Sorry to Bother You: il nuovo cinema dissidente americano

Jacopo Norcini Pala

Sorry to Bother You, esordio cinematografico del rapper statunitense Boots Riley, è una satira impegnata e rivoluzionaria che conferma le ultime tendenze dell'industria dell'intrattenimento americano.

La realtà non basta più. È un ritornello sempre più sentito negli ultimi anni, quando si parla di cinema: Get Out (2017), Isle of Dogs (2018), persino il blockbuster Black Panther (2018), sono probabilmente alcuni tra i film più politicamente impegnati degli ultimi tempi, e fanno parte di una più lunga serie di produzioni cinematografiche in cui il grottesco, il fantastico e l’inimmaginabile sono i migliori espedienti con cui rivolgere una critica alla realtà socio-politica-culturale dei nostri tempi. Sorry to Bother You, uscito pochi mesi fa negli Stati Uniti, si aggiunge a questa schiera di film con un tono da commedia surreale, una satira bruciante che si diverte a sfidare l’assurdo della realtà quotidiana deformandola fino all’inverosimile.

Il titolo allude al lavoro che il protagonista Cassius “Cash” Green, interpretato da Lakeith Stanfield, ottiene in un momento di estrema difficoltà: Cassius vive infatti con la sua fidanzata Detroit (Tessa Thompson) in un garage affittato da suo zio Serge (Terry Crews), che gli ha anche regalato quello che a tutti gli effetti è la carcassa fumante di un’automobile. Green cerca di farsi assumere per l’azienda di televendite RegalView, una compagnia che periodicamente rifiuta di pagare il salario dei propri impiegati. L’ideale del sogno americano, quello del duro lavoro ripagato infine dalla ricchezza e da una vita piena, viene sbeffeggiato e umiliato a più riprese. Basta guardare la prima sequenza del film, ovvero il colloquio di Cassius con il manager della RegalView. L’incontro riassume chiaramente un approccio idealizzato al mondo del lavoro e che viene mandato in frantumi: per avanzare non si fa più affidamento a valori quali l’impegno e la passione; piuttosto non si spreca tempo nel ricorrere alla furbizia e al trucco nella gara alla soddisfazione dei propri interessi.

Boots Riley, questo il nome della mente dietro al film, si avvale di sketch che si rifanno alla commedia più demenziale e cartoonesca dello standard cinematografico. Ad esempio, quando Cassius chiama i suoi clienti, la sua scrivania precipita nel vuoto per atterrare di fronte alla persona all’altro capo del telefono, in un sottile gioco che evidenzia l’inappropriatezza e l’intrusività tipiche della sua figura professionale, fino ad arrivare a momenti paradossali in cui il protagonista cerca di piazzare il proprio prodotto nelle situazioni più inappropriate. I primi giorni di Cassius sono un totale fallimento, fino a quando un vecchio collega (Danny Glover) lo inizia all’utilizzo della “white voice”, ossia una voce che realizza a pieno il sogno americano, che “sa di aver pagato le bollette”, e che quindi è inevitabilmente WASP nel timbro e nel vocabolario (e che viene resa in maniera esilarante dal doppiaggio del comico David Cross).

La RegalView è inoltre un’azienda che non bada a mascherare i conflitti di classe: oltre ai normali impiegati come Cassius, la parte più succosa del lavoro è affidata ai cosiddetti power caller, sempre ben vestiti, ben pagati e con un ascensore d’oro riservato (con tanto di messaggio personalizzato ad opera di Rosario Dawson, in quella che sembra una frecciatina nemmeno troppo esplicita ai temi di Her di Spike Jonze). Non appena Cassius scopre di saper utilizzare la white voice per vendere ai clienti i prodotti pubblicizzati, viene notato dai piani alti ed è di conseguenza promosso. È così che scopre dei loschi traffici della RegalView e di un’azienda chiamata WorryFree, che offre ai propri impiegati un contratto a vita in cambio di vitto e alloggio. In contrapposizione all’ascesa lavorativa di Cassius (ultimo in una serie di impiegati del grande schermo che passa dal Jack Lemmon di The Apartment al Sam Lowry di Brazil), Sorry to Bother You segue anche il percorso di realizzazione artistica di Detroit. La ragazza è infatti una caleidoscopica femminista dedita alla lotta continua e alla creazione di opere artistiche concettuali che incoraggiano verso l’empowerment di ogni categoria emancipata.

Riley immagina non solo i personaggi e i loro pensieri, ma anche il mondo attorno ad essi in dettagli al limite del minuzioso: il fatto che il programma televisivo più popolare del mondo di Sorry to Bother You sia intitolato “I Got the S**t Kicked Out of Me”, che tutti i nomi dei prodotti più simbolici del consumismo americano siano sabotati e rimaneggiati, o che ad un certo punto del film un promo televisivo sia diretto da tale Michel Dongry denotano il disprezzo del regista nei confronti della società capitalista americana, sempre pronta a mercificarsi. Il climax della denuncia avviene però durante un party a casa di Steve Lift, il fondatore della WorryFree (un Ammie Archer in stato di grazia), in cui convergono alcuni dei momenti più esilaranti del film e attimi di puro terrore socio-fantascientifico accelerati da rush di cocaina. Il plot twist della trama, che getta le fondamenta per l’intero terzo atto, è un violento j’accuse a tutto quello che il capitalismo, anche nelle sue forme più etiche e libertine, rappresenta e invita lo spettatore a reagire con ogni mezzo di fronte al suo impossibile, inarrestabile dominio. 

Gli ultimi trenta minuti di Sorry to Bother You sono quindi un concentrato di paranoia, razzismo, rivolte sedate da una polizia disumanizzata e violenta, corruzione e più in generale di disgusto per il Sistema a cui Cassius e gli altri personaggi resistono strenuamente. e se il finale sembra voler lasciare lo spettatore con una nota positiva (Cassius e Detroit di nuovo insieme, di nuovo nel garage dello zio), l’ultimo minuto del film diventa l’ennesimo pesantissimo grido di accusa e di reazione violenta ad ogni costo contro l’oppressione sociale ed economica.

Se da questa recensione pare che Sorry to Bother You metta troppa carne al fuoco, è probabilmente così: le vicende della trama non sono tutte affrontate con la stessa profondità, e la terza parte del film è particolarmente confusionaria nella risoluzione di molte delle situazioni qui emerse. D’altronde, si tratta del primo film di Riley, che fino a quest’anno era conosciuto prettamente solo per essere il fondatore del gruppo rap iper-politicizzato The Coup, e a cui quindi si possono perdonare alcune ingenuità del medium a favore di una narrazione che si scopre in diversi punti come particolarmente personale e autobiografica. Ovviamente, Sorry to Bother You non fornisce nemmeno una prospettiva imparziale dei fatti: si tratta chiaramente di un film schierato e che non si fa problemi a sottolinearlo. Citando ancora una volta lo stesso Riley, persino il titolo agisce come scusante: il regista sa benissimo che chi non la pensa come lui troverà disturbanti e noiose la moltitudine di messaggi, frecciate o invettive del suo prodotto, ma chiede comunque di guardare e ascoltare ciò che il film ha da mostrare e da dire. 

 

Bibliografia

 

Riley Boots, Sorry to Bother You, 2018 

 

Foto 1 da cinematographe.it (data di ultima consultazione: 30/08/2021)

Foto 2 da hotcorn.com (data di ultima consultazione: 30/08/2021)

Foto 3 da incentralperk.blogspot.com (data di ultima consultazione: 30/08/2021)