Gabriele Dallolio - I volti della follia nell’opera di Lucio Mastronardi

 

Introduzione

 

Il percorso tematico che qui si propone è interamente dedicato alle manifestazioni della “follia” presenti all’interno dell’opera letteraria di Lucio Mastronardi (1930-1979). Questo tema, infatti, che appartiene anche all’esperienza biografica dello stesso scrittore, è il filo conduttore che lega in maniera indissolubile le pagine dei suoi romanzi e che assume, a seconda dei personaggi descritti, sfumature e significati diversi, accompagnando il lettore in un vortice frenetico di ossessioni, pensieri e paure che, nel fluire delle vicende, si impadroniscono degli individui, portandoli a vivere, in base alle circostanze, un’esistenza apatica, remissiva o, nel peggiore dei casi, paralizzata.

Nel Calzolaio di Vigevano (1959), prima opera di Mastronardi che si prenderà in esame, la “follia” non è considerata semplicemente come una manifestazione estrema di un decadimento psichico in atto, ma assume i tratti di una incessante ossessione verso il lavoro e il guadagno. Attraverso questo romanzo, infatti, Mastronardi cercò di denunciare la mentalità pervasiva che, negli anni del “miracolo economico”, si era impadronita dei suoi concittadini vigevanesi, focalizzati esclusivamente sull’accumulo di ricchezze e sul desiderio di realizzare un’ascesa sociale in tempi rapidi. Vigevano, dunque, come affermò lo stesso scrittore, fu il ritratto perfetto del “boom” traslato in provincia; una sorta di «microcosmo»,[1] come ebbe a definirlo, caratterizzato da ritmi lavorativi frenetici, caotici e instancabili, in cui non c’era spazio per il silenzio e per il riposo; un «mondo in piccolo»[2] destinato a produrre uomini vuoti, senza umanità e senza valori.

La vera e propria “follia”, intesa come frantumazione dell’individuo e logoramento psichico, viene affrontata da Mastronardi nel suo romanzo più importante, Il maestro di Vigevano (1962), seconda tappa del nostro percorso tematico. In quest’opera vengono narrate le vicende di Antonio Mombelli, un maestro di scuola elementare incapace di omologarsi pienamente nella società del “miracolo economico”. Umiliato e oppresso da questo mondo spietato, il protagonista è testimone di un lento e progressivo deperimento psichico, sperimentando in prima persona momenti di puro delirio per rassegnarsi, alla fine, a vivere un’esistenza apatica e rinunciataria.

Ma è nelle opere dell’ultimo Mastronardi che la “follia” raggiunge l’apice della sua drammaticità, trasformandosi in una disperata “paralisi esistenziale” destinata a non trovare redenzione. A casa tua ridono (1971), infatti, narra la storia di Pietro, un figlio di povera gente che, nel corso della sua vita, giunge alla consapevolezza di aver sbagliato tutto, sino a desiderare la morte. La nausea che pervade costantemente le pagine di questo romanzo sarà la stessa che proverà anche Mastronardi negli ultimi anni della sua vita, portandolo ad assumere un atteggiamento sempre più inquieto di fronte all’esistenza che culminerà col gesto estremo del suicidio.

 

 

Quadro dei testi del percorso:

 

 

Prima parte

Il calzolaio di Vigevano: l’ossessione sfrenata per il guadagno

 

Testo 1_A – I sogni di Mario Sala (da Il calzolaio di Vigevano, capitolo III)

Testo 1_B – Il denaro prima di tutto (da Il calzolaio di Vigevano, capitolo XII)

 

Seconda parte

Il logorante deperimento psichico nel Maestro di Vigevano

 

Testo 2_A – “Catrame” e “paura” (da Il maestro di Vigevano, prima parte, capitolo 16)

Testo 2_B – Una realtà distorta (da Il maestro di Vigevano, terza parte, capitolo 16)

Testo 2_C – Il sogno di Eva (da Il maestro di Vigevano, prima parte, capitolo 17)

