Manuela Boccaccio
Quest’anno, il 29 novembre, ricorre il Native American National Heritage Day. È doveroso interrogarsi sui motivi che hanno reso indispensabile istituire una giornata in memoria dei Nativi Americani e, soprattutto, chi sono oggi e come vengono rappresentate queste tribù che popolano il territorio americano.
Analizzando le vicissitudini che hanno coinvolto europei e nativi americani, sin dai primi contatti tra queste due etnie, si è molto dibattuto riguardo il rispetto dei diritti e della libertà degli individui, a prescindere dalle diversità. Questo tema ha ben presto generato l’esigenza di proclamare ufficialmente una giornata per celebrare l’importanza di questi gruppi etnici. Nel 2009, l’ex presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, ha proclamato il nuovo Native American National Heritage Day (Giornata Nazionale dedicata al Patrimonio dei Nativi Americani).
Questa nuova festività cade il giorno dopo il Thanksgiving Day e conclude anche il Mese Nazionale del Patrimonio dei Nativi Americani. La lunga e travagliata storia di questo mese nazionale è iniziata a partire dall’inizio del secolo scorso per onorare questa popolazione. Oggi, questa ricorrenza è utile anche per preservare la cultura e la storia unica dei nativi americani attraverso la narrazione, la musica, i festival, le arti, l’artigianato e la danza tradizionale.
Alcuni stati collegavano questa celebrazione al Columbus Day, giornata in cui tutt’oggi si celebra l’anniversario dell’arrivo di Cristoforo Colombo sul suolo americano, il 12 ottobre 1492. Quasi fino alla fine del secolo scorso, non era ancora stata istituita ufficialmente una giornata per onorare i nativi, soprattutto perché molti stati non riuscivano ad accettare a pieno la presenza amerinda. Con l’arrivo di Obama alla Casa Bianca, la ricorrenza è stata ufficializzata, in primis per ricordare ai cittadini americani e, indirettamente, a tutto il resto del mondo, l’importanza del contributo e dell’arricchimento culturale delle tribù indigene, ma anche e soprattutto per rendere onore al passato travagliato e alle tragedie che hanno subito da parte dei coloni europei.
A seguito degli eventi che hanno coinvolto gli amerindi, l’animo dei cittadini americani, soprattutto dei discendenti diretti delle tribù, è stato pervaso da un forte sentimento di rivendicazione e da un’intensa voglia di ricordare. Nel 1915, durante il Congresso annuale degli Indiani d’America, si era pensato di istituire una giornata in onore dei Nativi Americani. Il presidente del Congresso, Sherman Coolidge proclamò il secondo sabato di ogni mese di maggio come il Giorno Internazionale degli Indiani Americani. Malgrado questa decisione onorevole, non tutti gli stati approvarono la data e il giorno non venne riconosciuto ufficialmente. Diversamente, alcuni stati cominciarono a festeggiare ufficiosamente quest’evento in date diverse.
La storia dei Nativi Americani appare oggi un tema delicato da trattare, soprattutto per chi tenta di conservare e preservare le popolazioni indigene, partendo proprio dalla voglia di dare una risposta al perché dell’eccidio di massa di queste tribù.
Il secondo capoverso della Dichiarazione d’Indipendenza, sottoscritta dai rappresentanti delle 13 colonie, il 4 luglio 1776, recita:
«Consideriamo verità evidenti per sé stesse che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono stati dotati dal loro Creatore di taluni diritti inalienabili; che, fra questi diritti, vi sono la vita, la libertà e il perseguimento del benessere.»
Tuttavia, indigeni e afro-americani, furono esclusi a priori dalla dichiarazione di Thomas Jefferson. Per quale motivo la storia è impregnata dello sterminio e della sottomissione di queste popolazioni? Perché, nel periodo della rivoluzione americana, questi diritti sono stati negati a quei gruppi specifici della società? È comprensibile allora il perché sia necessaria questa ricorrenza. L’obiettivo è quello di valorizzare e trasmettere una maggior consapevolezza di quel che è avvenuto, per cercare di studiare i motivi che hanno spinto i coloni a queste azioni, provando a rendere la storia una maestra di vita attiva, che permetta di anticipare ed evitare nuovi episodi di violenza ai danni delle minoranze della società. Proprio per rinforzare questo concetto, lo scorso 1 febbraio è stato celebrato il Giorno della Memoria per gli Indiani Sioux.
Questo giorno è detto “della memoria corta” e ricorda gli avvenimenti del 1 febbraio 1876, quando il ministro degli Interni degli Stati Uniti d'America dichiarò guerra alla tribù Sioux. Gli indigeni non avevano accettato di trasferirsi nelle riserve, dopo che erano state scoperte delle cospicue miniere d’oro nel cuore del territorio in cui abitavano. Quella dichiarazione di guerra fu l'inizio della tragedia che è passata alla storia come il massacro di Wounded Knee.
Ciò che ha contribuito all’accrescimento della necessità dell’istituzione di questa giornata, probabilmente, è stato lo studio più approfondito della catena di eventi che hanno interessato queste popolazioni. Le guerre (a partire dalla colonizzazione europea dei territori americani del XVI secolo, sino al più recente massacro che risale al 1890) sono state il risultato di un violento progetto di sterminio, conquista e imposizione sulle migliaia di individui amerindi.
Tra le tante guerre ricordiamo quella del 29 novembre 1864, giorno del massacro di Sand Creek, che si verificò durante la guerra del Colorado, combattuta dal 1863 al 1865 tra le tribù Cheyenne e Arapaho e i coloni americani. Un accampamento di circa 600 nativi americani, che si trovavano vicino al fiume Big Sandy Creek fu attaccato da altrettanti soldati americani. Quest’evento causò l’esodo di massa delle delle altre tribù lontano dal Colorado.
