Maria Cristina Ianiro
La memoria non è mai neutrale. È un atto politico e morale, una scelta su cosa ricordare e su come interpretare il passato. Nel caso dell’Olocausto, il concetto di memoria si è cristallizzato attorno all’idea del “mai più”: mai più genocidi; mai più disumanizzazione; mai più l’indifferenza che ha permesso l’ascesa di un sistema di sterminio. Tuttavia, ogni anno, il Giorno della Memoria rischia di ridursi a un rituale commemorativo privo di un reale impatto sul presente. Come ha osservato lo storico Yehuda Bauer, “Ricordare non è sufficiente. La memoria deve portare all’azione” (ndt.).
Oggi, di fronte alle crisi umanitarie globali e al perpetuarsi di forme di oppressione, si è chiamati a riflettere su cosa significhi davvero fare memoria. Non solo come esercizio del ricordo, ma come impegno collettivo per opporsi alle ingiustizie contemporanee. È qui che il Giorno della Memoria trova la sua sfida più grande: applicare le lezioni della storia ai conflitti attuali - dalla tragedia dei migranti ai genocidi dimenticati, fino alle violazioni dei diritti umani in Palestina. Il rischio, altrimenti, è di trasformare il passato in un luogo statico e disconnesso dal presente.
La memoria collettiva non dovrebbe essere un mero archivio di eventi passati, ma una pratica dinamica che ispira azioni concrete nel presente. Eppure, se non studiata a dovere, e se esercitata in modo strumentale, rischia di diventare un elemento che distorce la realtà, riducendosi a una celebrazione ritualistica, e forse addirittura abusiva, che non si traduce in cambiamento sociale. Ricordare tragedie storiche come l’Olocausto è fondamentale per garantire che le generazioni presenti e future comprendano l’importanza della giustizia, della dignità e del rispetto reciproco. Ma, come sottolineato dal filosofo Paul Ricoeur, il ricordo non può limitarsi a un semplice esercizio di commemorazione: esso deve sfociare in un impegno morale attivo che inviti alla riflessione sulle disuguaglianze odierne.
Tuttavia, nella pratica, la memoria collettiva è spesso selettiva e frammentata. Molti eventi, purtroppo, vengono relegati nell’oblio, mentre altri vengono manipolati per giustificare atti di oppressione. Questo abuso della memoria storica non solo sminuisce le tragedie passate, ma rischia di perpetuare nuove forme di ingiustizia, rendendo vano il principio di “mai più”. I conflitti odierni, dalla guerra in Ucraina all’oppressione del popolo palestinese, mostrano quanto la memoria storica venga spesso piegata a interessi politici e strategici, piuttosto che servire come guida per costruire una pace duratura e giusta. Questo tradimento della memoria avviene ogni volta che i ricordi delle vittime vengono usati per giustificare la violenza contro altri gruppi, trasformando la promessa di solidarietà universale in una logica di esclusione.
La disumanizzazione che ha preceduto l’Olocausto, infatti, continua a manifestarsi in diverse forme oggi: dalle politiche di esclusione nei confronti dei migranti alle repressioni sistematiche di intere popolazioni. La retorica che descrive i migranti come una “minaccia” o un’“invasione” è un chiaro esempio di come certe narrazioni alimentino paura e giustifichino il rifiuto della dignità umana, portando a politiche che violano i diritti fondamentali. Allo stesso modo, il trattamento riservato al popolo palestinese, ritratto dalla propaganda israeliana come nemico irredimibile, riflette un processo di disumanizzazione che facilita l’accettazione di atti di oppressione e violenza.
La memoria, dunque, non può essere confinata nel passato: deve trasformarsi in uno strumento per smascherare le ingiustizie del presente, sfidando la complicità e l’indifferenza che permettono alla violenza e all’oppressione di perpetuarsi. Un esempio positivo di come la memoria storica possa diventare uno strumento attivo è dato dall’adozione della Genocide Convention delle Nazioni Unite nel 1948 che, partendo dal ricordo dell’Olocausto, si è tradotto in leggi internazionali contro il genocidio. Un altro esempio significativo è la Civil Rights Act del 1964, che ha visto il cambiamento legislativo negli Stati Uniti dopo decenni di lotte per i diritti civili, motivato anche dalla memoria della segregazione razziale e delle violenze contro la comunità afroamericana.
