Maria Antonietta Bertacco
Janis Joplin non è stata solo una delle voci più iconiche della storia del rock, ma fu soprattutto l’incarnazione dell’anima selvaggia e vulnerabile della controcultura degli anni ’60. La sua capacità di riversare nelle sue interpretazioni un’emotività cruda e autentica rendeva ogni esibizione un’esperienza viscerale, trasformando il suo dolore in arte. Era una figura che rompeva gli schemi, sfidando il conformismo, le aspettative di genere e il perbenismo sociale. La sua voce graffiante, il suo stile disinibito e la forza con cui viveva le sue emozioni hanno fatto di lei una pioniera nella scena musicale rock. Tuttavia, dietro l’immagine ribelle si nascondeva una persona fragile, perseguitata da un profondo senso di solitudine e inadeguatezza, elementi che hanno segnato ogni sua canzone e momenti della sua vita.
Nata il 19 gennaio 1943 a Port Arthur, in Texas, Janis Lyn Joplin crebbe in un ambiente che non avrebbe potuto essere più lontano dalla sua visione del mondo. La cittadina era dominata da raffinerie di petrolio, razzismo e moralismo religioso, tutti elementi che Janis rifiutò fin da giovane. La famiglia era di classe media e profondamente conformista: il padre era un ingegnere e la madre, estremamente religiosa, cercava di spingere Janis verso una vita più tradizionale, ma la sua indole non si piegava.
Durante gli anni della scuola superiore, Janis fu vittima di un bullismo incessante. I compagni la prendevano di mira per la sua indipendenza di pensiero e per il suo aspetto fisico, deridendola per l’acne e il peso, che le valsero il soprannome di “maiale”. Anche molti anni dopo, da artista di successo, ricordava con dolore l’episodio in cui fu eletta “l’uomo più brutto del campus” durante la sua prima esperienza al college.
Per difendersi, diventò sempre più aggressiva. Iniziò a usare un linguaggio più volgare e frequentare un gruppo di ragazzi emarginati e ribelli, con i quali spesso andava in Louisiana per evadere dal bigottismo del Texas. Lì ascoltava dal vivo il blues, la “musica del diavolo”. Ascoltava ossessivamente Bessie Smith, Ma’ Rainey e Leadbelly, trovando nei loro brani una valvola di sfogo per il suo senso di oppressione. Anni dopo, scoprendo che la tomba di Bessie Smith era priva di una lapide, Janis decise di comprarne una per rendere omaggio a colei che aveva profondamente influenzato la sua vita e la sua musica.
La passione per la musica, però, non trovò un luogo di espressione nel coro cittadino di Port Arthur, da cui fu cacciata perché troppo ribelle e incontrollabile. Janis scappò dal Texas nel 1961, dirigendosi prima a Los Angeles e poi a San Francisco, attratta dalla nascente scena beat e psichedelica. Tuttavia, l’impatto con la città fu devastante: tra droghe pesanti e alcool, il suo stato fisico e psicologico peggiorò drasticamente, tanto che gli amici dovettero raccogliere i soldi per rimandarla a casa, dove si riprese momentaneamente.
La svolta per Janis Joplin arrivò nel 1966 quando Chet Helms, un noto promotore di concerti, la contattò per entrare come cantante nei Big Brother and the Holding Company. Nonostante l’aspetto dimesso e la paura iniziale di cantare con strumenti elettrici, Joplin impressionò la band con la sua intensità vocale. Nel 1967, la performance al Monterey Pop Festival fece esplodere la sua fama: la sua versione di “Ball and Chain” (Big Mama Thornton, 1967) fece letteralmente fermare il tempo, lasciando il pubblico estasiato. Fu proprio quella performance a catturare l’attenzione dei media e delle case discografiche.
Il primo album, Big Brother and the Holding Company (1967), fu registrato in modo approssimativo e non rese giustizia alla potenza dal vivo della band. Fu, con il secondo disco, Cheap Thrills (1968), che il gruppo dominò le classifiche, grazie a brani come “Piece of My Heart” e una straordinaria versione di “Summertime” di Gershwin (1935). Janis Joplin, sempre più protagonista del gruppo, mostrava un’espressività vocale unica, capace di passare dai toni disperati del blues ai picchi di forza selvaggia del rock.
