Red Dead Redemption II: come ti cambio il Western

Jacopo Norcini Pala

Il Western è un tratto fondamentale della storia e della cultura americana. Sarebbe impossibile identificare in maniera precisa l’entrata della frontiera nel mondo mediatico statunitense (e non), considerando che la sua apparizione sullo scenario mondiale coincide quasi perfettamente con la propria mitizzazione.

Si pensi anche solamente a quel The Great Train Robbery, uscito nel 1903, per cui la macchina da presa suona ai nostri giorni come un impossibile anacronismo, un cortocircuito storico. Ci è difficilissimo credere che i cowboy del nostro immaginario occidentale, quelli idealizzati (anche a spese di una narrativa non sempre equa e imparziale) dai film di John Wayne, possano convivere nello stesso tempo in cui quella che è probabilmente la tecnologia più rivoluzionaria del secolo scorso, ovvero il video, si è affermata sullo scenario mondiale.

Tuttavia, è impossibile non notare come nell’ultimo decennio la fascinazione del mainstream per la frontiera americana abbia progressivamente riconquistato un posto di diritto tra altri generi di storytelling: dal profetico True Grit (2010) dei fratelli Coen, recentemente tornati su quelle stesse piste con The Ballad of Buster Scruggs, alla doppietta infernale di Django Unchained e The Hateful Eight di Quentin Tarantino, passando per il maremoto pop di Westworld, solo per citare alcuni tra i tanti esempi di storie che hanno colto l’occasione di reinventare il West, applicando una lente postmoderna a ciò che per antonomasia è invece anti-moderno.

L’oggetto che ha attirato la nostra attenzione non è però un prodotto letterario o cinematografico in senso stretto. Red Dead Redemption II è, infatti, un videogioco: distribuito il 26 ottobre 2018 in tutto il mondo da Rockstar Games, già produttrice di Grand Theft Auto, in sole due settimane il gioco ha venduto 17 milioni di copie fisiche, superato nelle vendite soltanto dal precedente kolossal Grand Theft Auto V.

Red Dead, già affettuosamente abbreviato con la sigla RDR2, è stato il protagonista indiscusso dell’universo mediatico americano (e non) dell’ultimo semestre dello scorso anno: onnipresente sui social fin dal primo teaser, lodato all’inverosimile da ogni agenzia di stampa che si sia messa con le intenzioni più scettiche sul suo cammino, il carrarmato RDR2 ha conquistato chiunque.

La trama segue le vicende della banda di fuorilegge guidata dal carismatico Dutch Van der Linde, in fuga dai federali dopo un colpo finito male nella città fittizia di Blackwater. Il giocatore assume il controllo di Arthur Morgan, braccio destro di Van der Linde, e viene catapultato nell’America del 1899, in un momento in cui la popolazione statunitense sta finalmente venendo a patti con la civiltà e il progresso. Il gioco si muove tra 5 stati immaginari (assai simili all’area del sud statunitense) totalmente esplorabili, dove montagne, pianure, paludi, boschi, isole e città si susseguono con la continuità tipica del genere sandbox. E proprio come dei bambini nel recinto della sabbia, ai giocatori è permesso di fare tutto (o quasi) ciò che vogliono nel mondo circostante, dall’andare a pesca al rapinare treni, dal cavalcare nella neve all’ubriacarsi in un saloon.

L’aspetto nel quale però RDR2 dimostra maggiormente la sua abilità è sicuramente quello narrativo: un copione di oltre 2000 pagine è stato utilizzato per la storia principale, composta di una cinquantina di missioni e centinaia di incontri casuali secondari. L’intera gang Van der Linde è stata caratterizzata in maniera superlativa: ogni personaggio possiede una profondità ineguagliabile e sfaccettature inaspettate che rendono gli agglomerati di pixel sullo schermo incredibilmente umani. Basti pensare alla maniera in cui sono scritti membri come Hosea Matthews (il “nonno” della banda, riflessivo e coscienzioso ma anche pronto al gioco scherzoso, alla truffa, al dramma quasi teatrale) o il nuovo arrivato Kieran (un campagnolo codardo costantemente alla ricerca dell’attenzione e dell’approvazione del gruppo).

Dutch è, probabilmente, il personaggio è a cui stata affidata la maggior cura: un leader idealista, paranoico nei confronti di una società che non capisce, istrionico, manipolatore, razionale ma irascibile, pronto a sacrificare sé stesso per il bene della banda ma disposto a sbarazzarsi di chiunque osi mettergli i bastoni tra le ruote. Se il capo della gang Van der Linde è quindi la figura più caleidoscopica che è possibile incontrare nell’accampamento, Arthur è il suo perfetto contraltare: il protagonista del gioco è infatti in costante mutazione e ogni interazione con gli altri personaggi viene modificata a seconda dello stile di gioco, violento od onorevole che sia, del giocatore.