Solo interrogandoci sul modo in cui trattiamo oggi le disuguaglianze e le oppressioni, possiamo dare un senso autentico al ricordo e spezzare i cicli di odio che continuano a minacciare il nostro futuro.
L’Olocausto rappresenta il paradigma della memoria collettiva moderna: un evento che, non solo ha scosso la coscienza del mondo, ma ha anche definito un modello per ricordare tragedie storiche su scala globale. In quanto tale, ha stabilito una narrativa universale di giustizia, dignità umana e responsabilità collettiva. La frase “mai più” è divenuta per l’appunto un emblema di questo impegno. Tuttavia, questa memoria non è priva di ambiguità. Se da un lato costituisce un richiamo morale potente, dall’altro rischia di essere strumentalizzata o circoscritta a un unico evento, lasciando nell’ombra altri genocidi e persecuzioni.
Al di là della selettività della memoria, un elemento costante sembra essere l’indifferenza verso le vittime, ieri come oggi. La retorica del “non sapevamo,” usata per giustificare il silenzio durante l’Olocausto, risuona tragicamente familiare rispetto a conflitti contemporanei come il genocidio degli Yazidi, la persecuzione dei Rohingya o le violazioni dei diritti umani in Palestina.
Gli Yazidi, una minoranza religiosa presente principalmente in Iraq, sono stati vittime di un genocidio perpetuato dall’ISIS nel 2014: migliaia di uomini sono stati giustiziati, donne e bambine ridotte in schiavitù sessuale e villaggi interi distrutti. Nonostante le prove schiaccianti di crimini contro l’umanità, la risposta internazionale è rimasta largamente insufficiente, con solo timidi interventi umanitari e processi giudiziari spesso simbolici.
Allo stesso modo, i Rohingya, una minoranza musulmana del Myanmar, hanno subito una campagna di violenze sistematiche a partire dal 2017, definita dall’ONU come “un esempio da manuale di pulizia etnica.”(ndt.) Centinaia di migliaia di persone sono state costrette a fuggire in Bangladesh, dove vivono ancora oggi in condizioni disumane nei campi profughi. La comunità internazionale ha risposto con dichiarazioni di condanna, ma senza azioni concrete per garantire giustizia o migliorare la situazione di chi è sopravvissuto.
Questi esempi, accanto alla sistematica oppressione del popolo palestinese, mostrano come la memoria storica venga spesso piegata agli interessi politici e strategici del momento. Il rischio, dunque, è che la memoria, se non accompagnata da azioni concrete, si riduca a un mero atto di commemorazione che non produce alcun cambiamento reale ma che contribuisce solo a mantenere un’illusione di risoluzione.
La memoria dell’Olocausto deve stimolare un impegno attivo nella lotta contro le ingiustizie contemporanee. Purtroppo, però, è oggetto di negazionismo, con alcuni che cercano di riscrivere la storia, minimizzando o addirittura negando le atrocità commesse. Questi tentativi non solo offuscano la verità storica, ma impediscono anche la riflessione critica necessaria per evitare che simili tragedie si ripetano.
Il conflitto in Palestina ha raggiunto livelli tragici di intensità negli ultimi mesi. Tra ottobre e dicembre 2023, secondo le fonti ufficiali dell’ONU e delle organizzazioni per i diritti umani, oltre 15.000 persone sono state uccise, di cui circa il 30% erano minori. Gaza, ormai distrutta da ripetuti bombardamenti, ha visto la devastazione di interi quartieri e l’esodo di decine di migliaia di persone in cerca di salvezza. Non solo il numero di vittime è tragicamente elevato, ma anche il controllo territoriale di Israele è cresciuto, con l’occupazione di ulteriori zone di Gaza. Nonostante la narrazione dominante, Israele non ha alcun diritto su questi territori, che sono invece riconosciuti come parte della Palestina da numerosi atti internazionali, tra cui le risoluzioni dell’ONU. L’espansione delle operazioni israeliane, che hanno provocato enormi danni a infrastrutture civili e la perdita di migliaia di vite, mostra come la violenza e l’occupazione siano elementi costanti in questa lunga e dolorosa crisi che ha costretto milioni di palestinesi a vivere in condizioni disperate, con gravi violazioni dei diritti umani.
