Milena Fumagalli
A partire dal 2002, il 21 maggio si celebra la Giornata mondiale della diversità culturale, del dialogo e dello sviluppo. Già l’anno precedente, l’UNESCO aveva adottato la “Dichiarazione Universale della Diversità Culturale”, la quale nell’art. 1 definisce la diversità culturale come “patrimonio comune dell’Umanità”. Un elemento, dunque, da proteggere e valorizzare favorendo “un’interazione armoniosa e una sollecitazione a vivere insieme di persone e gruppi dalle identità culturali insieme molteplici, varie e dinamiche”, come si legge sempre nella Dichiarazione (art. 2).
C’è da chiedersi come questi fattori siano stati gestiti nel tempo e quali siano i modelli a cui fare riferimento quando ci troviamo davanti diverse culture e un unico spazio in cui queste devono cercare di convivere e dialogare.
Nel corso della loro storia, gli Stati Uniti sono stati meta di molte migrazioni provenienti dai Paesi di quello che venne definito Vecchio Continente e non solo. Negli anni, vari flussi migratori hanno portato persone di diverse origini, tradizioni, culture e modi di pensare in questi territori. Ciò ha significato affrontare il dubbio su come tutte queste persone potessero stare insieme condividendo lo stesso spazio geografico con le loro diverse abitudini e tradizioni.
Nel 1908 a Washington, andò in scena l’opera teatrale The Melting Pot di Israel Zangwill. Il titolo rese famosa l’espressione per descrivere la società americana del tempo. Spesso tradotto in italiano come “crogiolo”, il melting pot rifletteva l’idea secondo cui gli immigrati, da qualunque parte del mondo venissero, si sarebbero potuti unire e trasformare in veri e propri americani gradualmente. Altro non era se non un processo visibile già da diversi anni a quella parte: l’assimilazione culturale. Che fosse forzato o volontario, questo modello implicava la rinuncia dei propri retaggi, valori e credenze, per far spazio a quelli della cultura dominante. Questo scenario fu messo a dura prova durante la Prima Guerra Mondiale, quando i cittadini americani divennero sempre più sospettosi nei confronti degli immigrati che provenivano, per esempio, dalla Germania.
Otto anni dopo l’uscita dell’opera di Zangwill, nel 1916, Randolph Bourne scrisse un articolo intitolato Trans-national America, in cui criticava la teoria del melting pot. Lo scrittore offrì un nuovo sguardo della società e affermò il fallimento dell’assimilazione, auspicando a un’America più cosmopolita. Tuttavia, la sua proposta di accentuare piuttosto che cancellare le diverse culture che abitavano gli USA rimase pressoché inascoltata nel clima politico del tempo.
C’è, però, anche un’altra faccia dell’America da tenere in considerazione. La fine della guerra civile, che nel 1865 aveva visto gli Stati del Nord prevalere sugli Stati del Sud, portò all’abolizione della schiavitù, ma negli Stati dell’ex Confederazione si impose un regime di segregazione razziale. Si trattava, di fatto, di una discriminazione legittimata ed evidente in qualsiasi luogo pubblico e continuò a esistere fino a oltre la metà del Novecento. È il 1963 quando Martin Luther King pronuncia il suo famosissimo discorso I Have a Dream sull’onda del movimento per i diritti civili, in cerca di un’uguaglianza formale e sostanziale tra afroamericani e bianchi.
Quella del razzismo è una scia mai veramente dissolta che arriva fino ai nostri giorni. Basti pensare al caso emblematico e recentissimo di George Floyd che ha fatto scoppiare proteste non solo per le strade in tutti gli Stati Uniti ma anche sui social e in ogni nazione fuori dal territorio a stelle e strisce, al grido di Black Lives Matter. Anche la politica estera dell’ex presidente Donald Trump ha contribuito a respingere ciò che è sempre stato considerato “altro” in favore di una cultura che non è più solo dominante ma anche opprimente e aggressiva. D’altra parte, le sue posizioni sull’immigrazione sono sempre state ben chiare, così come l’immagine del muro a confine con il Messico che Trump aveva dichiarato di voler costruire fin dall’inizio della sua campagna elettorale nel 2016. È curioso, in questo caso, pensare che il maggior gruppo etnico che costituisce la popolazione statunitense dopo i bianchi (60% circa) sia di origine ispanica (15%).
Se tracciare un muro interno e visibile per le strade non è fattibile, all'odio razziale non resta che la possibilità di manifestarsi in episodi di violenza e ai modelli di inclusione e rispetto culturale, invece, il compito di arginarlo.
Dai primi coloni francesi e poi inglesi, l’immenso territorio canadese ha ospitato migliaia di immigrati. Molti arrivavano anche dagli Stati Uniti, in particolare i cosiddetti lealisti (fedeli alla monarchia inglese) che fuggirono in seguito alla Rivoluzione Americana (1775 – 1783). I numeri continuarono a crescere nel tempo e sempre più immigrati iniziarono a popolare il Canada giungendo da diversi Paesi europei.
