Susanna Luppi
Arancia Meccanica (1971) fa certamente parte dei film che hanno fatto la storia del cinema.
Capolavoro diretto da Stanley Kubrick e tratto dall’omonimo romanzo di Anthony Burgess, Arancia Meccanica si presenta come opera colossale ma figlia del suo tempo, un amalgama bilanciata al millimetro tra drammaturgia classica, dialoghi futuristici dal gusto ironico e intarsi kitsch che si fa tutt’uno con la colonna sonora. Anzi, si potrebbe dire che la musica è la fonte sotterranea che dà linfa a tutto il film.
L’espressione clockwork orange deriva dal gergo britannico (precisamente, il cockney londinese) e indica qualcosa che da vedersi è organico, naturale come un frutto, ma che interiormente cela una natura bizzarra, meccanica. As queer as a clockwork orange, tradotto letteralmente in "strano come un'arancia a orologeria"; un frutto robotico che si muove a comando ed è privo di autenticità.
L’arancia anomala è rappresentata dal protagonista Alex DeLarge (interpretato da un Malcolm McDowell in stato di grazia), ragazzo della middle class, dotato di un’approfondita cultura musicale, ma dall’indole violenta e antisociale.
Alex trascorre le notti in compagnia della sua gang (tre ragazzi detti i drughi), sorseggiando latte drogato e commettendo atti di violenza e stupri.
A seguito di un omicidio (vittima, la signora dei gatti) e di un ammutinamento della gang, Alex si ritrova a scontare una lunga pena in carcere. Qui, impara la “stretta di mano dell’ipocrisia”, belando al cappellano parole di redenzione per poi gongolare, dietro l’angolo, tra gli aneddoti erotici e violenti contenuti nella Bibbia, fiamma vitale delle sue fantasie. Per uscire di prigione, Alex si sottoporrà alla cura Ludovico, un programma sperimentale volto a curare il male dell'animo umano con il condizionamento; di fatto, un’agghiacciante parodia della terapia dell’avversione (con richiamo critico alla psicologia comportamentale di J.B. Watson e B.F. Skinner). Ma il prezzo è caro. Il ragazzo perderà la sua natura rapace insieme al libero arbitrio, trasformandosi così in un’arancia meccanica: all’esterno sana e sicura (per la società) ma interiormente inceppata, comandata da meccanismi.
Dopodiché, come negli spartiti musicali, assisteremo a una variazione sul tema della vita di Alex: tornato in libertà, egli incontrerà tutte le sue precedenti vittime e subirà la stessa violenza che inflisse loro. Soffrirà a tal punto da cercare il suicidio, shock emotivo che inaspettatamente lo libererà dal condizionamento psicologico.
Ora Alex è sulle prime pagine dei giornali, a creare e disgregare l’opinione pubblica a seconda di chi parla. Tornato il rapace di un tempo, stringerà un patto con il primo ministro, garantendogli il suo posto in politica in cambio di una falsa dichiarazione di efficacia della mostruosa cura Ludovico.
Girare questo genere di scene sollevò parecchie polemiche, dalla questione morale al problema dell’emulazione giovanile, fattore che creò non pochi problemi (censura compresa). Tuttavia, ciò che spesso è fraintesa è l’intenzione di Kubrick: l'obiettivo del regista è analizzare un tratto umano e le sue implicazioni sociali servendosi della simulazione filmica. Citando le sue stesse parole (da, Non ho risposte semplici. Il genio si racconta, 2018):
“Uso Alex per esplorare un aspetto della personalità umana. Fa cose che sappiamo essere sbagliate, eppure ci si scopre a farsi incantare da lui e ad accettare i suoi sistemi di riferimento. Come in un sogno, il film esige una sospensione del giudizio morale”.
Si chiede così allo spettatore di osservare, di portarsi al di là del bene e del male accettando la rappresentazione come medium. Anche Vattimo spezza una lancia a favore del fine piuttosto che del mezzo, sostenendo che “l’imitazione artistica in generale, come procedimento tecnico, è sempre fatta in vista di fini, principalmente in vista della utilità”. E, in questi termini, cosa c’è di più simbolicamente connotato della rappresentazione teatrale?
Secondo Aristotele, la tragedia appartiene al dominio dell’imitazione (intesa come poiesis ovvero il produrre qualcosa di nuovo). Dunque, riprodurre la realtà in un modo un po’ diverso. Il riferimento alla realtà si giustifica come accorgimento tecnico per produrre piacere e catarsi. Se poi ci si addentra in ambito artistico, l’imitazione si fa motore costante della creazione umana.