Nonostante il successo, cominciarono a esserci forti tensioni all’interno del gruppo e Janis decise di proseguire la carriera da solista. Il suo primo album da solista, I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama! (1969), segnò un cambiamento di stile. Janis cercava di mescolare il blues con il soul, ma l’album non fu accolto con lo stesso entusiasmo del precedente. Tuttavia, brani come “Try (Just a Little Bit Harder)” e “Maybe” mostravano una maturità artistica crescente.
Nel 1970, Joplin mise insieme una nuova band, la Full Tilt Boogie Band, con cui iniziò a lavorare a un nuovo album. Durante le sessioni di registrazione, Janis Joplin incise alcuni dei suoi pezzi più memorabili, tra cui “Me and Bobby McGee”, scritto da Kris Kristofferson, uno dei suoi grandi amori. Ma Janis, purtroppo,non riuscì a vedere l’uscita dell’album: la mattina del 4 ottobre 1970, fu trovata morta nella sua stanza d’albergo a Los Angeles, vittima di un’overdose di eroina.
L’album, intitolato Pearl, uscì postumo nel 1971 e consacrò definitivamente la sua leggenda. “Pearl” era il soprannome che lei stessa aveva adottato negli ultimi anni, una sorta di alter ego che rifletteva sia il suo lato più sfrontato e ribelle sia quello più vulnerabile. Janis non fece in tempo a registrare la traccia vocale dell’ultimo brano, dal titolo quasi profetico “Buried Alive in the Blues”, che restò un pezzo strumentale, a lasciar intendere l’assenza definitiva della cantante. Infine, Pearl includeva anche “Mercedes Benz”, una traccia registrata a cappella, simbolo della sua ironia e della sua consapevolezza del consumismo che permeava anche il mondo della controcultura.
Dietro il mito di Janis Joplin c’era una donna fragile, costantemente alla ricerca di amore e accettazione.
Il suo rapporto con l’alcol era strettamente legato alla solitudine e divenne un rifugio per alleviare il dolore e il senso di inadeguatezza.
Janis era spesso vista con una bottiglia di Southern Comfort, un whiskey che divenne parte integrante della sua immagine pubblica. Addirittura, riuscì a ottenere una pelliccia di lince come compenso per la pubblicità involontaria che faceva al marchio. La sua dipendenza, insieme all’uso di eroina, finì per consumarla, portandola a entrare nel tragico “Club dei 27”, il gruppo di artisti scomparsi a quell’età a causa degli eccessi e dei tormenti interiori, di cui fanno parte anche Jimi Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain e Amy Winehouse.
La sua musica rifletteva perfettamente queste emozioni: ogni brano sembrava un grido disperato di chi cercava, senza mai trovare, la pace interiore. Come lei stessa ammise: “Sul palco faccio innamorare venticinquemila persone, poi vado a casa da sola”. Quella connessione intensa con il pubblico era una fuga temporanea dalla sua sofferenza, ma non riusciva a colmare il vuoto che provava al termine di ogni esibizione. Canzoni come “Cry Baby” (Garnet Mimms, 1963) e “Ball and Chain” non erano solo esecuzioni, ma confessioni profonde che mettevano a nudo la sua anima tormentata. Ogni performance diventava così un’esperienza catartica, un rituale di liberazione che coinvolgeva anche il pubblico.
Oltre alla sua musica, Janis Joplin ha avuto un impatto profondo sulla cultura e sul femminismo. In un’epoca in cui le donne nel rock erano poche, Janis si fece strada con una forza che sfidava ogni stereotipo di genere. Saliva sul palco senza trucco, con vestiti larghi e capelli spettinati, esibendo una femminilità che rifiutava i canoni tradizionali di bellezza. Era l’antitesi della perfezione patinata di attrici come Audrey Hepburn e Julie Andrews e il suo atteggiamento sul palco rappresentava una sfida diretta ai ruoli imposti alle donne dell’epoca.
Janis Joplin ha influenzato innumerevoli artiste, da Stevie Nicks a P!nk, mostrando loro che una donna poteva essere potente, vulnerabile e ribelle al tempo stesso. Janis ci ha lasciato a soli 27 anni, ma il segno che ha impresso nella musica e nella cultura è eterno. Nonostante la sua breve carriera, ha dimostrato che l’autenticità e la passione possono lasciare un impatto indelebile e ancora oggi la sua voce continua a risuonare, come un inno alla libertà e alla ribellione.
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