Jacopo Norcini Pala
Caso editoriale del 2015, The Sellout, tradotto in italiano con il ben meno sottile “Lo Schiavista”, è un romanzo di Paul Beatty.
Capiamo benissimo che un tale incipit possa risultare leggermente sterile, ma basta guardare il curriculum dell’autore per rendersi conto di come The Sellout sia uno dei romanzi più folgoranti degli ultimi anni: Beatty è infatti il primo vincitore americano nella storia del Man Booker Prize, probabilmente il più importante riconoscimento letterario inglese sul piano internazionale. Una premiazione che denota l’estrema urgenza di divulgare il più possibile un libro così diretto, contemporaneo ma soprattutto divertente e dissacrante.
Il racconto segue le vicende di un protagonista di cui si sa solo il cognome, “Me”, agricoltore afroamericano di Dickens, comunità immaginaria della periferia losangelina, specializzato nella coltivazione di cocomeri e marijuana. La vita nell'area scorre tranquilla fino a quando una serie di eventi capovolge in maniera irreversibile la routine quotidiana: il padre del protagonista viene ucciso da due poliziotti, e Dickens viene rimossa da ogni cartina, finendo inglobata completamente dall’area metropolitana di Los Angeles.
La situazione diviene paradossale quando Hominy Jenkins, decrepito attore caduto in disgrazia dopo una serie di (immaginarie) comparsate per le Simpatiche Canaglie in gioventù, si offre come schiavo a Me. Quest'ultimo avvenimento spinge il protagonista, aiutato da un assortimento di personaggi altrettanto improbabili, verso un’impresa totalmente anacronistica: ristabilire la segregazione razziale a Dickens per cercare di ridare alla comunità una popolarità, e quindi un'identità, che siano proprie ed autentiche, per quanto perverse.
Stilisticamente parlando, la scrittura di Beatty è semplicemente esplosiva: il linguaggio si mescola senza soluzione di continuità tra slang del ghetto e manuali di psicologia, Jonathan Swift e il primo Dave Chapelle, Mark Twain e Kurt Vonnegut assieme a tanti altri, in un irresistibile delirio per più di 250 pagine. E se un lavoro del genere può apparire imperscrutabile a un primo sguardo a un lettore estraneo al tipo di realtà umane e sociali qui raccontate, Beatty si diverte a prenderci per mano e “semplificare” con umorismo scoppiettante le caratteristiche più oscure della vita afroamericana contemporanea.
Inutile a dirsi, la gran parte del libro affronta a viso aperto la questione razziale degli Stati Uniti ai nostri giorni ma, contrariamente a quanto si potrebbe credere, la narrazione di Beatty ha ben poco dell’imparzialità liberal che ci si aspetterebbe da delle premesse simili. D’altronde, come lo stesso titolo denuncia fin da subito, Me è un venduto, un traditore. Diversamente da quello che credono gli antagonisti del libro, ovvero i rappresentanti dell’intellighenzia nera dell’area di L.A., il gesto provocatorio del protagonista non è un elogio costante dell’uomo bianco come modello a cui rapportarsi e davanti a cui chinare la testa in sottomissione volontaria, bensì un continuo attacco alle diramazioni più bastardizzate dell’identità afroamericana.
Non è un caso che lo slur razziale, N-word in primis, sia utilizzato nel libro in una maniera così preponderante quando due personaggi interagiscono tra di loro: quello che Me cerca disperatamente di ottenere è una restaurazione non del razzismo di stato, ma di una identità nera che non scende a compromessi con il mondo bianco attorno ad essa per arrivare al successo e all'autorealizzazione. Un sistema di valori che, per quanto esplicitato in maniera magistrale nell’ultima sezione del romanzo, “Unmitigated Blackness”, trova il suo momento di conflitto in un episodio precedente: Me, dichiarando “[Racism] can’t be anywhere” (p.244), provoca la risposta arrabbiata di una studentessa universitaria che indica una foto della famiglia Obama a passeggio come unico momento della storia americana senza razzismo.