Testo 2_D – Fantasie risarcitorie (da Il maestro di Vigevano, seconda parte, capitolo 12)

Testo 2_E – La follia del maestro Nanini (da Il maestro di Vigevano, terza parte, capitolo 10)  

 

Terza parte

La paralisi finale nelle opere dell’ultimo Mastronardi

 

Testo 3 – Il drammatico epilogo de La ballata del vecchio calzolaio

Testo 4 – Il delirio di Pietro in A casa tua ridono

 

Prima parte

Il calzolaio di Vigevano: l’ossessione sfrenata per il guadagno

 

Il calzolaio di Vigevano, come afferma Rinaldi, è, essenzialmente, «un racconto che non racconta nulla».[3] I ventinove brevi capitoletti, infatti, sono l’immagine plastica e tangibile utilizzata da Mastronardi per portare alla luce un mondo caotico, anarchico e instabile, abitato da individui che, come mosche impazzite, vengono attratti e posseduti dal demone del guadagno, trasformandosi in lupi feroci pronti a divorare i loro simili ma rimanendo, al tempo stesso, imprigionati in questa logica perversa e ossessiva che, alla fine, li riporterà sempre al punto di partenza, vanificando così, di volta in volta, tutti i loro sforzi e i tentativi di ascesa sociale. Questa drammatica esperienza, costante e ripetitiva, pervaderà le vite dei vari personaggi, cominciando da quella del protagonista: Mario Sala, detto Micca.

 

1.1.        La vicenda

 

Appartenente ad una famiglia di calzolai da più generazioni, Mario Sala, orgoglioso della sua eccezionale abilità manuale, dopo aver lavorato per alcuni anni in fabbrica inizia a coltivare l’ardente desiderio di diventare padrone e di mettere in piedi un proprio “fabbrichino”. E così, dopo aver accumulato una cospicua somma di denaro grazie alla produzione domestica di scarpe, decide di licenziarsi dalla fabbrica e annuncia alla moglie Luisa, donna altrettanto laboriosa, di aver versato tutti i soldi a Pelagatta per mettersi in società con lui. Quest’ultimo, infatti, essendo il padrone del calzaturificio Alba, rappresenta per Mario la grande occasione di diventare comproprietario dell’azienda, evitando, di conseguenza, il rischio di rimanere isolato. Nasce così la ditta Pelagatta-Sala, che riscuote immediatamente un grande successo, permettendo a Mario e Luisa di concedersi finalmente una vita più agiata e dignitosa. In fabbrica, tuttavia, i rapporti tra i due soci iniziano a incrinarsi, tanto che Mario comincia a pensare seriamente, visti i soldi accumulati, di mettersi in proprio. La guerra, tuttavia, interrompe improvvisamente i sogni di gloria del protagonista, che si vede costretto ad andare a combattere sul fronte albanese. Durante la sua assenza Luisa viene liquidata da Pelagatta e, successivamente, decide di entrare in società con Netto, innamorandosi di lui fino a sperare che il marito sia morto in guerra. Un giorno, però, alcuni aerei degli alleati bombardano il treno nel quale si trova Netto, che si stava recando a Milano per presentare il suo nuovo catalogo di scarpe. Luisa, di conseguenza, è costretta a lasciare la fabbrica: per paura di un eventuale tradimento della compagna, infatti, Netto aveva deciso di intestarsi l’azienda, che, di conseguenza, viene affidata alle mani della legittima proprietaria: Menchina, la sua ex moglie. Tornato dalla guerra, Mario si reca immediatamente alla fabbrica di Pelagatta e nota, con grande sorpresa, che il suo nome è stato cancellato. I successivi sforzi di mettersi in proprio falliscono miseramente, e così decide di farsi assumere da padron Pedale, cominciando a lavorare “all’americana”, basandosi, cioè, sul processo della catena di montaggio. Nel frattempo affitta un “saloncino” per svolgere esclusivamente lavori stagionali e fa amicizia con una coppia di siciliani, Filippo e Concetta Motta, venendo a sapere da Filippo che gli americani apprezzano molto le scarpe fatte a mano. Le prospettive di guadagno sembrano buone, ma la preparazione dei campionari costa parecchio, e così, per ottenere soldi in fretta, Mario decide di vendere le scarpe del proprio “saloncino” alle operaie della fabbrica di padron Pedale. Per questo motivo viene licenziato, ma, grazie all’intervento di Monsignor Dal Pozzo, riesce ad ottenere alcuni finanziamenti. Pochi giorni dopo la famiglia Motta decide di partire per l’America, commissionando a Mario le scarpe che avrebbero dovuto vendere oltreoceano. L’affare, tuttavia, non verrà portato a termine: le cambiali che Mario aveva sottoscritto, infatti, sono andate in protesto, e la notizia, di conseguenza, viene immediatamente pubblicata sull’«Informatore vigevanese», suscitando un grande scandalo in città. E così, per evitare il fallimento definitivo, Mario, al termine del romanzo, decide di andare a vendere le proprie scarpe direttamente in stazione.