Ovviamente, anche l’ambientazione attorno a questi personaggi è assolutamente strabiliante. Si veda ad esempio la minuzia maniacale con cui gli sviluppatori della Rockstar hanno creato il mondo attorno ad Arthur, pieno di piante, animali, città, tutti definiti fin nei dettagli più impensabili. Basti pensare che è possibile esaminare ogni oggetto collezionabile nel corso del gioco, con etichette applicate a bottiglie di alcolici, differenti marche di generi alimentari o pacchetti di sigarette.

La vertigine del realismo si estende anche al comportamento che questo mondo ha nei confronti delle azioni di Arthur: l’intelligenza artificiale reagisce in maniera fluida e (per la maggior parte del tempo) logica a ogni azione del protagonista. Salutare una persona causerà un saluto di risposta, puntare una pistola alla testa di essa farà in modo che, a seconda della situazione, il personaggio provi a scappare, implori pietà, o provi a fronteggiare il nostro protagonista in un disperato tentativo di avere salva la vita. Ognuno degli abitanti delle zone del gioco ha una propria specifica routine, che può essere modificata in qualsiasi momento; e ferire uno di questi abitanti senza ucciderlo farà in modo che, poco tempo dopo, questi si ripresenti con bende o gessi e interagisca con Arthur in maniera molto più sospettosa, quando non totalmente ostile. E questo tipo di comportamento non si limita agli esseri umani: anche gli animali nel gioco reagiscono in maniera differente a ogni comando immesso. La verisimilitudine è tale che se ci si avvicina troppo agli opossum, questi faranno finta di essere morti per evitare di essere catturati; o che il nostro cavallo si imbizzarrirà se lo faremo cavalcare troppo vicino a dei predatori.

E che dire del sonoro? Il rumore del colpo di ogni pistola è personalizzato e unico, si adatta all’ambiente, riverbera nell’aria; le bottiglie tintinnano, le assi di legno scricchiolano, il fango delle strade si sfalda sotto i piedi di Arthur. La colonna sonora diretta dal DJ Lazlow (collaboratore storico del team Rockstar) alterna passaggi ambientali a numeri country, marcette militari e sarabande à la Morricone, inglobando un intero immaginario di storia americana e riaggiornandola al 2018, grazie anche all’intervento di ospiti illustri come l’artista soul D’Angelo o il jazzista d’avanguardia Colin Stetson.

Le vette di questo mondo dentro al mondo sono però sicuramente le canzoni cantate dalla banda attorno al fuoco, principalmente accompagnate dalla chitarra del bandito Javier Escuella o dal banjo dello stralunato Uncle. Più e più volte si è ammaliati e invitati a restare attorno al fuoco da campo a cantare canzoni popolari, sea shanties e addirittura una strepitosa versione corale di Cielito lindo, a cui l’intera banda partecipa dopo la risoluzione di uno dei momenti più drammatici e tesi della storia. Il realismo è così dettagliato che si noterà facilmente come non tutti quanti i personaggi conoscano a memoria i testi dei pezzi che cantano, e che quindi si metteranno a borbottare frasi senza senso prima di rimettersi a cantare il ritornello, a volte perdendo il tempo e a volte sbagliandosi e lanciandosi sguardi di complice intesa.

Anche solamente interagire coi passanti insultandoli diventa un’attività con cui si possono spendere ore: le battute di Arthur sono esilaranti, sconce, perspicaci, e sempre adatte al contesto in cui vengono pronunciate. Un’ironia montanara che si nota specialmente quando ci si allontana dal mondo delle grandi praterie: emblematica e commovente nella sua ilarità la sequenza in cui si partecipa a un party in una villa e un’enclave del gruppo di fuorilegge si presenta in smoking, sghignazzando e lanciando frecciatine, in un momento di umanità incredibile.

È opportuno, dopo questo elogio del tecnicismo, tornare sul discorso della trama: la storia di RDR2 è infatti talmente ripiena di tematiche, accenni, riflessioni su una varietà di argomenti immensa. Basti vedere, ad esempio, come gli archi narrativi si intreccino di volta in volta e fluiscano l’uno dentro l’altro con una maestria dello storytelling raramente vista in un videogioco. La discesa agli inferi di Dutch, quel percorso di rovina e disperazione che lo porterà poi a essere il villain psicopatico con cui bisogna fare i conti nel primo Red Dead Redemption, è un mix letale di paranoia, idealismo, delirio di onnipotenza e rifiuto dell’autorità.

È esemplare il momento in cui gli agenti federali (i cosiddetti Pinkertons) si presentano per la prima volta al campo della gang Van der Linde: la “ragionevole” voce del governo, che esorta la banda a consegnare il proprio capo e a smettere di vivere come selvaggi, viene accolta con disprezzo e scherno da ogni membro. Il concetto di libertà, il sogno americano per eccellenza, è costantemente messo in discussione: da una parte si loda la possibilità infinita che un Paese del genere possa offrire; dall’altra, come Dutch dichiara in più di un’occasione, l’intero continente oramai non è nient’altro che una discarica per la “feccia plebea d’Europa in cerca di una rivalsa che non troverà mai”. E ancora, mentre il carismatico leader progetta la fuga dal Paese con Hosea, lo si può ascoltare mentre fantastica di unirsi alla comune parigina del 1871.

