La nuova pirateria: 20 anni di Napster

Jacopo Norcini Pala

Una breve storia della pirateria online, dai suoi esordi alla fine dello scorso millennio fino ad oggi: cosa vuol dire ai nostri giorni agire fuori dalla legge della Rete? L’inizio della scalata al ruolo egemonico che internet ha assunto nelle nostre vite può essere tracciato al momento esatto in cui il world web è diventato veramente wide. Il modo in cui la rete si è diffusa tra il grande pubblico, negli ormai quasi 30 anni della sua storia pubblica, ha completamente rivoluzionato il modo di pensare l’informazione, la comunicazione e l’arte. Come tutti gli strumenti di questo tipo, però, internet è una realtà piena di contraddizioni, in cui diversi modi di agire e di pensare possono contrapporsi, anche in maniera (virtualmente) violenta.

La nuova pirateria: 20 anni di Napster mr robot

La visione utopica di internet come diritto inalienabile e del cyberspazio come luogo di assoluta libertà per chiunque hanno contribuito inevitabilmente fomentare forme di resistenza al sistema di fruizione legale delle informazioni e alla nascita di movimenti sotterranei ai limiti della legalità (quando non totalmente illegali). Questi, negli anni, per molti, sono diventate la corsia preferenziale lungo cui muoversi nella rete, per la fruizione delle informazioni e dei contenuti. Un esempio su tutti è probabilmente quello dell'hacker, archetipo della sovversione al sistema, che dalla fine dello scorso secolo, proprio in virtù del suo ruolo ha acquisito uno status di culto tale nell'immaginario collettivo da essere stato più volte idolatrato e romanticizzato dalla cultura di massa, da Matrix fino al recentissimo Mr. Robot, passando per Die Hard e Tron.

Questo incipit è utile per introdurre uno dei concetti più spinosi che il mondo “fuori dalla rete” si è trovato ad affrontare negli ultimi decenni: la cosiddetta pirateria informatica, legata a doppio filo con la questione del diritto d’autore. Non è difficile immaginare come un argomento così complicato e complesso risulti attanagliato dal dilemma dell’ideologia: ne sono la prova gli sforzi pluridecennali in tutto il mondo dei vari Partiti Pirata. Nonostante la pirateria del 21esimo secolo non si limiti solamente al furto di proprietà intellettuale, la branca che, per la maggior parte della storia della cyber-criminalità, ha ricevuto più attenzione dai media è proprio quella dei contenuti multimediali. Sul finire degli anni ’90, due programmatori, Sean Parker e Shawn Fanning, avevano iniziato a condurre esperimenti riguardanti il sistema di scambio dati peer-to-peer, stilizzato con la sigla P2P.

Questa nuova tecnologia permetteva a due computer di interfacciarsi e scambiarsi dati a vicenda senza dover per forza caricare file su server gestiti da terze parti, facendo uso solo di un piccolo e poco ingombrante software per regolare le impostazioni di upload e download. Nasceva così Napster, un programma che, seppur non essendo il primo del suo genere, era decisamente un apripista nel rendere user-friendly la condivisione di file multimediali (nello specifico, file in formato mp3).

La nuova pirateria: 20 anni di Napster

Dopo pochi mesi, Fanning e Parker vennero per la prima volta denunciati dalla RIAA, l’equivalente d’oltreoceano della nostra SIAE. Già allora Napster vantava oltre 40 milioni di utenti che scambiavano tra di loro canzoni, album, e registrazioni di concerti live altrimenti impossibili da reperire. Questo numero, già di per sé enorme, continuò imperterrito a crescere in popolarità, fino agli 80 milioni di utenti registrati nel 2001. Artisti come Dr. Dre, Madonna e i Metallica intentarono cause contro Napster a causa di canzoni che erano riuscite a circolare in anteprima sul software. Di fronte all’estrema pressione legale Fanning e Parker decisero di chiudere il progetto. Il decennio successivo vide un’azione quasi schizofrenica nei confronti della pirateria.

Un esempio della parte violenta e repressiva di questa campagna, responsabile dell’aver criminalizzato totalmente la pirateria in diverse parti del mondo, è stata una pubblicità realizzata dalla Pepsi e da iTunes andata in onda durante il Super Bowl del 2004, in cui dei minorenni colpevoli di pirateria venivano esposti alla gogna pubblica sulle reti nazionali. O ancora, la celebre quanto esagerata réclame anti-pirateria apparsa centinaia di migliaia di volte in DVD e cinema di tutto il mondo ritraente, in un montaggio frenetico, atti criminali di vario tipo seguiti da slogan, accompagnati da un martellante sottofondo di musica elettronica.