 

1.2.        Cinismo e crudeltà: il racconto dell’ossessione per il denaro

 

Nel Calzolaio di Vigevano il narratore si presenta come uno spettatore passivo degli eventi descritti ma al tempo stesso, come afferma Gianni Turchetta, «non rinuncia affatto alle prerogative dell’onniscienza: anche se spesso non dice, può sapere qualsiasi cosa, e per molti versi funziona senz’altro come un narratore esterno».[4] La voce narrante, inoltre, raramente interviene per commentare o correggere le affermazioni e i pensieri dei vari individui, assumendo su di sé, di conseguenza, il loro linguaggio e le loro limitazioni ideologico-culturali,[5] focalizzate esclusivamente su un’ossessiva e frenetica rincorsa al denaro. Ed è proprio per questo motivo, sostiene Massimiliano Tortora, che il narratore può permettersi di «riferire i pensieri inespressi dei personaggi: sono gli stessi che avrebbe avuto lui, o chiunque altro, nella stessa situazione».[6]

Anche il linguaggio che viene utilizzato nel romanzo è a senso unico, e contribuisce a sottolineare ulteriormente la prospettiva ristretta all’interno della quale è rinchiusa la mentalità dei vigevanesi: lo «strumento monolinguistico del dialetto»,[7] infatti, secondo la definizione di Rinaldi, «non permette di spaziare nei cieli della creatività linguistica»,[8] provocando, inevitabilmente, una paralisi del discorso, intriso di tecnicismi relativi al settore calzaturiero e all’ambito economico. In questo modo, dunque, viene ulteriormente ribadita la centralità del guadagno come unico valore di riferimento nella Vigevano del “miracolo economico”. È evidente, perciò, che anche l’umanità rappresentata da Mastronardi, come afferma lo stesso Calvino, non riesce a guardare oltre la semplice «autoaffermazione economica».[9] Fin dalle prime pagine del romanzo, infatti, il lettore percepisce Vigevano come un mondo chiuso, in cui i cittadini si ostacolano a vicenda col solo scopo di ottenere ricchezza e prestigio sociale, lasciando trapelare, di conseguenza, una psicologia assai limitata. Costoro, del resto, sono introdotti e presentati dal narratore semplicemente mediante il loro nome e cognome, «o al massimo dal soprannome, certo più colorito ma non meno rapido, o da pochissimi altri epiteti (come l’onnipresente “padron”, a indicare chi si è messo in proprio)».[10] Micca, per esempio, soprannome del protagonista che rimanda alla figura paterna, diventa fin dall’inizio sinonimo di soldi, potere, accumulo: «basta dire che in paese, per intendere uno coi soldi, si diceva che mostrava i suoi pé a Micca il vecchio».[11] Anche la breve descrizione fisica di Mario Sala, sempre nell’incipit del romanzo, contribuisce a sottolineare questa sua profonda attrazione verso il denaro e il guadagno: «Tozzo, piccolotto, le orecchie a bandiera, e due occhi che diventano fuoco sentire parlare di lavoro e quibus».[12] La psicologia del protagonista, di conseguenza, rinchiusa in questa sterile ansia di affermazione, è del tutto assente all’interno del romanzo. L’unica sezione in cui possiamo intravedere uno spiraglio meditativo è rappresentata dal terzo capitolo (vd. Link_1_A): troviamo Mario Sala seduto su una panchina davanti alla villa dell’industriale Neroni che inizia a fantasticare sul proprio futuro, immaginandosi come un industriale ossequiato, riverito e, soprattutto, ricco. Anche in questo caso, però, come osserva acutamente Rinaldi, «lo scavo in profondità è fittizio, si riduce alla riproduzione delle probabili parole altrui ed è in fondo smascherato e appiattito dalla connotazione della follia».[13]   