Nel 1938, John Murray Gibbon pubblicò Canadian Mosaic: The Making of a Northern Nation. Il testo è una critica al sistema americano del melting pot che tende ad annullare le culture d’origine degli immigrati per adottare in tutto e per tutto il modello della cultura ospitante. Gibbon propone, invece, una prospettiva più multiculturale che, però, verrà sviluppata a livello nazionale solo in seguito.
Alcuni studiosi, infatti, hanno ripreso l’idea del mosaico che è rimasto nell’immaginario collettivo come fotografia della complessa società canadese. Nel suo famoso libro The Vertical Mosaic (1965), il sociologo John Porter fornisce un’analisi dettagliata della situazione in Canada. Un Paese democratico ma con una struttura gerarchica basata su un sistema di classi, élite istituzionali (gestite soprattutto da coloro che rientravano nella categoria definita WASP, cioè bianchi, anglosassoni, protestanti) e disuguaglianza dei gruppi etnici.Infatti, il Canada non era estraneo a discriminazioni nei confronti di persone e intere comunità non bianche, in particolare immigrati dai Paesi asiatici. Questi, insieme ai canadesi di colore, svolgevano i lavori più umili e soprattutto durante la prima metà del Novecento furono spesso esclusi dal diritto di voto e dall’istruzione pubblica. Solo dal 1948, quando il Canada firmò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la situazione iniziò a cambiare.
Un altro passo avanti importante fu compiuto nel 1969, quando venne approvato l’Official Languages Act, che dichiarò l’eguale status dell’inglese e del francese, che vennero così riconosciute come lingue ufficiali del Paese, con pari importanza. Tuttavia, ciò non era ancora abbastanza a garantire pari dignità e rispetto alle culture del mosaico.
Il periodo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 fu carico di tensioni createsi tra il governo di Ottawa e il Québec (di maggioranza francese). Anche per questo, il Primo Ministro dell’epoca, Pierre Trudeau, cercò di implementare la politica del multiculturalismo a favore del patrimonio culturale del Paese. Nel seguire questa strada, furono cancellate alcune restrizioni sull’immigrazione da Paesi non europei.
Dagli anni ’80, si cominciò a pensare a una società multiculturale basata su maggiori diritti e libertà, nonostante le critiche di chi riteneva che accentuare le diverse culture avrebbe portato a una minore coesione sociale. Coloro che si opponevano a queste politiche, infatti, vedevano in esse un pericolo per l’unità del Paese e l’identità nazionale.
Negli anni successivi, si cominciò a dare più attenzione alle minoranze e alla lotta contro le discriminazioni. Diverse ricerche sono state eseguite in questo campo, come ad esempio la Ethnic Diversity Survey, proprio con l’obiettivo di indagare il contesto culturale ed etnico dei canadesi. Nel 2003, i risultati dello studio hanno fatto emergere un’immagine delle differenti generazioni che hanno attraversato il Paese. Riguardo alla composizione della popolazione, infatti, è apparso che la maggior parte è costituita da discendenti bianchi europei. La percentuale dei gruppi minoritari, tuttavia, è in lenta crescita.
Il dibattito su questi modelli di integrazione e interazione tra le minoranze etniche e la cultura dominante è ancora aperto. Le riflessioni che si possono fare sono molte e contrastanti, ma anche sempre più significative nelle società attuali, in Nord America, in Europa e in tutto il mondo. Le migrazioni continuano a essere un fenomeno globale in crescita e non si può prescindere da politiche che affrontino la questione delle diverse culture ed etnie che devono coabitare in uno stesso luogo.
Nella gestione di queste complesse realtà, la “Dichiarazione Universale della Diversità Culturale” fissa delle linee guida fondamentali. Tra queste, vi sono la promozione degli scambi internazionali, la tutela delle diversità linguistiche e la sensibilizzazione di queste tematiche nei processi educativi.
L’urgenza dell’agire in questo campo è dimostrata anche dagli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU. Alcuni dei traguardi fissati dall’Obiettivo numero 10 sono:
“Entro il 2030, potenziare e promuovere l’inclusione sociale, economica e politica di tutti, a prescindere da età, sesso, disabilità, razza, etnia, origine, religione, stato economico o altro” (10.2);
“Assicurare pari opportunità e ridurre le disuguaglianze nei risultati, anche eliminando leggi, politiche e pratiche discriminatorie e promuovendo legislazioni, politiche e azioni appropriate a tale proposito” (10.3);
“Rendere più disciplinate, sicure, regolari e responsabili la migrazione e la mobilità delle persone, anche con l’attuazione di politiche migratorie pianificate e ben gestite” (10.7).
L’ONU ci dà un chiaro segnale che i muri fisici e mentali non solo non aiutano a risolvere problemi e a crescere come comunità solida con valori etici altrettanto robusti, ma vanno abbattuti con soluzioni adeguate nel massimo rispetto delle culture coinvolte.
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Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla Diversità Culturale, unesco.org (data di ultima consultazione 17/04/2021)
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Foto 1 da worldwar1centennial.org
Foto 2 da open.online
Foto 3 da thecanadianencyclopedia.com
Foto 4 da wikipedia.org