Questa escalation si inserisce in un quadro che dura da decenni: l’occupazione israeliana dei territori palestinesi continua a privare il popolo palestinese dei suoi diritti fondamentali. I territori della Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est, infatti, sono sotto il controllo di Israele, nonostante la comunità internazionale abbia ripetutamente dichiarato illegale la politica israeliana fatta di espropriazione delle terre, blocco economico e incursioni militari quotidiane.
Ciò che accade in Palestina è spesso minimizzato o ignorato nella narrativa internazionale, dove la violenza israeliana è giustificata come una “legittima difesa”, mentre la sofferenza palestinese è etichettata come un conflitto senza fine. Tuttavia, se la memoria dell’Olocausto deve significare “mai più”, questa promessa non può essere limitata a un solo evento storico, ma deve essere applicata a tutte le forme di disumanizzazione e violenza.
La tragicità di questa contraddizione diventa ancora più evidente se si considera che gli ebrei, una volta vittime di atrocità indescrivibili durante l’Olocausto, oggi si trovano nella posizione di oppressori, mettendo in discussione l’impegno morale che “mai più” dovrebbe comportare.
Se la memoria dell’Olocausto deve diventare un ponte tra passato e presente, deve spingere a un impegno attivo contro tutte le forme di oppressione. Non possiamo permettere che la sofferenza di un popolo sia dimenticata o ignorata in nome di considerazioni politiche, né che venga sfruttata la memoria del passato per giustificare nuove forme di oppressione. L’impegno collettivo dovrebbe essere quello di fare della memoria storica n una guida per evitare che simili atrocità si ripetano.
Il 27 gennaio, data simbolo della memoria dell’Olocausto, è oggi il punto di incontro tra il ricordo di un passato tragico e le contraddizioni del presente. Questo paradosso emerge con particolare evidenza parlando della Palestina e solleva interrogativi inquietanti sul significato del “mai più”.
Come ha messo in luce Giorgio Agamben, la memoria non è solo un atto di ricordo, ma un potente strumento di manipolazione politica. Nel suo saggio Remnants of Auschwitz (1998), Agamben analizza come le istituzioni e le narrazioni ufficiali possano riscrivere la memoria collettiva per adattarla agli interessi del presente. In questo scenario, il “mai più” rischia di diventare un mantra ripetuto, ma disconnesso dalle sfide attuali.
In maniera simile, Hannah Arendt, che ha esplorato le radici dell’indifferenza e della banalità del male, ci ricorda che la memoria non può essere un esercizio isolato, ma deve essere strettamente legata a un impegno attivo contro le ingiustizie contemporanee. La sua riflessione sul “male banale” non solo decostruisce la narrazione dell’Olocausto, ma ci costringe a fare i conti con l’indifferenza che alimenta la violenza anche oggi.
Il rischio, come ci insegna Primo Levi, è che la memoria diventi un rito vuoto, uno strumento da usare in contesti più facili, ma che in fondo non implichi alcun cambiamento sociale. La tragedia dell’Olocausto non può essere usata come un alibi per ignorare la sofferenza di altri popoli. Allo stesso modo, la commemorazione non può servire a giustificare le politiche di oppressione che perpetuano la violenza. In questo contesto, la memoria rischia di trasformarsi in un esercizio di potere, come accade quando la narrazione del genocidio ebraico viene piegata per giustificare l’occupazione e le violazioni dei diritti umani in Palestina.
La memoria storica, per essere davvero utile, deve diventare un motore di cambiamento per smascherare le ingiustizie presenti.Nel 2025, commemorare l’Olocausto senza interrogarsi su come la memoria venga utilizzata, e per quali scopi, sarebbe un fallimento. La contraddizione di celebrare una memoria che non provoca alcuna riflessione critica sul mondo che ci circonda evidenzia il paradosso di un ricordo che non si traduce in azione concreta e non combatte alcuna oppressione né presente né futura, facendo del “mai più” un mantra senza senso.
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