 

Link_1_A_ I sogni di Mario Sala

(da Il calzolaio di vigevano, capitolo III)

 

Il momento culminante di questa ossessione del protagonista per la ricchezza e il guadagno avviene, paradossalmente, pochi istanti prima di partire per la guerra sul fronte albanese. Anche in questa drammatica occasione, infatti, che riporto nel secondo link, l’unica preoccupazione di Mario Sala è quella di informare la moglie sui possibili rischi che, durante la sua assenza, avrebbe potuto incontrare nella fabbrica di Pelagatta. Tra industriali, d’altra parte, il sospetto e la diffidenza non sono mai troppi, anche se soci. E così, incamminandosi verso la stazione insieme a Luisa, Mario le enuncia, ancora una volta, «il suo Vangelo, la legge dello scambio e del denaro».[14] Anche il paesaggio vigevanese che il protagonista osserva dai finestrini del treno appare definitivamente innestato in una dimensione esclusivamente urbana, al di fuori della quale sembra davvero non esserci nulla, determinando, di conseguenza, un effetto di immobilità destinato a rimanere costante nel corso del romanzo.

 

Link_1_B_Il denaro prima di tutto

(da Il calzolaio di Vigevano, capitolo XII)

 

La guerra, naturalmente, non cambia le prospettive di Mario, il quale, al suo ritorno, decide di recarsi immediatamente alla fabbrica del socio Pelagatta, senza nemmeno passare a salutare la moglie. La sua priorità, infatti, non è quella di incontrare Luisa dopo un lungo periodo di assenza ma di sapere come stanno andando gli affari nell’azienda. È evidente, dunque, che nel Calzolaio di Vigevano Mastronardi limita fortemente le esperienze di vita interiore dei vari personaggi, raffigurandoli esclusivamente sulla base delle loro ossessioni mitomani anziché dei loro sentimenti più autentici. Per questo motivo vengono presentati come individui «tendenzialmente piatti, oltre che immobili»,[15] illustrando, nel corso delle vicende, la loro incapacità di alzare lo sguardo verso orizzonti più ampi. Ogni autentica ricerca di senso, infatti, è schiacciata da questa ossessione per il denaro che, alla fine, condurrà le persone in un mondo drammaticamente solitario, angusto e, soprattutto, precario.


 

Seconda parte

Il logorante deperimento psichico nel Maestro di Vigevano

 

Nelle pagine del Maestro di Vigevano Mastronardi prosegue la sua critica feroce nei confronti della società in cui vive, mettendo a confronto la psicosi del guadagno tipica della società piccolo-borghese con la mentalità paranoica e meschina degli insegnanti di scuola elementare. Questi ultimi, in particolare, sono descritti in maniera grottescamente deformata e vengono distinti solo ed esclusivamente sulla base delle loro manie e delle ossessioni che li caratterizzano. Ancora una volta, dunque, ci viene descritto un mondo piatto, dominato dall’orgoglio, dall’apparenza e dal denaro in cui non c’è spazio per i sentimenti autentici e, ancor meno, per la vita interiore e la contemplazione. L’uomo, pertanto, dedicandosi esclusivamente agli aspetti estrinseci della vita, dimentica e smarrisce sé stesso, entrando in un vortice di solitudine, angoscia e paura che, giorno dopo giorno, lo conduce ad un lento e progressivo logoramento psichico che sfocia nella “follia”, intesa, in questo romanzo, come una profonda disgregazione dell’individuo. È ciò che accade in primo luogo al maestro Mombelli, condannato ad agire seguendo i dettami di una società travolta dal “miracolo economico”: l’incessante ricerca di un equilibrio stabile e i numerosi tentativi per salvaguardare la propria dignità (definita “catrame” – sul termine vd. infra) rendono la sua esistenza un vero e proprio inferno. Egli avverte il desiderio di evadere, ma i tentacoli sociali e familiari, incarnati dall’istituzione scolastica e dalla moglie Ada, lo tengono costantemente avvinghiato ai loro meccanismi alienanti, condannandolo ad una vita inerte dalla quale non riuscirà più a rialzarsi.