Per quanto riguarda invece il massacro di Wounded Knee del 1876 circolano numerose leggende. Richard Erdoes, scrittore e artista tedesco, studioso degli Indiani d’America, ha registrato e trascritto nel libro Miti e leggende degli indiani d’America (1989), la versione dei fatti raccontata da Dick Toro Sciocco nella Riserva Indiana di Rosebud, Sud Dakota, nel 1967.
Il massacro dei danzatori Sioux avvenne a Wounded Knee nel dicembre 1890 mentre erano impegnati nel rituale della danza degli spiriti. Si pensava che tale danza fosse il segnale per una generale insurrezione indiana, così l’agente bianco della Riserva Pine Ridge, nel Sud Dakota, ricorse all’esercito regolare per sopprimere i danzatori. Una tribù capeggiata da Capo Piede Grosso si arrese alla Settima Cavalleria. A Wounded Knee Creek, diciotto miglia a nordest di Pine Ridge, l’esercito aprì il fuoco con molti cannoni sulla gente di Piede Grosso e uccise circa duecentocinquanta individui. Dick Toro Sciocco raccontava in questo modo l’evento:
«Poi all’improvviso ci fu uno strano rumore, forse quattro o cinque miglia lontano, come lo strappare d’una grande coperta, la coperta più grande del mondo. Non appena l’udì, lo zio scoppiò a piangere. La mia vecchia mamma cominciò a cantare un lamento funebre come quando c’è un morto, e la gente, piangendo, correva attorno come impazzita. Io chiesi allo zio: “perché piangono tutti?” Lui rispose “li stanno uccidendo; laggiù stanno uccidendo il nostro popolo!”» (1998: p.621)
A distanza di circa un secolo, nello stesso luogo, come un eterno ritorno all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, nella riserva indiana di Pine Ridge, Leonard Peltier, attivista statunitense per i diritti dei Nativi Americani, fu condannato a due ergastoli per l’omicidio di due agenti dell’FBI, nella suddetta riserva indiana, in quel che è divenuto noto come l’incidente di Wounded Knee, in Sud Dakota. In quei giorni i Sioux, appoggiati dall’American Indian Movement, si ribellarono al Governo Nixon denunciando le misere condizioni di vita nelle riserve. I pellerossa si riunirono e organizzarono la resistenza. Il Governo tentò di rispondere, pur senza avere alcun potere su Wounded Knee. Dopo numerosi giorni di scontri e qualche perdita, la resistenza finì e i pellerossa furono costretti a lasciare la zona, perdendo ancora una volta una guerra contro i bianchi americani e senza avere riconoscimenti dei loro diritti.
I Nativi Americani, oggi, sono circa cinque milioni in tutto e rappresentano l’1,7% dell’intera popolazione statunitense. Secondo il censimento realizzato nel 2010 dall’US Census Bureau la popolazione americana, conta circa 565 differenti tribù ufficialmente riconosciute. Alcuni gruppi vivono ancora nelle Riserve, altri si sono integrati maggiormente alla società americana. L’istituzione delle Riserve risale all’Indian Appropriations Act del 1851.
Questo documento era stato redatto per allontanare le tribù dai giacimenti di oro presenti nei territori in cui abitavano. L’accettazione da parte dei Nativi Americani era dettata non solo dalla paura dei Bianchi ma anche dall’idea di una sorta di garanzia sull’appartenenza a un territorio, nonostante la crescente espansione demografica dei coloni. La diminuzione della popolazione indigena in territorio americano è stata il risultato non solo di questa serie di massacri da parte dei coloni, ma anche dalla catastrofe demografica che ebbe inizio non appena le tribù contrassero le malattie provenienti dall’Europa, per le quali loro non avevano alcuna protezione immunitaria.
La storia dei Nativi d’America è impregnata da sentimenti contrastanti, che hanno il retrogusto amaro della discriminazione. Tuttavia, a partire dal 1985, il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) ha creato un nuovo Gruppo di lavoro sui popoli indigeni (WGIP) per la promozione dei diritti di tali tribù. Diedero il via all’elaborazione di una bozza di Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni che, dopo anni di consultazioni, venne adottata dall’Assemblea Generale il 13 settembre 2007 con 143 stati a favore, quattro contrari (Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti) e 11 astenuti (Azerbaijan, Bangladesh, Bhutan, Burundi, Colombia, Georgia, Kenya, Nigeria, Federazione Russa, Samoa e Ucraina). Gli Stati Uniti sono stati l’ultimo paese ad aver riconosciuto formalmente la Dichiarazione, durante la presidenza Obama.
Tale dichiarazione riconosce agli indigeni diversi diritti, primo fra tutti la libertà di autodeterminarsi decidendo per il proprio statuto politico e per il proprio sviluppo. Il diritto alla non assimilazione forzata e quello alla conservazione della propria lingua, cultura e tradizione.
La speranza è che questo possa essere un altro tassello per contribuire alla creazione di una società mondiale basata sulla tolleranza, sul rispetto dei diritti, sulla distribuzione della consapevolezza e dell’accettazione delle diversità che compongono la realtà del XXI secolo.
Richard Erdoes e Alfonso Ortis, Miti e leggende degli Indiani d’America, Edizioni Paoline, Milano, 1989.
Francis Jennings, La creazione dell’America, Einaudi, Torino, 2003.
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1° Febbraio 1876 - il giorno della “Memoria Corta” - Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra ai Nativi Americani rei di un crimine imperdonabile: nei loro territori c’era l’oro. infofree.myblog.it. (ultima consultazione: 16/07/2021).