Alberto Luppino
Nel cuore degli Stati Uniti ancora scossi dalla Grande depressione, tra il timore di una nuova guerra e la fede incrollabile nei miracoli della modernità, accadde qualcosa di incredibile: i marziani invasero il New Jersey. Era il 30 ottobre 1938, la notte prima di Halloween. Sintonizzati sulla CBS, gli ascoltatori udirono notiziari concitati, scienziati allarmati, esplosioni su Marte, un cilindro metallico atterrato nei campi di Grovers Mill. Tutto sembrava reale, ma era soltanto la versione radiofonica di La guerra dei mondi di H. G. Wells, orchestrata dal ventitreenne Orson Welles e dal suo Mercury Theatre on the Air, sotto forma di un finto notiziario.
Nel giro di un’ora, secondo la leggenda, l’America precipitò nel panico: fughe in auto, telefonate disperate, urla nelle strade. Eppure, il confine tra ciò che accadde davvero e ciò che si racconta rimane nebuloso. Fu davvero un caso di isteria collettiva o fu la stampa, intimorita dal potere della radio di raggiungere le masse, a gonfiare la storia per ridimensionarne l’influenza? Qualunque sia la verità, quella notte la fantascienza si trasformò in un esperimento sociale e in una lezione sull’impatto delle voci e sulla nostra inclinazione a crederci.
Il 30 ottobre 1938, pochi minuti dopo le 20:00, la trasmissione musicale della CBS fu interrotta da una voce urgente: un oggetto misterioso era atterrato nei campi di Grovers Mill, nel New Jersey. Dalle sue viscere, stava emergendo una figura mai vista prima, armata di un raggio termico capace di incenerire ogni cosa. Sembrava la fine del mondo e stava andando in onda in diretta.
Chi era sintonizzato non stava ascoltando un telegiornale: dietro quella voce c’era il ventitreenne Orson Welles, enfant prodige del teatro statunitense che, insieme al suo Mercury Theatre on the Air, stava sperimentando un nuovo linguaggio radiofonico che fondeva la narrazione letteraria con l’urgenza di un bollettino di guerra. Scritto da Howard Koch, l’adattamento di La guerra dei mondi di H. G. Wells (1898) trasformava la guerra interplanetaria vittoriana in un’invasione marziana contemporanea, raccontata come cronaca in tempo reale. Il trucco era semplice, ma geniale: far credere, anche solo per un istante, che tutto stesse accadendo davvero.
“Signore e signori, interrompiamo il nostro programma di musica da ballo per trasmettervi un bollettino speciale dell’Intercontinental Radio News. Alle otto meno venti, ora centrale, il professor Farrell dell’Osservatorio Mount Jennings di Chicago, Illinois, ha comunicato di aver osservato diverse esplosioni di gas incandescente, che si verificano a intervalli regolari sul pianeta Marte” (Koch, 1938).
Da lì in poi, un crescendo inarrestabile. L’inviato Carl Phillips (interpretato da Frank Readick), in diretta dalla scena, descriveva l’apertura del cilindro:
“Santo cielo, qualcosa si sta contorcendo fuori dall’ombra, come un serpente grigio. Ora ce n’è un altro, e un altro ancora! Mi sembrano tentacoli. Ecco, riesco a vedere il corpo della creatura. È grande, grande come un orso e luccica come cuoio bagnato. Ma quel volto… Signore e signori, è indescrivibile. Faccio fatica persino a costringermi a guardarlo” (Koch, 1938).
Poi il caos: la folla si disperde, i soldati aprono il fuoco, i marziani rispondono. In un attimo, Grovers Mill si trasformò in un campo di battaglia.
“[Phillips] Ora tutto il campo è in fiamme! [esplosione] I boschi… i fienili… i serbatoi di benzina delle automobili… si sta propagando ovunque! Sta venendo in questa direzione… a circa venti metri alla mia destra…
[schianto del microfono… poi silenzio assoluto]
[Annunciatore] Signore e signori, a causa di circostanze indipendenti dalla nostra volontà, non siamo in grado di proseguire la trasmissione da Grovers Mill” (Koch, 1938).
La forza dello spettacolo stava tutta nella forma: nessuna musica epica, nessun narratore a guidare l’ascolto. Solo bollettini d’emergenza, corrispondenti in diretta, presunte dichiarazioni ufficiali e testimoni oculari tremanti. A fare da collante, silenzi improvvisi, rumori ovattati che sembravano guasti tecnici, ma che all’orecchio dell’ascoltatore suonavano come segnali di autenticità.
E così gli Stati Uniti si ritrovarono a vivere la fine del mondo attraverso la radio. Molti ascoltatori si sintonizzarono a programma già iniziato, perdendo l’avvertimento iniziale che spiegava la natura fittizia della trasmissione. Alcuni di loro confusero l’invasione marziana con un attacco tedesco, altri con un’apocalisse biblica. Si parlò di telefonate alla polizia, segnalazioni di avvistamenti, persino di suicidi e di isteria collettiva. Ma accadde davvero?
Nelle ore e nei giorni successivi, i giornali dipinsero un’America in preda al panico: suicidi, svenimenti, esodi in auto con ingorghi chilometrici. Una testimonianza concreta fu quella di Paul ed Estelle Paultz, che quella notte lasciarono Manhattan convinti che i marziani stessero distruggendo il Paese: presero un treno per Hartford, a 80 miglia da casa, spendendo tutti i soldi che avevano con sé e scoprendo l’inganno solo ore più tardi. Tuttavia, dietro i titoli sensazionalistici, le prove concrete erano rare e molti degli episodi oggi non trovano alcuna conferma verificabile.
