Jacopo Norcini Pala
Ultimo appuntamento con il capitolo finale del poema di T.S. Eliot e le sue innumerevoli simbologie, recuperate ancora una volta dal nostro Jacopo Norcini Pala.
L’after ripetuto tre volte che introduce What the Thunder Said, ultima sezione del poema di T.S. Eliot che abbiamo esplorato negli scorsi mesi, crea in pochissime righe uno scenario post-apocalittico da far invidia ai migliori autori di fantascienza: dopo che tutto è morto, anche gli ultimi superstiti della razza umana, tra cui il nostro narratore, stanno lentamente scomparendo. Nell’ottica etico-spirituale di Eliot è facile considerare la siccità che stermina l'umanità come un castigo divino, una mancanza di valore religioso che porta inevitabilmente alla dannazione: e anche quelli che potevano considerarsi giusti, quegli ultimi rimasti, hanno acquisito il loro status di rettitudine solamente secondo una prospettiva umana, non divina, e perciò attendono inutilmente di essere salvati in extremis. Si potrebbe obiettare che, alla luce dei più disparati testi biblici (dalla maledizione di Caino al Giuda dei vangeli apocrifi, fino ai reietti dell’Apocalisse), chi è costretto a camminare sulla Terra è solitamente il peggior tipo di peccatore: in ogni caso, chi rimane è dannato.
Il linguaggio, almeno nelle prime stanze, si fa quasi specchio della demenza che la siccità e il sole cocente possono procurare: la continua ripetizione di rock, mountains e sand è quasi capace di evocare il sapore del deserto senza civiltà, della rovina lasciata a sé stessa, dell’impossibilità della vita: Eliot è magistrale nel ridurre il suo stile così pieno di guizzi, citazioni e florilegi al grugnito lamentoso dell’uomo ridotto ai suoi minimi istinti.
Ovviamente, lo stato d’animo desolante e psicotico del narratore è legato a doppio filo, ancora una volta, con la precaria condizione mentale dell’autore: Eliot scrisse la maggior parte di What the Thunder Said a Losanna, in cura in una clinica psichiatrica, quasi completamente di getto, e per sua stessa ammissione non prese la briga di ricontrollare la maggior parte di ciò che scrisse, non senza autoironia. La roccia dunque si confonde nelle montagne e assume i connotati degli uomini, che sono altrettanto privi di acqua. Tuttavia, se qualcosa risulta come oltremodo straniante nei primi nove versi, è sicuramente la presenza di termini come Thunder e spring: il rumore della pioggia-redenzione echeggia distante, oltre le montagne invalicabili, come se sfuggisse volontariamente dalle mani degli uomini, per andare a disperdersi sempre oltre la loro portata. Quello di Eliot è, in quest’ottica, un Dio rancoroso e terribile, un’entità che non può perdonare il peccato originale degli uomini, tanto più che persino l’orizzonte, la frontiera che apre allo spazio infinito, diventa un cerchio intorno agli abitanti della terra desolata.
Il delirio del narratore, possibilmente un’ennesima reinvenzione della figura di Tiresia, si ripete anche nell’osservazione distorta, nel frammento della visione: il fatto che il protagonista intraveda una figura a fianco del proprio compagno di viaggio è quindi uno squarcio nel passato, una visione del futuro, un momento di estasi religiosa come quello dei discepoli di Emmaus? L’ambiguità della descrizione della figura, vista da lontano e avvolta in un manto, evoca anche visioni del doppio: d’altronde, il fatto che l’io narrante dica “I do not know whether man or woman” riporta alla mente altrettante visioni di Tiresia. È altrettanto possibile che quindi questo ruolo sia stato frammentato, diviso in due figure: da una parte il profeta, l’occhio onniveggente, dall’altra il puro concetto umano, indistinguibile.
Un ulteriore spunto di riflessione emerge dalle parole del protagonista: perché la coppia di viandanti non cammina assieme? Se, seguendo la massima di Aristotele secondo cui l’uomo è una bestia sociale, consideriamo il fatto che in relazione all’I del narratore esiste necessariamente uno you a cui rivolgersi, perché questa socialità si manifesta solo nel dialogo, invece che nell’azione?