 

2.1.        La vicenda

 

Antonio Mombelli, protagonista del romanzo, insegna nella scuola elementare di Vigevano, è sposato e ha un figlio, Rino, ma il suo magro stipendio, pur integrato da lezioni private, lo costringe ad una vita di stenti e rinunce. La moglie Ada, che vede attorno a sé un mondo ambizioso e in rapida crescita, decide di prendere in mano la situazione familiare e, cercando di trovare una via d’uscita da quella condizione di povertà, inizia a lavorare come operaia in una fabbrica di scarpe e a guadagnare molto più del marito. Mombelli, sentendosi umiliato e ferito nella propria dignità maschile, cerca in tutti i modi di convincere la moglie a lasciare il lavoro. Ma Ada, che è anche incinta del secondo figlio, vuole fare il grande salto di qualità e creare una fabbrichetta guidata da lei stessa e dal fratello Carlo. L’ambizioso progetto, tuttavia, necessita di una somma non indifferente, e così Ada chiede al marito un ultimo, grande, sacrificio: abbandonare la scuola e investire la liquidazione nell’impresa nascente. Mombelli è perplesso: licenziarsi significherebbe perdere il diritto alla pensione e, soprattutto, dipendere totalmente dalla moglie. Ma, ancora una volta, è Ada a vincere, e così, dopo essersi licenziato dalla scuola, inizia a lavorare come impiegato nella fabbrichetta della moglie e del cognato Carlo. Tuttavia, nonostante gli ottimi ricavi, i rapporti tra i due coniugi si raffreddano ulteriormente quando Ada partorisce il secondo figlio, che vivrà solo pochi giorni: il bambino, infatti, nasce con i capelli rossi, caratteristica assente in entrambe le famiglie. Mombelli, non soddisfatto delle rassicurazioni di Ada, inizia ad essere sempre più convinto che la moglie l’abbia tradito. Qualche giorno dopo, trovandosi al caffè con i suoi vecchi colleghi di scuola, Mombelli ostenta con orgoglio la sua attuale condizione economica, fortemente mutata rispetto ai tempi dell’insegnamento, confessando apertamente, in modo piuttosto incauto, i mezzi con i quali viene ad essere frodato il fisco all’interno della propria impresa. Tra i presenti, tuttavia, c’è anche il maestro Varaldi, il quale, utilizzando un registratore nascosto, aveva accettato di collaborare con la finanza per riportare voci e notizie sulle ormai frequenti forme di evasione fiscale presenti nelle fabbriche degli industrialotti. Ada e Carlo, costretti a pagare una pesante multa, vengono a sapere, grazie alla registrazione di Varaldi, che era stato proprio Antonio ad aver rilasciato quelle informazioni private e, di conseguenza, decidono di punirlo allontanandolo dalle attività della fabbrica. Mombelli, a questo punto, decide di ritornare a scuola, dopo aver superato brillantemente il concorso per il ruolo. E così si trova nuovamente catapultato all’interno di un ambiente, come affermato in precedenza, costituito da maestri paranoici e abitudinari, i cui interessi sono rappresentati esclusivamente dagli scatti di coefficiente e dalle opportunità di portare nelle loro classi il maggior numero possibile di figli di industriali. Ma un giorno, improvvisamente, Ada muore e, negli ultimi istanti di vita, rivela al marito di averlo sempre tradito, fin dai primi giorni di matrimonio. Gli confessa, infine, che Rino non è suo figlio, mentre lo era il bambino dai capelli rossi. Di fronte a queste dichiarazioni Mombelli non riesce a darsi pace e, durante una visita al cimitero di Vigevano, preso da un attacco d’ira, sputa sulla tomba di Ada, provocando l’indignazione del figlio che, sconvolto, decide di fuggire. Viene accompagnato nella stazione dei carabinieri durante la notte, dopo aver percosso un vecchio e aver compiuto atti osceni con un noto omosessuale. A causa di questi episodi, Rino finisce in una casa di correzione, facendo svanire nell’arco di una sola giornata le speranze che il padre aveva riposto in lui: farlo studiare per diventare, un giorno, funzionario di gruppo A. Rimasto solo, a Mombelli resta un’ultima carta da giocare per imprimere una nuova svolta alla propria esistenza: il matrimonio con Rosa, una maestra di scuola elementare fortemente consigliata da una comune collega, fattasi all’occorrenza sensale. Questa scelta, tuttavia, non ha nulla di sentimentale, ma determina la semplice unione di due stipendi e la presenza in casa di una donna. Si tratta, dunque, di un comodo ripiego che, in fondo, non va a determinare alcunché di saliente in una vita svuotata di speranze, di interessi e di prospettive come quella del maestro Mombelli.

