Jacopo Norcini Pala
Il primo gennaio 2018, senza nessun annuncio stampa, è stato rilasciato il nuovo album di Jeff Rosenstock, fondatore del gruppo ska punk Bomb the Music Industry! e autore di uno dei dischi più acclamati del 2016, quel WORRY. che aveva fatto capolino in diverse classifiche di fine anno di riviste patinate a fianco di titani come David Bowie e i Radiohead.
POST-, questo il titolo dell'LP rilasciato dall'etichetta SideOneDummy, riprende il filo concettuale del disco precedente, ma l'eccitazione e la voglia di cambiare le cose del clima pre-elettorale sono state sostituite uno sforzo più intimista, una riflessione sulla confusione di un individuo e di un'intera nazione a poco più di un anno dall'elezione di Donald Trump. L'opener del disco, se non si vuole contare il breve skit di appena cinque secondi di "Mornin'!", è la travolgente "USA": un susseguirsi di sferzate chitarristiche che raccontano la disillusione di Rosenstock.
Il ritornello "Please be honest / Tell me it was you?" va alla ricerca di un colpevole del risultato elettorale e prova a reagire alla iniziale incapacità di articolare la propria risposta, in una furia punk che si spegne dopo qualche minuto lasciando spazio ad un mantra accompagnato da un piano elettrico ("Well, you promised us the stars / and now we're tired and bored", un racconto della demagogia statunitense in due versi) che si risolleva in un finale corale tanto arrabbiato quanto gioiosamente pop.
Il racconto di Rosenstock esplora i temi dell’indignazione e la protesta con la doppietta di “Yr Throat” e “All This Useless Energy”. Qui la narrazione si sposta sulle vicende autobiografiche a confronto con la realtà disastrata e inconcepibile nello scenario americano contemporaneo, evidenziata da una coscienza politica espressa con difficoltà e riluttanza e da un continuo scontro di schieramenti sempre più mutualmente esclusivi. “Powerlessness” si muove sugli stessi binari dei due pezzi precedenti senza mai levare il piede dall’acceleratore, un altro importante esempio dell’abilità di Rosenstock come songwriter oltre che come interprete.
Gli hooks melodici si fanno sempre più contagiosi e catchy, in commistione con testi che ondeggiano sempre tra l’autoaccusa umoristica (da vero newyorkese quale Rosenstock è) e l’osservazione schierata dell’America di oggi (versi come “This just dawned on me: / I haven’t spoken to another person in a week” e “I met you at the coffeeshop / We marched on the interstate and blocked the cops” convivono nella stessa stanza, creando un clima surreale di protesta dell’autorità come scenario dell’infatuazione del protagonista).
Quando si decide a tirare il freno, come in “TV Stars” e in “9/10”, Rosenstock riconferma la sua dote di arrangiatore imprevedibile, contenendo però la sua quirkyness a livelli molto più bassi dei suoi precedenti album (niente kazoo, niente stacchi ska, niente sfuriate hc). Le atmosfere del disco sono vicine ai musical hollywoodiani tanto quanto ai seminali Big Star, filtrando il tutto tramite il solito punk tardo-adolescenziale dei primissimi Green Day (quelli di Dookie e Kerplunk, per intenderci) e dei concittadini Gorilla Biscuits.
L’esplosività dell’impianto strumentale deve però sempre fare i conti con lo scenario a tinte fosche dei testi e dei temi portati in campo. L’alienazione creata dalla celebrità (la sopracitata “TV Stars”, che fa il paio con il gesto extra-medium dell’anno scorso al Pitchfork Festival, in cui Rosenstock annunciò dal palco quanto lo stavano pagando) e il tentativo di rimediare allo sbando politico con lo stordimento (“9 times out of 10 I’ll be stoned on the subway / Reading backlit directives of what I should do”). Anche la fuga in qualche angolo sperduto del mondo o la disperazione sono tutte egregiamente descritte, come evidenziato rispettivamente in “Melba” e nell’ironicamente autoesplicativa e canticchiabile “Beating My Head Against the Wall”, che saccheggia atmosfere tipicamente rockabilly.
Il finale è affidato al brano più lungo del disco, “Let Them Win” che con i suoi 11 minuti delinea finalmente un’idea di resistenza/resilienza, una volontà di non farsi più intimorire dagli atteggiamenti negativi della parte avversaria (“They can make us feel afraid / And try to turn it into hate, oh yeah / They can steal our slice / For the hundredth time / Judge us when we cry / And never empathize / With anyone but themselves”).
La liberazione arriva con un ritornello finale in cui, a uno sgolato “We’re not gonna let them win” risponde un “Fuck no!” urlato da una moltitudine di voci di uomini e donne. Una rappresentazione della collettività che fa da specchio a quella che gridava all’inizio del disco, per poi spegnersi definitivamente in una coda di sintetizzatori à la Vangelis e i mormorii della voce di Rosenstock mentre si accompagna alla chitarra acustica.
Ovviamente, quello di cui stiamo parlando non è un disco perfetto: più e più volte si ha l’impressione (specialmente nella parte centrale) che i pezzi mostrino un po’ troppo la corda e che vengano rilegati troppo spesso alla tipica forma-canzone. Le composizioni, specialmente quelle meno punk nell’animo, sembrano fin troppo docili, specialmente a confronto con l’opener e la closer del disco: in generale, il gusto pop di certi arrangiamenti risulta alla lunga stantio e meno esaltante dei momenti in cui Rosenstock decide di espandere le sue idee in canzoni più articolate.
“POST-” riesce quindi, seppur con qualche ingenuità, a raccontare un punto di vista sincero e scanzonato di quello che vuol dire essere un americano, dalla parte di chi ha perso e ha paura di non riuscire più a riprendersi.
Il messaggio di Rosenstock è quello di insegnarci che il modo migliore per sconfiggere le nostre paure è affrontarle a viso aperto.