Jacopo Norcini Pala
Secondo di cinque appuntamenti in cui il nostro Jacopo Norcini Pala tenta una ricostruzione e parafrasi di alcune delle innumerevoli simbologie di The Waste Land (1922), il celebre poema di T.S. Eliot.
Il finale della prima sezione di The Waste Land si era chiuso con quello che, in termini cinematografici, potrebbe essere considerato un vertiginoso restringimento di campo, passando dalle centinaia di wandering souls tra le strade di Londra al primo piano strettissimo di un cappello. A Game of Chess, invece, sembra più simile a uno studio su di un personaggio, una serie di lunghi piani sequenza.
Si riescono quasi a immaginare i volteggi della cinepresa tra le stanze della casa, piene di suppellettili e barocchismi, che lasciano intendere lo status e la caratterizzazione del personaggio ancor prima che si presenti davanti a noi. Pare anzi che Eliot cerchi volontariamente di ritardare l’entrata in scena della donna: “The chair she sat in, like a burnished throne”, il verso rubato all’Antonio e Cleopatra shakespeariano che apre la sezione, indica chiaramente una presenza umana, ma spinge invece il lettore a focalizzarsi sull’oggetto, come se decifrandone le caratteristiche fossimo in grado di apprendere qualcosa di più sul conto della padrona di casa. Il riflesso del trono sul marmo, così come i candelabri, i cupidi posti sui capitelli, i gioielli riposti nel portagioie di seta così come altri mille dettagli forniscono un quadro glaciale, fermo nel momento e nel lusso, in cui l’ordine geometrico e compositivo regna sovrano. Si tratta però di un’attesa totalmente vana, come vedremo: la presenza della figura umana viene distorta, trasfigurata in un’assenza di significato e di valori che non si riescono bene a comprendere.
Una breve digressione sui profumi della donna, contenuti in “fiale d’avorio e vetro colorato”, apre una duplice, importantissima riflessione su due dei temi fondamentali del poema: da una parte, la lotta dell’apparenza e dell’ordine contro la realtà dello smarrimento e del caos; dall’altra, l’onnipresenza dell’acqua e della interpretazione semiotica a seconda dei contesti. Riguardo questo secondo punto, è interessante notare come A Game of Chess sia probabilmente il capitolo più “asciutto” di tutto il poema: l’acqua è evocata solo due volte, tre se si contano i sopracitati profumi ed unguenti, e solo in un caso non è immaginata in un contenitore (“And if it rains, a closed car at four.”).
Eppure, la casa stessa è piena di simboli che evocano l’acqua, dal delfino intarsiato al legno marino usato per accendere il camino, e a questo proposito si può anche notare una strizzata d’occhio alchemica con l’elencazione in rapido ordine di “liquids”, “air” e “flames”. Anche qui è importante notare come l’elemento “madre”, la terra, venga estromessa dall’enumerazione combinatoria; possibilmente un segno della mancanza degli istinti materni e protettivi tipicamente femminili, che invece qui risultano soffocati dalla lussuria e dal vizio.
Nonostante ciò, notiamo come tutta la potenza naturale di questi elementi venga soggiogata, sminuita e sottomessa dalla volontà umana: “The hot water at ten.”, o le sopracitate fiale piene di essenze, che producono un aroma sintetico, finto ed innaturale. Tutto sembra nel dominio del freddo raziocinio dell’uomo, ogni mossa calcolata: persino l’imprevisto per eccellenza, la pioggia durante una possibile passeggiata, può essere facilmente vinta.
La partita a scacchi del titolo si gioca tra gli uomini e i rapporti tra di essi come tra gli uomini e il mondo che li circonda: ed è probabilmente anche per questo che la sezione è così vuota del simbolo del cambiamento e della rinascita. Sarebbe infatti impossibile in uno scenario del genere abbandonarsi alle sensazioni e guardare oltre il velo dell’apparenza, in una sorta di impeto baudelairiano: come si vedrà poi ogni tentativo della Natura, forza primigenia e araldo del caso, di rendere la vita a queste figure tramite l’imprevisto è vano e può condurre una delle due donne al centro di questa sezione solo verso uno sconsolato oblio nel buio.