Molti giornali sfruttarono la vicenda per vendere copie con titoli a caratteri cubitali che relegavano persino le notizie su Hitler in fondo alla pagina, ma il motivo non era soltanto la ricerca del sensazionalismo. Negli anni Trenta, stampa e radio erano concorrenti diretti nella corsa alle inserzioni pubblicitarie. Screditare il nuovo medium significava difendere il proprio spazio economico. E quale occasione migliore di un presunto panico nazionale per dimostrare che la radio era pericolosa e inaffidabile?
Nel 1940, lo psicologo Hadley Cantril pubblicò The Invasion from Mars, uno studio pionieristico che analizzava le reazioni del pubblico alla trasmissione, descrivendo un’isteria diffusa. Oggi, però, quel testo è considerato più un documento storico che una prova scientifica, poiché si basava su un campione ridotto e non rappresentativo, selezionato tra chi aveva già dichiarato di essersi spaventato.
I dati reali raccontano una storia diversa. Un sondaggio della CE Hooper Company condotto a ridosso dell’evento stimò che solo il 2% degli americani ascoltò l’intero programma. Il “panico nazionale” si riduceva, quindi, a una reazione circoscritta e amplificata dai media.
Le revisioni più recenti, come quelle dello storico A. Brad Schwartz, delineano un quadro molto diverso: un panico localizzato, gonfiato ad arte dai giornali. Alcuni ascoltatori, invece di fuggire terrorizzati, scrissero a Welles per lodarne l’originalità e la potenza creativa. Secondo la ricerca di Schwartz, basata su circa 1.400 lettere inviate a Welles e alla FCC, il 27% dei testimoni dichiarò di essersi spaventato. La maggior parte, invece, rimase incollata alla radio cercando di capire cosa stesse succedendo o corse ad avvertire parenti e vicini: un comportamento che ricorda il meccanismo virale delle catene di messaggi odierne. In effetti, lo stesso schema continua a operare a quasi novant’anni di distanza: le notizie acquistano forza quando circolano con rapidità e vengono rilanciate da figure di fiducia.
Le lettere degli ascoltatori rivelarono che molti americani rifletterono per la prima volta su una questione oggi molto familiare: la democrazia può sopravvivere a un mezzo di comunicazione capace di rendere indistinguibile la menzogna dalla verità?
La guerra dei mondi appare, quindi, come un’anticipazione del potere della disinformazione. Welles, forse senza prevederne del tutto le conseguenze, mise in scena una lezione profetica: i media possono plasmare la percezione della realtà tanto quanto la fantasia. Fu, in un certo senso, un esperimento di post-verità ante litteram che metteva alla prova non solo le possibilità tecniche della radio, ma soprattutto i limiti del senso critico del pubblico.
La sera del 30 ottobre 1938 cambiò per sempre la percezione della radio e la vita di Orson Welles. Il clamore della trasmissione lo proiettò al centro della scena culturale americana, aprendo la strada a una carriera folgorante che, tre anni dopo, lo avrebbe portato a firmare Quarto potere, considerato da molti il vertice del cinema statunitense del Novecento.
L’eco di La guerra dei mondi superò di gran lunga quella notte. La trasmissione divenne un punto di riferimento per raccontare il potere dei media, citata e rievocata in film, serie TV, documentari, saggi accademici e parodie. Il mito del panico fu alimentato dagli stessi protagonisti: anche se in un primo momento fu infastidito dalle esagerazioni della stampa, Welles finì per farlo proprio e, negli anni successivi, arricchì le sue versioni con dettagli sempre più teatrali. Anche la CBS ne colse il potenziale e lo trasformò in materiale promozionale: nel 1957 produsse l’episodio televisivo “The Night America Trembled” e nel 1975 la ABC realizzò il film The Night That Panicked America. Nel 1988 il comune di West Windsor, patria del presunto sbarco alieno, celebrò il cinquantenario con quattro giorni di eventi e la posa di un monumento in bronzo.
È indubitabile che il racconto di Welles mantiene intatta la sua attualità nell’era delle fake news, dei deepfake e delle notizie lampo che rimbalzano sui social. Il parallelo è evidente: ad esempio, nel 2011 a Veracruz, in Messico, alcuni tweet infondati su presunti attacchi ai bambini da parte di narcotrafficanti scatenarono incidenti, ingorghi e panico generalizzato. In fondo, il passaparola e la viralità dei social network rispondono alla stessa logica.
Il panico del 1938, pur ridimensionato dalle ricerche più recenti, resta un avvertimento potente. Ci ricorda che non serve ingannare milioni di persone per generare conseguenze sociali rilevanti: basta una minoranza che ci creda davvero. Ogni epoca ha avuto le sue illusioni collettive – dai lupi mannari medievali alle fake news digitali – e tutte funzionano perché si innestano su paure preesistenti. Il mezzo cambia ma la dinamica psicologica rimane la stessa.
La lezione più attuale di La guerra dei mondi è che non si possono evitare del tutto le notizie false ma si può imparare a riconoscerle e a difendersi dal loro potere persuasivo. Studiosi come Alice V. Keliher sostennero che la trasmissione mostrava l’urgenza di una “educazione realistica alle relazioni umane” per evitare che i dittatori sfruttassero l’insicurezza delle masse.
L’esperimento di Orson Welles continua, quindi, a sollevare la stessa questione: qual è la responsabilità di chi produce fiction in un mondo che vive al ritmo di breaking news? All’epoca, molti si chiesero se il pubblico fosse stato ingenuo. Oggi, la domanda si ribalta: siamo davvero più preparati, o vulnerabili come non mai?
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