 

2.2.        Il “catrame” del maestro Mombelli

 

Nel Maestro di Vigevano Mastronardi riesce a condurre con grande abilità uno scavo interiore che giunge a livelli di assoluto masochismo, di autodistruzione ed allucinazione. La vita del maestro Mombelli, infatti, è caratterizzata, dall’inizio alla fine del romanzo, da costanti paranoie, allucinanti deformazioni della realtà, fantasie consolatorie e risarcitorie: tutti aspetti volti a celebrare la caduta psichica del soggetto, la sua frantumazione e il suo dissolversi.

Un elemento tematico che emerge in continuazione all’interno dell’opera, contribuendo alla progressiva caduta dell’individuo, è costituito dalla parola “catrame”, una metafora utilizzata dal maestro Mombelli per parlare delle relazioni interpersonali: si tratta di una protezione immaginaria sopra la pelle, simbolo di quella dignità che ogni uomo cerca di conquistarsi con tanta fatica nella società in cui vive; un misto di ambizione e presunzione attraverso cui il mondo scherma la propria miseria e vacuità. Tuttavia, nel momento in cui questa scorza di “catrame” viene ad essere erosa, all’uomo non rimane più nulla, e la sua tenuta psichica, di conseguenza, inizia a vacillare e ad entrare profondamente in crisi. Mombelli, consapevole di ciò, cerca di difendere la propria dignità a tutti i costi, evitando che le persone vicine a lui possano colpirlo, anche se, nel corso del romanzo, percepisce sempre di più che quella crosta di “catrame”, gelosamente custodita e protetta, è destinata a frantumarsi giorno dopo giorno. Ad aumentare questa sensazione contribuisce notevolmente l’atteggiamento della moglie Ada, la quale, in modo cinico e crudele, non perde occasione per destabilizzare la fragile psiche del maestro Mombelli.  Nella prima parte del romanzo, per esempio, Ada, stanca della vita da operaia, cerca di spronare in continuazione il marito, invitandolo a lasciare la scuola con l’intento di investire i soldi della liquidazione per costruire una piccola fabbrica di scarpe. Mombelli, però, ancora una volta, vuole mantenere salda la sua dignità, evitando in tutti i modi di assecondare i desideri della moglie e perdere così la propria indipendenza. La passività totale che lo contraddistingue e l’incapacità di staccarsi dall’ambiente scolastico nel quale è inserito, fanno precipitare lentamente la vita del maestro in un baratro di paura: una paura che lo paralizza, impedendogli di lasciare le proprie certezze per intraprendere nuove strade. “Catrame” e “paura”, di conseguenza, come osserva Mauro Bignamini, diventano rapidamente una «coppia sinonimica»,[16] venendo accostati l’uno all’altra grazie alla metafora del naufrago attaccato allo scoglio, utilizzata dal maestro Mombelli alla fine della prima parte del romanzo, e che riportiamo nel brano che segue:

 

Link_2_A_“Catrame” e “paura”

(da Il maestro di Vigevano, prima parte, capitolo 16)

 

Alla fine, di fronte ai continui ricatti di Ada, che lo minaccia di interrompere la gravidanza e di andare a chiedere la carità per le strade di Vigevano, il maestro Mombelli cede e accetta di licenziarsi dalla scuola per consentire alla moglie e al cognato Carlo di realizzare la loro fabbrichetta. In un primo momento si sente soddisfatto della scelta compiuta: lavora parecchie ore ogni giorno, può permettersi il lusso di sedersi al caffè Sociale insieme agli industrialotti senza sentirsi inferiore e, soprattutto, guadagna quanto la moglie Ada. Tutto questo è per lui un motivo di grande orgoglio. Afferma di sentirsi più uomo e crede fermamente che il “catrame” sia ancora attaccato a lui in grande quantità, nonostante il cambiamento lavorativo. Col passare del tempo, tuttavia, avverte nuovamente la sensazione di non essere più padrone di sé stesso. Sottomesso al volere femminile, Mombelli inizia a nutrire una visione preoccupata e ansiosa della realtà, dandole un’angolatura del tutto viziata e deformante: sente che il corpo di Ada, diventato sempre più maschile a forza di lavorare in fabbrica, inizia ad emanare un odore di collanti e mastici che, poco alla volta, si tramuta in una puzza atroce. Pensa costantemente alla morte della moglie, prima causa di tutte le sue disgrazie, e accoglie come una liberazione la prematura scomparsa del suo secondogenito.

L’improvvisa scomparsa di Ada, a cui il nostro narratore dedica soltanto mezza pagina, rappresenta l’ultimo tentativo operato dalla moglie per togliere ulteriori pezzi di “catrame” dalla pelle del marito. Pochi istanti prima di morire, infatti, Ada gli rivela di averlo sempre tradito, confessando che Rino, a differenza del bambino coi capelli rossi, non è suo figlio. Umiliato e schiacciato dal peso della vergogna, Mombelli vede nel cadavere che gli sta dinanzi un nemico che, umiliandone l’identità sociale, ne aveva messo a rischio la tenuta psichica.[17] Per questo motivo la realtà che si trova ad affrontare torna ad assumere contorni grotteschi e surreali: il corpo della moglie morente emana una puzza tremenda, la sua faccia è dura e fredda, con un sorriso fra l’ironico e il sarcastico. Dopo la sua morte, tuttavia, Ada diventa sempre più persecutoria nei confronti del marito. Quest’ultimo, infatti, andando a visitare la tomba della moglie insieme al figlio Rino, viene vessato da nuove, terribili, allucinazioni. Si veda il brano cui stiamo facendo riferimento: una delle pagine più violentemente tragiche del libro…

 

Link_2_B_Una realtà distorta

(da Il maestro di Vigevano, terza parte, capitolo 16)

 

Rimasto solo, il maestro Mombelli continua a far scorrere nella sua testa pensieri contorti e ripetitivi, giungendo, alla fine, a questa amara conclusione: «Respiravo la puzza: la emanavo io!».[18] Il vero cadavere, dunque, è Mombelli:[19] l’ossessione esclusiva per il proprio “catrame” l’ha paralizzato, bloccandolo in una posizione inerziale che, dall’inizio alla fine del romanzo, lo fa vivere da morto pur essendo vivo.

