at that time.".
The Great Believers è essa stessa un'opera d'arte realizzata in risposta agli eventi traumatici. Essendo cresciuta a Chicago durante la diffusione dell’AIDS, Makkai è rimasta sbalordita da quanto poco fosse stato documentato il suo impatto sulla comunità LGBT della città. Ha trascorso diversi anni a fare ricerche proprio su quel periodo di panico e confusione e intervistare i sopravvissuti per catturarne con precisione la lotta nel suo romanzo.
Nel trasmettere empaticamente i pensieri e le esperienze dei suoi personaggi, le cui vite si svolgono in tempi non necessariamente vissuti dai suoi lettori, il suo libro diventa un custode di meta-memoria letterario ma molto reale.
Quando finalmente si uscirà da questa attuale pandemia, la visione generale sarà forzatamente alterata. Sarà visibile hic et nunc il mondo com'era prima e dopo l’evento traumatico che lo ha segnato. Come Makkai scrive in modo acuto della Chicago odierna attraverso gli occhi di un personaggio:
"How could she explain that this city was a graveyard? That they were walking every day through streets where there had been a holocaust, a mass murder of neglect and antipathy, that when they stepped through a pocket of cold air, didn’t they understand that it was a ghost, it was a boy the world had spat out?" (Makkai, 2018: 392)
Nel prossimo futuro, si vedranno gli spazi vuoti, il potenziale perduto di vite terminate troppo presto e le passioni non perseguite perché tante vite sono state tolte, sia dalla malattia che dal trauma. Parlando dei suoi amici che non hanno mai avuto la possibilità di tornare ai propri studi o alle carriere che avevano scelto, Nora (l’ex modella parigina) dice che se Picasso fosse morto durante la guerra, tutti si sarebbero resi conto di quante opere, ad esempio Guernica, sarebbero andate perse.
Questa consapevolezza, invece, è inevitabilmente assente quando parliamo di un artista che, proprio perché morto in guerra, non ha avuto la possibilità di diventare famoso e, proprio per questo motivo, lei sente il carico di conservare la sua memoria.
"If I told you Picasso died in the war, you’d understand. Poof, there goes Guernica. But I tell you Jacques Weiss died at the Somme, and you don’t know what to miss." (Makkai, 2018: 535)
A livello individuale e sociale, ciò che è andato perduto verrà pianto, sia il tangibile che l'effimero. La lotta per la giustizia sanitaria è una battaglia che coloro che hanno vissuto durante l'insorgere dell’AIDS hanno contribuito a forgiare.
The Great Believers racconta la crudeltà dell'assenza di azione dell'amministrazione Reagan e quella del sistema sanitario, mentre i personaggi sieropositivi (specchio fedele della realtà odierna) lottano per permettersi cure farmacologiche, lottano con le compagnie di assicurazione per coprire le loro cure e lottano affinché il governo riconosca e risponda alle loro esigenze.
Nel romanzo, un amico di Yale lo incoraggia a partecipare a una riunione organizzativa: "Everyone I know who isn’t political, it’s just because they haven’t tapped into their anger." (Makkai, 2018: 742) Più tardi, sempre lo stesso amico convince Yale a partecipare a una manifestazione, dove mette a rischio la sua vita.
L'azione che Makkai ritrae nel suo libro si è svolta nelle strade di Chicago, organizzata dal gruppo di attivisti di ACT UP nell'aprile 1990. L’associazione ha preso di mira la politica dell'American Medical Association contro l'assistenza sanitaria nazionale e ha condotto con successo una campagna per i cambiamenti in un ospedale locale della contea di Cook, dove i letti erano rimasti vuoti a causa della mancanza di fondi e dove le cure erano state negate alle donne affette da AIDS.
L'amico politicamente attivo di Yale, un giovane avvocato maschio bianco, sottolinea il ruolo della solidarietà nella battaglia: "If we’re not fighting for poor black women who need beds at County… we’re as bad as the fucking Republicans.” (Makkai, 2018: 768)
Proprio in questa parte del romanzo, viene messo in luce un altro aspetto (finora nascosto) del virus: contagia tutti, indipendentemente da sesso, genere, estrazione sociale ed età. Il romanzo, così come altri racconti ufficiali della storia dell’HIV negli anni ‘80 e ‘90 negli Stati Uniti, sottolineano che la maggior parte delle persone contagiate sono uomini appartenenti alla comunità LGBT.
Eppure, una persona su quattro che vive con l'HIV negli Stati Uniti è una donna. Le donne di tutte le età ed etnie possono contrarre il virus, ma alcune donne sono più a rischio di altre: alcuni studi infatti sottolineano quanto le donne di colore, in particolare le donne afro-americane e ispaniche, sono colpite (negli USA) in modo sproporzionato dall'HIV rispetto ad altri gruppi sociali.
