Il congresso si focalizzerà sul significato del silenzio nella comunicazione e nella semiotica, analizzando il suo ruolo in politica e musica, per riflettere sulle comunicazioni contemporanee.
Data:
Luogo: via Azzo Gardino, 23 - via Zamboni, 38 - via Barberia 4, Bologna
giovedì 7 novembre Dipartimento delle Arti via Azzo Gardino 23, Bologna
venerdì 8 novembre Dipartimento di Filosofia via Zamboni 38, Bologna
sabato 9 novembre Palazzo Marescotti via Barberia 4, Bologna
“Ed ecco che quindi, in conclusione, direi che uno dei problemi etici che ci si pone è come tornare al silenzio. E uno dei problemi semiotici che potremmo affrontare (e proprio ieri l’avevo proposto come tema per il prossimo congresso) è studiare meglio la funzione del silenzio nei vari modi di comunicazione. Abbordare una semiotica del silenzio: può essere una semiotica della reticenza, una semiotica del silenzio nel teatro, una semiotica del silenzio in politica, una semiotica del silenzio nel discorso politico, cioè la lunga pausa, il silenzio come creazione di suspense, il silenzio come minaccia, il silenzio come consenso, il silenzio come negazione, il silenzio in musica. Ecco alcuni dei temi per uno studio di una semiotica del silenzio”.
Con queste parole Umberto Eco terminava il suo intervento al Congresso AISS del 2009 intitolato Le nuove modalità della comunicazione politica, offrendo un’idea per un successivo incontro per i semiologi. Questo incontro si realizza adesso.
Sono passati 15 anni e non soltanto l’opportunità di parlare delle “condizioni della percezione del segnale come prerequisito per l’identificazione del significante e le strategie di realizzazione del rumore sul canale” – per usare ancora le parole di Eco – non è venuta meno, ma semmai è diventata ancora più urgente. Il rumore presente nelle nostre vite è, infatti, cresciuto a dismisura e sempre più le soluzioni comunicative si sono polarizzate: stare zitti o fare molto rumore.
È il binomio silenzio-rumore, così, quello che vorremmo indagare: il silenzio come strategia, in un ventaglio di fenomeni che va dal silenzio stampa alla cancel culture. E se ci viene spontaneo pensare subito a guerre e pandemie come luogo di silenzio (e rumore) assordante, a ben pensare intorno a questo tema ruotano molte cose piccole e grandi della nostra esistenza. Dalle vistose cuffie con cui tanti giovani vanno in giro (e che cancellano digitalmente il rumore esterno) all’abitudine di fotografare ogni cosa, creando le condizioni affinché il rumore invada non soltanto le nostre orecchie ma anche i nostri occhi. Per non dire dell’intelligenza artificiale, che promette la produzione costante di conversazioni di ogni tipo in ogni momento e in ogni luogo con l’infaticabile piglio che caratterizza le macchine. Un troppo pieno che spinge per converso a cercare dei vuoti (pensiamo alla ricerca del silenzio del paesaggio per opporsi al rumore urbano), ora allontanandosi dai segnali ora ignorandoli di proposito. Fino alla relazione tra silenzio e sfera religiosa, al silenzio come esperienza della fede.
Mentre, però, si impongono gli estremi, e fioriscono le pubblicazioni che invitano al silenzio, a valorizzarlo e a ottenerlo, magnificando le possibilità che si hanno di riempirlo di qualcos’altro, si finisce per dimenticare quello che Eco chiamava mormorio, ovvero ciò che non è rumore ma che non è nemmeno silenzio, quegli statuti intermedi cioè in cui si avviano ad emergere (o a scomparire) i più diversi segnali.
Sugli effetti comunicativi che produce il silenzio, molto ci sarebbe da riflettere, all’interno di una semiotica che fa tesoro dalla pragmatica del linguaggio, della sociologia della interazione goffmaniana, della prossemica. Bene lo sanno i politici, che calibrano i propri silenzi in modo strategico, ma più in generale bene lo sanno tutti i discorsi con una forte componente manipolatoria e sanzionatoria. A questo proposito, non trascurabile è il ruolo del silenziamento strategico delle memorie scomode, collettive (con tutti i fenomeni che dall’antichità a oggi hanno cercato di relegare nel silenzio della damnatio memoriae ciò che non si vuole ricordare) e personali (con il complesso problema del diritto all’oblio che, nella nostra infosfera, sfida l’apparente incancellabilità digitale).
In un’ottica di semiotica della cultura, è poi imprescindibile una riflessione sulle diverse valorizzazioni del silenzio, segno di imbarazzo per alcuni, di serenità per altri, di saggezza e pienezza di consapevolezza in altri contesti ancora, o di tutela dei diritti nei contesti giudiziari (come quando ci si avvale della facoltà di non rispondere). In tutto questo giocano un ruolo cruciale le passioni. Se da un lato, infatti, si danno ruoli patemici incentrati sul silenzio come quello del taciturno, dall’altro alcune passioni come la malinconia o l’offesa manifestano nel silenzio la propria emozione.
Anche a livello cognitivo, il silenzio apre molti spazi semiotici: dall’incessante discorso con se stessi che il silenzio rende possibile, e che si intreccia con gli effetti della scoperta del Default Mode Network, fino al musement di cui parlava Peirce, in cui a partire da un libero gioco del fantasticare che ha nel silenzio la sua condizione di possibilità, l’immaginazione apre e copre percorsi enciclopedici eterogenei.Se il silenzio per la semiotica suscita interesse in quanto capace di assumere senso, quello che diventa utile indagare allora sono le condizioni – narrative, cognitive, enunciative, culturali, patemiche – in cui tale senso emerge. Come per Merleau-Ponty è l’invisibile – e dunque l’assenza – a costituire la condizione di possibilità del visibile.