È probabile che sia anche per questo motivo che la pioggia, elemento salvifico e gesto divino prediletto, non riesca a toccare questi uomini e queste donne: ancora una volta, non c’è nessuna speranza per chi non vuole lasciarsi andare al cambiamento di sé e del mondo. Il dualismo ordine/caos, d’altronde, era illuminante già il sopracitato passaggio sui barocchi appartamenti dell’aristocrazia inglese: tutto quanto è perfetto e apparentemente senza imperfezioni, persino il metro, che rimane sempre lo stesso per una porzione estremamente lunga del poema; ma andando avanti con la lettura ci rendiamo conto di quali siano i drammi che portano al crollo interiore e che rendono così innaturale e disturbante questa sequenza.
E infatti ci è permesso scoprire che dietro a questa infallibilità geometrica dell’arredo, alla connotazione quasi statuaria della donna nella sua immobilità ed alla sua immediatamente intuibile caratura sociale, si cela un essere umano vuoto e nemmeno troppo emozionante: il breve frammento che ci viene offerto lascia intendere una generale insoddisfazione tra la donna e l’amante, condita da una ancor più desolante incomprensione.
L’ennesimo ribaltamento, quindi, delle figure mitologiche (Antonio e Cleopatra, Filomela, rimandi alla vicenda di Didone) così piene di pathos, utilizzate per rendere ancor più tragicomico il confronto tra i due borghesi, così vuoti e spenti. Incomprensione che si fa totale nel brevissimo scambio […] Do you remember nothing? / I remember / Those are pearls that were his eyes.”: l’amante, di cui Eliot si è impossessato e tramite cui lascia filtrare la propria visione, è oramai totalmente separato dal piano materiale e vuoto dell’abbraccio e delle domande dell’amante, e pare anche acquisire un breve momento di autocoscienza, evocato appunto dal tema delle perle/occhi già apparso in The Burial of the Dead: una ripetizione identificata da Eliot stesso come una legatura, per riprendere la miriade di suggestioni musicali, tra cui ad esempio l’usignolo in questa sezione, che imperversano nel Waste Land.
Neppure questo segnale di profonda crisi viene però identificato dall’interlocutrice di questo monologo al limite dell’assurdo, che riesce a leggerne solo il livello superficiale e ad identificare la frase come una citazione a Shakespeare. La siccità intellettuale, un motivo che sembra particolarmente caro all’autore attraverso tutta la sua produzione, è il colpo di grazia per l’occhio indagatore del poema, che con un gesto che pare prevedere di qualche anno l’indagine del doppio di Schnizler si sposta su un personaggio completamente differente.
Lo scambio è talmente improvviso che pare impossibile realizzare che la donna al centro della vicenda è un’altra: una signora di origini modeste, seduta ad un bar con una amica all’ora di chiusura. Volendo seguire il suggerimento di natura scacchistica, se la Cleopatra della prima parte del Game era una regina, questa nuova protagonista è a malapena un pedone, pronta ad essere sacrificata di fronte a qualsiasi avversità. Ci troviamo infatti di fronte ad una donna sconfitta: sopraffatta dalla solitudine, a soli trentuno anni già reduce da cinque aborti, che Eliot condensa in un solo verso senza mezzi termini (“She’s had five already, and nearly died of young George.”) con un marito, Albert, che probabilmente non la trova più così attraente ed è più che ben disposto ad abbandonarsi all’adulterio; o almeno così suggerisce l’altra interlocutrice.