Il cinema, in quanto settima arte, non fa eccezione, anzi: si potrebbe dire che rappresenta “l’imitazione per eccellenza”.
Kubrick mette a nudo questo processo, offrendoci una tragedia contemporanea in cui si serve di vari stratagemmi per rendere palese la sua simulazione. È il caso delle ambientazioni dal tono parossistico, con interni dall’incredibile richiamo alla pop art, alla optical art e a Roy Lichtenstein. Eccessi kitsch, come parrucche sgargianti e manichini nudi e volgari. Uno sfrenato uso del grandangolo in fase di ripresa (che aggiunge alle inquadrature una deformazione carica di pathos). Infine, e forse soprattutto, il regista si serve della musica.
Se si parla di Arancia Meccanica e della sua armonia su pellicola, la musica pare esserne il motivo conduttore. Il film si apre sulle inquietanti anamorfosi musicali di Wendy Carlos (ai tempi, Walter) compositrice di musica elettronica che riarrangia Funeral of Queen Mary di Purcell, registrandola per sempre nelle orecchie dello spettatore, dissacrando seppur aggiungendo pathos, il capolavoro della musica classica.
La magia di Carlos prosegue con Rossini: il Guglielmo Tell si fa accelerazione orgiastica e ironica, accompagnando gli amplessi frenetici di Alex e due ragazze abbordate in un record store. La Gazza Ladra si fa invece ritmo surreale di atti di ultraviolenza (scena della lotta con la banda di Billy Boy al teatro abbandonato, della guida euforica a bordo della Durango e della colluttazione con la signora dei gatti). Un vero e proprio leitmotiv che incornicia le scene in un frame dal gusto teatrale, catapultando lo spettatore tra i primi posti all’Opéra. Un leitmotiv che circoscrive chiaramente la brutalità delle azioni nella dimensione del fittizio, della simulazione, allontanando la gravosità emotiva. Anzi, risultando perfino ironico a causa del contrasto che crea, riuscendo infine in un grande intento: sdrammatizzare. In un’intervista sulla rivista Take One (uscita di maggio-giugno, 1971) il regista sostiene infatti che:
“Un autore satirico ha un’opinione molto scettica e pessimistica della natura umana […] ma ha comunque l’ottimismo per buttarla in ridere. Per quanto lo faccia a volte in modo brutale”.
Altro asse polare è certamente costituito da Beethoven, con un posto di eccellenza per la Nona Sinfonia. Intorno a essa gira tutto l’universo di Alex: dalle fantasie che, seppur orribili, gli procurano piacere emotivo, all’agonia della tortura vissuta durante il processo di riabilitazione e provata in futuro, infine come celebrazione del sordido compromesso con il governo, su cui cala il sipario. La Nona Sinfonia veicola così impulsi brutali e primordiali quanto il controllo su di essi, elevando il pathos a dramma classico e riuscendo a sintetizzare i caratteri nietzschiani di dionisiaco e apollineo. La musica di Beethoven si fa così simbolo del bene e del male.
C’è infatti una vera e propria poetica intessuta intorno a Beethoven la cui presenza, come un disco rotto, ritorna sempre e a ritmo costante: nella camera di Alex il poster del musicista torreggia su un pot pourri di immagini erotiche e ridicole statuette blasfeme; stesso allestimento si ha nella sua cella in prigione, in cui spicca anche un mezzobusto in miniatura; il mezzobusto diventa anche un’arma di fortuna impugnata dalla signora dei gatti; Ludovico è il nome del condizionamento psicologico e la Nona Sinfonia ne costituisce l’acme di disagio. Tra riferimenti visivi e orali, Beethoven si fa il fondo che soggiace a tutta l’opera. Si potrebbe quasi dire che il film è una sinfonia in chiave di “Ludovico Van” (così come lo chiama Alex).
Come in un concerto, si ha anche un’improvvisazione, ed è il caso di Singin in the Rain. Dopo innumerevoli ed estenuanti tentativi, la scena dello stupro a casa Alexander (l’attempato scrittore) non convinceva Kubrick. Stando alle parole di McDowell (Short Cuts, Il cinema in 12 storie, 2022):
“A un certo punto Stanley mi chiede: ”Malcolm, sai ballare?”. Gli avrei risposto di sì anche se mi avesse chiesto se sapevo volare. “Prova a farla come se fosse una danza” – mi dice – e canta: canta la prima cosa che ti viene in mente”. Io, chissà perché, la provo cantando Singin’ in the Rain”.
