Susanna Luppi
Ridley Scott è un autore che si è sempre contraddistinto per il suo carattere eclettico e inclassificabile e una formidabile competenza tecnica. Blade Runner lo rappresenta bene e ne giustifica le ambizioni.
Possiamo dire che Blade Runner (1982) ha fatto la storia dei film di fantascienza, regalando immaginario e personaggi che hanno saputo cogliere alcune tra le problematiche etiche ancora oggi difficili da affrontare. Un film divenuto cult perché colpisce dritto all’anima, immergendo lo spettatore in una meraviglia polisensoriale: dalla trascinante colonna sonora di Vangelis (purtroppo scomparso quest’anno) al fascino dell’ambientazione squisitamente analogica (basata su modellini in piccola scala) di una Los Angeles futuristica e alla deriva.
Come è noto, Blade Runner è una trasposizione su pellicola rivisitata di Do Androids Dreams of Electric Sheep?, romanzo fantascientifico di P.K. Dick pubblicato nel 1968.
Ciò che è meno noto è che la parola replicant fu scelta come valida alternativa alla ormai inflazionata android, in quegli anni troppo in voga e ormai poco seducente.
Il replicante è una copia dell’originale. E come si distingue una copia dall’originale? Nel caso della generazione Nexus 6, tanto perfezionata da presentarsi con lo slogan “più umano dell’umano”, la differenza è nella longevità: questi replicanti iniziano a provare emozioni proprie ma non vivono più di quattro anni. Arriviamo così a un punto cruciale: la questione della caducità.
Come suggerisce Stuart Kaminsky, nel cinema dell’orrore e della fantascienza si annidano quegli incubi e sogni collettivi dal potere catartico che in passato erano veicolati attraverso il mito e il racconto popolare. Un modo per trasformare in allegorie le paure impossibili da affrontare. Gli analisti di scuola junghiana hanno poi sostenuto che “queste opere presentano elementi archetipi e simbolici, e che sono manifestazioni di un inconscio collettivo.” Quindi, possiamo considerare i film horror e di fantascienza come una nuova forma per rappresentare paure e ansie universali.
Del resto, lo stesso problema della caducità attanaglia da tempi immemori l’essere umano e si riflette inevitabilmente nel suo immaginario: dalle figure letterarie divenute classiche come Frankenstein di Mary Shelley e Dorian Grey di Wilde a soluzioni più recenti riscontrabili per lo più nel filone horror-fantascientifico.
L’essere umano pensa a tutto pur di sottrarsi alla sua fine. Basti pensare a soluzioni estreme come l’ibernazione adottata nella serie Wayward Pines (2016) o alla profonda analisi trasfigurata tra il sacro e il profano rappresentata in Midnight Mass (2021), mini-serie di M. Flanagan. Addirittura, nel film The thirteenth floor (1999) di Rusnak (tratto dal romanzo Simulacron 3 di D. F. Galouye) il protagonista è un personaggio di un videogioco con una vita propria che inizia a soffrire di sdoppiamento della personalità quando il suo corrispettivo umano si collega al gioco prendendone indebitamente il posto: per sopravvivere, dovrà invertire i ruoli e stabilirsi nel corpo fisico del giocatore.
Come una costante matematica, il bisogno di avere memoria o dei ricordi compare quasi sempre nella caratterizzazione dell’essere artificiale. Questa necessità va spesso a braccetto con la sensazione di essere privi di identità.
Ishiguro nel romanzo Non lasciarmi (2005) si concentra sul problema etico che si addensa nella sottilissima linea che intercorre tra il naturale e l’artefatto, tra l’umano e il clone. È giusto possedere una copia di sé da cui estrapolare organi al momento del bisogno? Difficile rispondere a questa domanda se non si immagina una barriera tra i due esseri viventi. La stessa barriera che, forse, proprio grazie al suo esserci definisce l’identità dell’essere umano “par rapport à”, dunque coinvolgendo necessariamente l’altro al solo scopo di tenerlo distante: un rapporto sì, ma contrastivo.
Cosa può rendere più umano possibile l’essere umano se non il fatto di non essere una macchina? “Più umano dell’umano” recita lo slogan pubblicitario della generazione di replicanti Nexus 6 di Blade Runner, talmente umani da porsi gli stessi problemi - vedi la questione vita e morte, e soffrire delle stesse mancanze, rivendicandole se imposte o ritenute ingiuste.