Il coniuge è oltretutto un soldato: un altro simbolo evocatore di un mondo vittima della guerra, sullo sfondo ma onnipresente in tutto il poema. Un interessante parallelismo si può osservare in due vendette sublimate in entrambe le parti della sezione: da una parte, la ripresa del tema dell’usignolo e di Filomela evoca un possibile, perverso triangolo dal quale la Regina può liberarsi solo denunciando le atrocità commesse dall’uomo; dall’altra, invece, il rimando è molto meno sottile, in quanto l’amica del bar ammette abbastanza candidamente che nel caso in cui la popolana non si decidesse ad imbellettarsi (e quindi, uniformarsi al canone), lei stessa non esiterebbe a flirtare col di lei marito. Tutta la sezione è inframezzata dal ritornello estenuante del barista che incalza i clienti ad uscire del locale, mossa da una verso slegato che non lascia in nessun modo che l’atmosfera cupa si disperda nella nuvola dei profumi evocati fino a poco prima.
È probabilmente il momento più brutalmente realista di tutta la Waste Land, un passaggio che pare quasi evocare gli spettri storditi di assenzio di Toulouse Lautrec e Degas: lo sfondo qui non è però la Parigi illuminata della belle epoque, ma ancora una volta una Londra sporca, incupita ancor più dalla fine del conflitto mondiale. L’immagine dei denti, oltre ad aggiungere un’ulteriore nota dolente sulla condizione quanto mai modesta della protagonista, ha anche rimandi onirologici che denotano una mancanza di sicurezza, di impossibilità nella comunicazione delle proprie paure ed ansie, alla vanità e alla perdita di denaro: una feroce ironia a tinte fosche induce perciò all’amica del bar a suggerire alla nostra di farsi levare ogni dente e di utilizzare una dentiera. Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad un contrasto tra ciò che nasce, cresce, cambia, muore e si riforma (il dente, appunto) a confronto con un simbolo vuoto (la dentiera), sostitutivo di un vissuto che pesa così tanto sulla nostra esistenza e di cui sembra più che mai facile liberarsi.
Il dubbio ed il cambiamento umano vengono ancora una volta soppiantati e messi a tacere dall’invenzione e dal progresso a tutti i costi, dall’apparire esageratamente in salute, sempre giovani e vogliosi come la Regina precedentemente menzionata. Ma la nostra nuova protagonista non è niente di tutto questo: la maggior parte dei critici eliotiani la definisce come il singolo, enorme esempio di fecondità presente in tutta la sezione, ma si tratta comunque di una fertilità repressa a forza. Un interessante appunto sollevato dalla critica riguarda, infine, la correlazione tra il malinconico addio di fine serata e gli aborti vissuti dalla donna: la ripetizione del termine “goonight”, storpiato come se pronunciato da un infante, ovvero una persona senza ancora i denti da latte, sommata all’enunciazione di alcuni nomi renderebbero plausibile una sorta di parallelo psichico tra il saluto agli amici e un simbolico ultimo saluto ai figli persi.
La più grossa contraddizione all’ipotesi starebbe nel numero di ripetizioni, sei contro le cinque interruzioni di gravidanza; un altro indizio potrebbe essere la mancanza del piccolo George, per quanto potrebbe trattarsi di uno dei saluti innominati; inoltre, bisogna considerare anche che il “Ta ta”, uno degli ultimi termini utilizzati, ha una valenza infantilizzante del personaggio: si potrebbe forse discutere di una sorta di assimilazione psichica e caratteriale del neonato nella figura della madre, ma si tratta comunque di una forma gergale utilizzata dalla maggior parte dei parlanti inglesi del ceto popolare.
Pare quindi che l’autore adoperi un cambiamento in corsa nelle intenzioni di A Game of Chess: se la prima parte vuole dire e spiegare molto mostrando pochissimo di quello che è veramente al centro del dramma, ovvero l’assenza di una coscienza intellettuale e spirituale, la seconda si propone di dire tutto quel che è possibile ed offrire, stranamente per Eliot, una considerazione quasi totalmente univoca; la crisi dei valori esiste e ha colto la razza umana alla sprovvista, e non è detto che qualcuno sia in grado di porre rimedio in tempo.
T.S. Eliot, The Waste Land (1922)