Fu proprio McDowell a improvvisare canzone e balletto in seguito alla richiesta del regista che, estasiato dalla performance, corse al telefono per ottenere i diritti della canzone.
Questione nodale per Kubrick era di rappresentare la violenza senza servirsi dello stile narrativo. La prima parte del film vede infatti molte scene violente organizzate intorno a La Gazza Ladra di Rossini dando quasi l’impressione che la violenza si trasformi in danza.
In un'intervista con Maurice Rapf (Conversazione con Stanley Kubrick su 2001,1969) il regista sostiene infatti che:
“[…] in termini cinematografici dovrei dire che il movimento e la musica devono invariabilmente essere collegati alla danza, proprio come la stazione spaziale rotante e l’astronave che approda su Orione, in 2001, si muovevano al suono del Bel Danubio blu. […] il movimento, il montaggio e la musica sono i fattori principali; danza, quindi?”
La danza rappresenta qualcosa di mutevole e in divenire, un’azione che lega la soggettività di chi la compie all’ambiente esterno e in grado di costruire con esso, e nel suo compiersi, un messaggio.
Prendendo in esame un'affermazione di McLuhan:
“La luce è informazione senza «contenuto» come il missile è un veicolo senza ruote e senza una strada. Questo è un autonomo sistema di trasporto che consuma non soltanto il proprio combustibile ma il proprio motore, mentre la luce è un sistema autonomo di comunicazione nel quale il medium è il messaggio.”
Contestualizzato, il “comportamento” della danza può manifestare un tratto comune alla luce elettrica: come la luce si identifica in medium caratterizzato da entrambe le funzioni di mezzo e messaggio, anche il danzare può rivelarsi come mezzo (costituito dall'effettiva attività svolta dal corpo) e, allo stesso tempo come messaggio (un messaggio intrinseco ai movimenti effettuati). Un mezzo e un messaggio presenti e percettibili nel momento in cui la danza si compie ma che svaniscono nell'esatto istante in cui si manifesta una qualsiasi interruzione.
Proprio grazie alla danza, Kubrick riesce a dare completezza alle scene violente, trasformandole in una recita di marionette grottesca, ma allo stesso tempo genuina. Con il ballo si può fondere una coreografia visibilmente piacevole con un'azione moralmente discutibile. Lo si può vedere chiaramente nella sequenza di ultraviolenza al teatro abbandonato, quando Billy Boy e la sua gang tentano di violentare una ragazza e durante lo stupro a ritmo di Singin’ in the Rain. In forma accennata, si percepiscono balletti in tutte le scene di colluttazione, dalle botte ai drughi ribelli allo scontro con la signora dei gatti, fino alla scena finale in cui una ragazza immaginaria tenta la fuga dalla brama sessuale di Alex.
Danza e musica snelliscono il dramma e generano un significato nuovo, quello vissuto dal protagonista e sbattuto in faccia al pubblico: il fatto di portarsi appresso il male umano e di non essere in grado di scegliere il bene.
Siamo agli antipodi della massima faustiana in cui si ha “quella forza che eternamente vuole il male e eternamente compie il bene”. Alex il bene non lo compie. Si limita a non esercitare il male poiché bloccato dal sistema e trasformato in arancia meccanica. Egli personifica il male nella sua forma più onesta e genuina, quasi cristallina.
A tutto ciò si sommano la pena sofferta perdendo il libero arbitrio e lo squallido compromesso stipulato coi poteri alti, dove più che mai tutto si riduce a una questione di comodo. Alex non fa che collezionare drammi che, sul ritmo della Nona di Beethoven, si susseguono uno dopo l’altro sullo spartito della sua esistenza.
Del resto, come proferito dal prete di prigione: “La bontà vien da dentro. La bontà è una scelta. Quando un uomo non ha scelta, cessa di essere uomo”.
Take One, rivista, maggio-giugno, 1971
Head D., The Cambridge Introduction to Modern British Fiction, 1950-2000 (data di ultima consultazione: 19/02/23)
Feyles G., La televisione secondo Aristotele, 2002, Editori riuniti
Kubrick, S., Non ho risposte semplici. Il genio si racconta, Minimum Fax, 2018
Crespi, A., Short Cuts. Il cinema in 12 storie, Editori Laterza, 2022
Houston P., Nel paese di Kubrick, 1971
McLuhan M., “Gli alloggi. Nuovo aspetto e nuova prospettiva” in Capire i media. Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, 2001
Tempi moderni: un'intervista con Stanley Kubrick di P. Strick e P. Houston in: archiviokubrick.it (data di ultima consultazione: 19/02/23)
Goethe J.W, Faust, Oscar classici, 2016