Le donne afroamericane rappresentavano oltre il 61% delle nuove infezioni da HIV tra le donne nel 2015, ma sono solo il 14% della popolazione femminile negli Stati Uniti. Le donne afroamericane corrono il più alto rischio di HIV e altre infezioni a sessualmente trasmissibili (IST) rispetto alle donne di altri gruppi. Tuttavia, molte donne afro-americane non conoscono il loro stato di sieropositività: la povertà, lo stigma e la paura della discriminazione possono impedire alle donne di sottoporsi al test o di cercare cure se infette.
Le donne ispaniche rappresentavano il 15% delle nuove infezioni da HIV tra le donne nel 2015. Le sfide culturali possono aumentare il rischio di HIV per le donne ispaniche che cercano di evitare di sottoporsi a un test, di chiedere una consulenza o delle cure se scoprono di essere infette a causa del loro stato di immigrazione, dello stigma sociale attorno al virus e per la discriminazione di cui sono vittime a causa del razzismo.
Anche la povertà impedisce a queste donne di accedere alle cure necessarie, dato il sistema sanitario privato vigente in America e le condizioni di povertà in cui, solitamente, questa comunità si ritrova.
È quindi evidente quanto le discriminazioni e gli stigmi sociali giocano un ruolo nell’aumentare i contagi di questa terribile infezione che non viene trasmessa solo sessualmente, per quanto i rapporti sessuali non protetti siano comunque la prima causa dell’aumento dei contagi.
Le persone che fanno uso di droghe per iniezione o che condividono aghi, siringhe e altre apparecchiature per operazioni endovenose, non perfettamente sterilizzate, sono ad alto rischio di contrazione del virus.
In alcuni casi la correlazione tra uso di droghe per iniezione endovenosa e rapporti a rischio sembra essere stata più evidente di quanto si possa attendere. Sempre secondo questo studio sulle città statunitensi con alti livelli di HIV, il 72% delle donne che hanno iniettato droghe ha riferito di aver fatto sesso senza preservativo nell'ultimo anno.
Rafforzare quindi il dibattito sull’importanza della prevenzione, una giusta comunicazione sanitaria sulle condizioni mediche di una persona sieropositiva e il percorso terapeutico ad oggi possibile, permette non solo di contenere la diffusione dei contagi ma anche di sradicare lo stigma che si abbatte sui soggetti sieropositivi.
Di solito, infatti, questi si trovano ad essere già parte di comunità ritenute minoritarie e quindi discriminate. La condizione medica aggrava la loro condizione di vita e la possibilità di vivere una vita serena e dignitosa.
Il romanzo di Makkai affronta quindi diverse sfide e soprattutto mostra dei personaggi che lottano contro uno stato assente. L'atteggiamento personale di Ronald Reagan nei confronti della crisi dell'AIDS continua tutt'oggi a essere oggetto di discussione: molti di allora e di oggi credono che la sua presidenza sia stata contaminata dalla sua reazione "incerta e inefficace", per usare le parole del famoso biografo Lou Cannon.
L'AIDS è stato percepito come un’infezione esclusivamente gay per molto tempo, a partire dagli anni '80, da un pubblico inesperto, quindi c'era poca o nessuna pressione su Reagan affinché reagisse e aiutasse una minoranza discriminata.
Oggi la situazione è sicuramente diversa, la ricerca ha fatto molti passi avanti ma è importante informare, soprattutto i giovani che non conoscono la storia di questa infezione, su quali rischi essa comporta.
Ci sono lezioni infatti da imparare dall’attivismo dei personaggi del romanzo, quelle che Makkai, con coraggio, dice che risuonano con le lotte attuali:
“We can see… how to support each other through crisis, how to pace ourselves for long-term survival, how to both survive and fight—that you can take care of yourself and fight for yourself and others at the same time.”
Per Makkai è quindi fondamentale sostenersi a vicenda durante le crisi, stimolare noi stessi a sopravvivere e combattere per noi stessi e per gli altri.
Nonostante tutta la perdita e il dolore che The Great Believers mette a nudo, il nucleo del romanzo si rivela in definitiva pieno di speranza perché sottolinea che siamo i custodi della memoria di questo momento storico. Ciò che scegliamo di ricordare e come scegliamo di rispondere definirà la nostra eredità.
Come dice il compianto Luis Sepulveda, “Narrare, resistere”.
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Foto 1 da Goodreads.com (data di ultima consultazione 25/08/2021)
Foto 2 da unicaradio.it (data di ultima consultazione 25/08/2021)