Membrana, è un classico della narrativa di genere cinese datato 1995 dell’autrice Chi Ta-wei che, con una spruzzata di critica al capitalismo, non si limita ad affrontare la questione della morte e dell’ibridazione con macchine ma introduce con un anticipo disarmante anche il concetto di identità di genere.
La protagonista Momo ottiene sorprendenti rivelazioni sulla sua identità non appena ha accesso alla registrazione su un palmare dei suoi stessi ricordi. Qui la memoria gioca un ruolo fondamentale: dalla propria a quella altrui, essa pare il punto nodale da cui si irradia la consapevolezza di possedere un’identità e una personalità.
Grazie alla memoria ci ricordiamo del come e del perché siamo quello che siamo e del percorso che ci ha condotti fino al presente. Una garanzia.
In Blade Runner la replicante Rachel utlilizza una fotografia per dimostrare di essere un’umana (che non è). Delle fotografie sono anche gli indizi trovati dal killer di replicanti Deckard (Harrison Ford) ben nascoste tra la biancheria di un cassetto, chiara allusione al modo in cui le persone nascondono i propri oggetti di valore:
“Le foto di Leon dovevano essere artefatte come quelle di Rachel. Non capivo perché un replicante collezionasse foto. Forse loro erano come Rachel. Avevano bisogno di ricordi”.
La fotografia è così una prova di autenticità, un ricordo reso concreto anche se per un istante. È un ricordo di un vissuto passato di cui lo stesso Deckard, che è umano, pare non poter fare a meno: una carrellata di vecchie fotografie infatti staziona sul leggio del suo pianoforte. Cinematograficamente è una scena rapida, che dà risonanza al problema dell’identità discostandolo dalla contrapposizione naturale vs artificiale, ponendolo invece come quesito alla base del pensiero umano.
Ciò che sta a cuore ai replicanti è l’idea di non essere stati creati ma di essersi formati nel tempo grazie all’interazione con il contesto. Tra le righe, si può leggere una dichiarazione di indipendenza nei confronti della volontà umana. Ed è quando subentra la volontà che si parla di umanità?
“You can't go backward, only forward in the world of technology”.
Ora, invertiamo le parti: se i cloni/gli androidi trovano nei ricordi la chiave per ottenere un’identità, gli umani forse trovano quella per non perderla.
Questa condizione è rievocata in The Talking Tombstone, and Other Tales of the Media Age scritto da Gary Gumpert nel 1987.
L'autore esamina criticamente le modalità possibili per preservare la comunicazione con esseri umani non più in vita attraverso l'utilizzo dei nuovi media elettronici. Una personalità che resiste al naturale deteriorarsi del corpo è un’identità che si fissa nel tempo. Il cimitero diventa così un archivio interattivo: infatti, quando la comunicazione tra vivi e morti è in atto, non si limita a mantenere vivo il ricordo o il legame affettivo precedentemente instauratosi con questi individui ma viene a crearsi una connessione mentale. Un processo che valica i limiti dell'essere umano relativi alla propria caducità e la sua incapacità di accettarla. Un modo per esorcizzare la morte attraverso il sapere scientifico e l’uso strumentale della memoria del defunto che, dall’aldilà, rincuora i vivi mostrando sontuosamente la sua coscienza imperitura. Ma l’autore ci avvisa, superando questo limite non si potrà più tornare indietro.
“Io ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”.
A differenza del suo successore diretto da Villeneuve (Blade Runnere 2049) il film di Scott ci propone personaggi archetipo, che si consolidano nell’immaginario collettivo grazie alla loro caratterizzazione e alla loro volontà.
Il sequel di Villeneuve sembra più interessato a mostrare le piume lucide della tecnica e della fotografia (a cui nulla si può togliere) a scapito della sceneggiatura e delle questioni etico-filosofiche sottese ad essa. Lo spettatore finisce per perdersi in questo mondo delle meraviglie, dimenticandosi cosa sta cercando e il perché. Il perché alla base di tutto il progetto. Eppure, un ricordo lo abbiamo: Blade Runner di Ridley Scott, la memoria di una presa di coscienza e del replicante che l’ha resa immortale.
F. Di Giammatteo, Milestones. I trenta film che hanno segnato la storia del cinema, Utet, Torino, 2002
Dick P.K., Do Androids Dreams of Electric Sheeps, New York, 1968
S.M. Kaminsky, Generi cinematografici americani, Pratiche, Parma 1994
Rusnak J., The Thirteenth Floor, 1999, Columbia Pictures
Gumpert G., “The Talking Tombstone, or Introduction to a Theme” in Talking Tombstone, and Other Tales of the Media Age, Oxford University Press, New York, 1987