Se il personaggio di Dutch funge come pezzo di riflessione sul denaro, la libertà, e la tecnologia, Arthur è invece il contrappunto intimista e personale al grande dilemma collettivo: un uomo che si rende conto di essere incapace di comprendere il mondo attorno a sé e che cerca in ogni modo di aggrapparsi a ciò che conosce per non scomparire. E il team di scrittori di Rockstar è magistrale nel rimuovere, pezzo per pezzo, quelle fragili certezze che Arthur sembra avere: l’onore, la lealtà, la morale vengono costantemente sovvertite e sabotate nei mesi in cui la trama principale di RDR2 si svolge.

L’inganno è, in effetti, il tema centrale di questo gioco. E, come avevamo specificato all’inizio di questo articolo, RDR2 è un’esperienza che è facile definire postmoderna: Rockstar si diverte a ingannare, scombussolare le carte in tavola e fornire prospettive differenti da quelle della macronarrativa western classica. Così, i fuorilegge diventano gli eroi, i nativi americani vengono riconosciuti come grandi sconfitti gabbati dall’avarizia dell’uomo bianco, la società è il male da cui sfuggire ad ogni costo e l’unità della “famiglia” della banda Van der Linde viene lentamente disintegrata per un motivo o per un altro.

Chi crede che RDR2 sia un gioco asciutto, in cui il sarcasmo e la satira della Rockstar siano assenti dovrà ricredersi: basta allontanarsi per qualche istante dai binari che la storia impone per scoprire un altro mondo, molto più goffo, malato e assolutamente esilarante nella sua assurdità. Vampiri, UFO, robot, fantasmi, zombies, Bigfoot: l’universo del gioco è pieno di riferimenti dai mondi del fantastico e dell’impossibile, che Arthur affronta costantemente con la stessa perplessità e faccia tosta. E ancora: membri del Ku Klux Klan falcidiati dalla propria inettitudine, strane megere voodoo nelle paludi, paleontologi alla ricerca di dinosauri inesistenti e viaggiatori nel tempo, citazioni a personaggi di altri giochi Rockstar. E nonostante l’assurdità di queste e altre stranezze (come ad esempio citare in più punti una pletora di film western e non quasi a menadito), RDR2 riesce a integrare tutto ciò sotto la lente storica di un’America in cui la stramberia è giustificabile, il paranormale è possibile, e quindi reale.

Questo non vuol dire che RDR2 sia privo di momenti veramente emozionanti e potenti: specialmente nelle ultime fasi del gioco, ci si rende conto del perché redemption sia una parola così importante. Il primo piano di Arthur, seduto su una panchina davanti a un treno in partenza, mentre sussurra I’m afraid. a un personaggio a cui è finalmente riuscito a confessare gran parte della propria vita, è potentissimo e brutale nella sua tragica poesia. E altrettanto importante è quel “I gave you everything!” così disperato e supplicante da far tremare i polsi, e che è valso al doppiatore del nostro protagonista più di un premio alla fine dello scorso anno. 

Per quanto in contrasto con tutto quello detto finora, RDR2 non è un gioco perfetto. La maggior parte della storia, sebbene incredibilmente ben congegnata a livello narrativo, ricade tristemente in alcune di quelle che sono le dinamiche tipiche del gioco Rockstar: scenari chiusi in cui è obbligatorio avanzare solo in determinati modi, di solito facendosi strada a fucile spianato, e dove ogni tentativo del giocatore di affrontare la missione in maniera alternativa viene bocciato con un repentino game over. O ancora, il fatto che le vertigini realiste di cui abbiamo tessuto le lodi prima vengano ridotte a un’impalcatura pericolante nel momento in cui molte delle meccaniche votate alla sopravvivenza di Arthur, come mangiare o dormire, sono assolutamente dispensabili.

Qualcuno potrebbe tacciare questo tipo di obiezioni come compromessi necessari per fornire il quid videoludico a RDR2, che diventerebbe altrimenti un simulatore di vita nel far west senza una precisa direzione. Il problema sorge però quando gli aspetti più tecnici rendono i momenti di cui sopra estremamente macchinosi: il sistema di copertura e di mira sono antiquati e spesso non rispondono bene ai comandi del giocatore, così come anche le animazioni della camminata del protagonista.

Si tratta comunque di obiezioni marginali nei confronti di un prodotto che lascia sbalorditi in qualsiasi momento di gioco, con esperienze al di fuori della storia principale sempre incredibilmente personali e uniche. Red Dead Redemption II è un videogioco strabiliante, un nuovo termine di paragone con cui ogni futuro concorrente open world dovrà necessariamente confrontarsi, e un fenomeno di culto che afferma come l’industria videoludica possa essere finalmente riconosciuta a tutti gli effetti come una “fabbrica d’arte”. Ma soprattutto è, se affrontato nella giusta maniera, un prodotto estremamente divertente da giocare, e forse questa è la cosa più importante.

 

Sitografia 

 Red Dead Redemption II, Rockstargames.com  (data di ultima consultazione 26/08/2021)

 

Foto 1 da microsoft.com (data di ultima consultazione 26/08/2021)