La “unmitigated blackness” di cui sopra è, nelle parole dello stesso autore, un modus operandi influenzato dal menefreghismo e dal nichilismo. Tanto più che, nel definire questa allucinata fase psicologica, in uno dei passaggi più ispirati ed alti dell’intero libro, si assiste a un ennesimo mélange di bianco e nero, in cui icone apparentemente agli opposti come Jean-Luc Godard e Sun Ra, che vengono definiti come “ugualmente neri” (p. 277), trovano uno spazio comune in cui interagire. The Sellout parla quindi dei rischi dell’incrocio e della perdita di identità afroamericana, ma non risparmia argute stoccate nemmeno alla parte che dovrebbe difendere. È emblematico l’episodio dello spettacolo di stand-up comedy del finale, in cui un corpulento comico di colore scaccia via dal locale una coppia bianca che ride alle sue battute.
Il messaggio di Beatty arriva forte e chiaro: la riacquisizione a ogni costo della “blackness”, oggi più che mai necessaria, non deve sconfinare in una auto-ghettizzazione sempre più comune tra le comunità delle minoranze negli Stati Uniti contemporanei, soprattutto a discapito di quelli che potrebbero essere validi alleati nella battaglia per l'affermazione personale ed identitaria. Il romanzo, però, non si prende sul serio: la maggior parte del tempo, le vignette che si vengono a creare sono talmente strampalate e surreali (specialmente nella prima parte) che è quasi impossibile trattenere le risate.
Beatty conosce a menadito il catalogo degli stereotipi razziali dell’America contemporanea e non spreca nemmeno un momento per divertirsi con il preconcetto e il pregiudizio. Sono messi a nudo i gangster, che esplodono a fasi alterne in battaglie verbali o in minacciosi comportamenti al limite della sparatoria, come i surfisti borghesi bianchi della California completamente ignari del mondo attorno a loro. L’autore non risparmia nemmeno colpi sotto la cintura talmente pesanti da mettere in imbarazzo una fazione tanto quanto l’altra, in un vortice di irreprensibile, ilare umanità che non sfigurerebbe né nella Comédie Humaine stendhaliana né in Pulp Fiction.
Tuttavia parlare di “fazioni” potrebbe risultare scorretto e irrispettoso: Beatty è ben consapevole del fatto che esistono complesse reti di relazioni al di sopra dell'etnia che non devono essere infrante, soprattutto quando lo scopo comune è la lotta all’ingiustizia. È quindi quasi scontato che la folle proposta razzista del protagonista, dopo essere stata acclamata dalla comunità locale, finisca a processo davanti alla Corte Suprema. La semplice denominazione del caso, ovvero “Me vs. The United States of America”, lascia intendere come il gesto narrativo dell’autore non debba necessariamente esaurirsi nella singolarità afro, e che invece invita ad un impegno universale verso l’incompetenza e la cecità del sistema di fronte all’ingiustizia e alla necessità del cambiamento.
Ovviamente, The Sellout è un romanzo della contemporaneità: tutto quello che costituisce il mondo di Dickens è indissolubilmente legato al nuovo millennio, alla speranza post-razziale dell’ultimo anno di presidenza Obama. Il tutto appare quindi ancora più surreale quando i momenti più improbabili ed imprevedibili del libro vengono messi a confronto con lo scenario politico statunitense contemporaneo, uno scenario ancora una volta compromesso sulla questione etnica. Chi scrive qui è convinto quindi che The Sellout sia, ora più che mai, fondamentale per comprendere come la coscienza civile statunitense comune debba muoversi per scongiurare il rischio del ripresentarsi del peggior spettro recente della propria storia. Perlomeno, imparando a riderne, si può reagire all’assurdità di un mondo che sembra voler tornare a quella triste situazione di partenza.
Beatty Paul, The Sellout, 2015
Foto 2 da srpunerased.com (Data di ultima consultazione: 29/08/2021).