Dall’altra parte, però, si assiste a un curioso fenomeno che pare muoversi nella direzione opposta: iniziano a nascere i primi servizi di streaming legale, come Spotify e Netflix, che vengono fortemente incoraggiati e promossi dagli artisti e dai produttori come dalle compagnie, fino al punto di creare altri servizi basati sulla medesima idea: l’accesso illimitato (o quasi) a un tipo di medium dietro una modica somma richiesta per l’abbonamento al servizio. Ovviamente, la cultura pirata non si ferma dopo Napster: dopo il caso legale del 2001, fioriscono servizi come Limewire, Emule e bitTorrent, e siti come The Pirate Bay et similia acquisiscono una reputazione globale di “rifugi sicuri” dai quali attingere per le proprie esigenze di consumo mediatico.

La situazione oggi sembrerebbe essere la stessa sotto gli occhi di tutti: la maggior parte delle persone è oramai pienamente convertita alle grandi compagnie di streaming di cui sopra, mentre solo una ridottissima nicchia di navigatori del web è oramai definibile come pirata. Sembrerebbe un trionfo di giustizia e legalità, ma è davvero così? Come dimostra l’introduzione di un illuminante rapporto di Joe Karagianis intitolato Media Piracy in Emerging Economies (2011), uno dei maggiori problemi riguardanti lo studio statistico della pirateria è quello di avere la maggioranza assoluta dei sondaggi a essere direttamente finanziata dalle grandi industrie di distribuzione mediatica.

La minuscola percentuale di studi “dissidenti” in questo senso fornisce invece una interessantissima prospettiva: i pirati sarebbero infatti responsabili della maggior parte delle vendite di film e musica nelle settimane successive all’uscita. Anche i dati sulla percentuale di bucanieri del web sarebbero errati: più di una persona su 3 consumerebbe ancora musica (e presumibilmente film, videogiochi e libri) in maniera illegale, secondo questo articolo di Pitchfork. E ancora, basti guardare come artisti, studiosi, e compagnie si stiano allontanando dal modello promosso dai celebri brand del consumo digitale, o addirittura si stiano riavvicinando in termini affettuosi al concetto di pirateria: recentemente HBO ha dichiarato che, nell’era di Netflix, sapere che gli episodi di Game of Thrones vengono condivisi illegalmente in tutto il mondo è “più soddisfacente che vincere un Emmy”.

Insomma, il dibattito sulla pirateria è ancora fumoso e lontano dal risolversi: quando vengono interpellati sul perché della pirateria, gli utenti che si macchiano di questi reati rispondono che vedono il loro gesto principalmente come un motivo di attivismo. Attivismo contro la frammentazione dell’informazione e dell’arte in canali “chiusi” a prezzi impensabili; attivismo contro il modus operandi delle compagnie di distribuzione, che agiscono come un gigantesco monopolio e soffocano il mercato spingendo la maggior parte dell’utenza verso le tendenze più facilmente monetizzabili, impedendo l’affermazione di realtà underground; attivismo contro la diffusione e il tracciamento dei dati da parte di questi servizi, dato che uno dei concetti chiave della pirateria è la condivisione gratuita e anonima di materiale. 

Ovviamente, non si tratta di un problema senza soluzione: anzi, più e più proposte sono state avanzate nel corso degli anni, con toni che vanno dall’utopistico fino al realismo più spietato. Dai compensi finanziati dallo Stato per gli artisti in modo che il diritto d’autore non abbia più ragione di esistere fino alla creazione di servizi alternativi, decentralizzati, a bassissimo costo per gli utenti e che possano garantire una redistribuzione equa delle revenues per i creatori di contenuti. La situazione è invece andata aggravandosi, con l’episodio più recente riguardante l’approvazione da parte del parlamento europeo del temuto articolo 13.

Adesso, alla voce di protesta pluridecennale dei pirati, si è aggiunta quella dei creatori di contenuti multimediali (gli youtubers su tutti), che vedono ostacolata, quando non completamente censurata in maniera ingiusta, la diffusione del loro prodotto. La questione è quindi più viva che mai, e considerato quanto tempo della nostra vita è speso online, la pressione in merito è sempre maggiore e i temi sempre più scottanti. Nel frattempo, la pirateria continua imperterrita a resistere, senza alcuna intenzione di fermarsi.