Il fatto che il punto di vista dell’innominato personaggio sia sempre distante dal suo altrettanto anonimo compagno, e che questo sia sempre affiancato da un’altra religiosamente misteriosa figura, apre all’ipotesi che il nostro narratore possa essere definitivamente dannato. Seguendo la pista cristologica, d’altronde, il fatto che questo terzo incomodo appaia solamente a chi non è in grado di parlare attraverso il testo è assolutamente disarmante: una presenza divina, impossibile, che si manifesta agli occhi di chi racconta (e dei quali possiamo sentire la voce) senza mai rivelarsi sembra indicare, ancora una volta, una impossibilità della salvezza. La presenza dello you, alla luce della solitudine desertica evocata dall’inizio del brano e della già citata possibilità di scissione dei ruoli, potrebbe persino segnalare la coppia davanti al narratore come un miraggio: d’altronde, se pur sempre si parla di Tiresia, la visione del frammento (nel futuro o nel passato che sia) non deve per forza trovare riscontro nella realtà: e in un luogo in cui il reale vivido e vivo è stato totalmente annichilito, in cui la roccia e la montagna sono l’unica presenza, come si può non mettere in dubbio anche l’esistenza di un compagno? Ecco quindi che l’ipotesi del miraggio si fa più viva con una serie di visioni tra l’apocalittico e il terrificante, lamenti di madri che si allacciano a pipistrelli con visi umani, orde incappucciate, e torri rovesciate nell’aria: siamo nel dominio dell’irreale, tutto sempre accentuato dalla mancanza di acqua. Ed ecco quindi apparire dal nulla, tra le tombe rivoltate e l’erba secca che canta, una cappella, l’ennesimo rimando alla leggenda del Re Pescatore (Lancillotto che viene tentato e corrotto nello stesso luogo), quando improvvisamente Eliot sconvolge totalmente il poema, con un suono di tuono che precede una pioggia.
Il tuono è, con il suo ruggito, un simbolo divino per eccellenza, il fuoco che arriva dall’alto: non il fuoco delle passioni che brucia tutto come nella società perversa di The Fire Sermon, ma una scintilla che porta con sé un messaggio di redenzione e ciclicità. Nella mitologia indiana, il tuono è il padre degli Dei, dei demoni e di tutti gli altri spiriti, che quando pongono domande a questa inafferrabile figura, risponde solamente col suono del “DA”. Ed è da questa sillaba che vengono create le tre dottrine del tuono, datta, dayadhvam, damyata.
La penultima stanza della Waste Land si concentra quindi sull’esplorare il significato di queste tre interpretazioni, che possono essere tradotte rozzamente in italiano con “donare”, “compassione”, “controllo di sé”. Sono principi, ordini morali per un mondo che ora più che mai sembra lasciato al caos fine a sé stesso, tre intenzioni di vita che nella società industriale e perversa di Eliot non paiono più avere posto, tra la scioccante disparità tra poveri e ricchi e lo sfrenato edonismo delle passioni. E nonostante tutto, nemmeno questa serie di regole è la chiave per salvare gli uomini: d’altronde alla base delle dottrine del tuono è un fraintendimento della risposta di esso. Sono uomini, Dei e demoni che hanno forgiato la loro visione del mondo sulla base della stessa, immutabile (e per questo divina) risposta fornita dal DA, che suona come un ἀρχή svuotato di ogni sua interpretazione, ovvero “ciò che è”.
A questo punto, gli ultimi 10 versi del poema rappresentano un definitivo collasso di tutta l’architettura mitologico/narrativa del componimento: l’unico contributo “originale” di Eliot è ancora una volta la desolata riflessione di Tiresia/Re Pescatore, incapace di agire e di riportare l’ordine sulle sue terre, troppo preso dal suo dilemma senza soluzione. Ed ecco quindi che, venendo l’ordine a mancare in maniera definitiva, sia a livello spirituale che materiale, tutto ciò che esiste (qui esemplificato da canzonette per bambini, frammenti di letteratura varia che si muove da Dante fino a Tennyson) sgretolatosi su se stesso in una massa incoerente e da cui si può cercare di raccogliere solo uno straccio di realtà decodificato: è qui il fulcro della Terra Desolata, nel nichilismo ottimista di Eliot che si pone in contrappunto all’immagine della Torre di Babele, mito che ha sempre esercitato sull’autore un grande fascino. D’altronde, se la costruzione mitologica viene creata con l’aspirazione di ricongiungersi a Dio, che maledice i popoli che provano a completarla creando le lingue, così Eliot utilizza le fonti linguistiche più disparate per ricreare una scheggia di reale totalmente coerente con se stessa. L’immagine della torre che crolla è persino ripetuta due volte (in inglese e in francese) a sottolineare come la caduta del simbolo sia oramai l’unica possibile via di fuga dal caos. Allo stesso modo il fatto che Hyeronimo sia “mad againe” funziona da correlativo per la situazione umana: in uno salto che precede Michel Foucault di quarant’anni, Eliot dichiara che la follia sia l’unico modo di distaccarsi e sopravvivere allo svilente fallimento dell’omogeneità della massa, a quei gironi infernali dei vivi per le strade di Londra della prima sezione. Ed ecco appunto, finalmente libero dalle costrizioni del pensiero e dalle preoccupazioni del costume, immediatamente sopraggiunge uno shantih ripetuto tre volte, ancora una volta un simbolo indiano, culla della civiltà, che possiamo rozzamente tradurre con “pace ineffabile”: e quindi, ancora una volta appoggiandosi alla magnitudine di simbologie hindu, la fine è soltanto un altro inizio.
Foto 1 da Greenlane.com (data di ultima consultazione 26/08/2021).
Foto 2 da Sartle (data di ultima consultazione 26/08/2021).
Foto 3 da Medium (data di ultima consultazione 26/08/2021).