 

2.3.        Fantasie consolatorie e risarcitorie

 

Mombelli dimostra, nel divenire della narrazione, di essere un uomo triste, disilluso, sempre alla ricerca di un equilibrio interiore che gli consenta di mantenere saldo il timone della propria psiche. Tuttavia, consapevole della precarietà di questi tentativi, cerca di trovare, durante la giornata, alcuni momenti che gli consentano di estraniarsi temporaneamente dalla drammatica realtà nella quale si trova a vivere: alla sera, infatti, finite le lezioni private, si reca ai margini della città per una passeggiata in mezzo alla natura. Un giorno, seduto su un ponticello d’irrigazione, si sofferma ad osservare la vallata del Ticino, con il suo fiume e i suoi boschi, notando che, poco distante dalla linea ferroviaria, sorge una piccola capanna sostenuta da palafitte. Dalla finestra, anche se distante, riesce a intravedere la presenza di un uomo e di una donna che stanno mangiando: si tratta di una coppia di boscaioli che, uscendo dalla capanna, si siedono nudi di fronte alla grande vallata. Il corpo della donna, in particolare, emana una luce talmente viva da trasfigurare tutto l’ambiente circostante, creando un’atmosfera soave di armonia e serenità. Questa donna, di nome Eva, è l’immagine di un mondo non triturato dai meccanismi alienanti della società, all’interno dei quali, invece, il maestro Mombelli è costretto a vivere senza la possibilità di sottrarvisi. Eva, dunque, è una figura che, nell’amore libero e in questa vita ai margini campestri della città, rappresenta davvero una possibile rigenerazione sessuale e spirituale. Il suo nome, il suo corpo e la sua luce rimandano inevitabilmente ad una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio: una sorta di paradiso terrestre, rovinato soltanto dalla presenza della capanna, chiaro riferimento a quella realtà sociale che schiaccia l’umanità sotto il peso del guadagno, dei coefficienti, del “catrame”. Quella sorta di paradiso terrestre, ovviamente, come afferma Tiziano Toracca, «è solo una proiezione della mente del maestro e, di fatto, non esiste».[20] Ma ciò non impedisce a Mombelli di continuare a rifugiarsi in quel mondo fantastico, pieno di luce e di pace, cercando di ritrovare, anche solo per un istante, un equilibrio psichico che la società del “miracolo economico” rischia, giorno dopo giorno, di fargli perdere in maniera definitiva. Davanti a quella celeste visione, dunque, ogni condizionamento del quotidiano svanisce; i due protagonisti di questo sogno ad occhi aperti, infatti, vivendo in assoluta libertà e commistione con la natura, annullano totalmente i limiti angusti della realtà.

 

Link_2_C_Il sogno di Eva

(da Il maestro di Vigevano, prima parte, capitolo 17)

 

I due boscaioli, dunque, sono l’emblema di un’umanità che non ricerca il consenso sociale, preferendo alle logoranti leggi del mercato una vita semplice, immersa nella natura e nei piaceri essenziali della quotidianità. Eva, in particolare, rappresenta agli occhi del maestro Mombelli la reale possibilità di una rigenerazione sessuale. Nel corso del romanzo, infatti, il deperimento psichico del protagonista non è determinato soltanto dai condizionamenti imposti dalla società, ma anche da quell’intimità coniugale che, col passare degli anni, diventa sempre più sporadica, abitudinaria e meccanica. Mombelli, di conseguenza, vorrebbe immergersi in un amore pieno, totalizzante e armonioso, come quello vissuto da Eva, arrivando ad esprimere il profondo desiderio di sostituirsi al boscaiolo per iniziare una nuova relazione con la donna amata.

Dopo la morte di Ada, tuttavia, Mombelli giunge a sperimentare sulla propria pelle l’inconsistenza e la vacuità di questi desideri. Incrociando Eva per strada, infatti, scopre con immenso stupore che la donna a lungo bramata non è altro che una nota prostituta di Vigevano, la quale, dopo averlo condotto nel suo appartamento, gli manifesta la sua vera personalità, facendogli comprendere che i suoi atteggiamenti, la sua voce e il suo corpo non hanno nulla di quell’aura sacra e misteriosa da cui apparve circonfusa a Mombelli quando la vide nella valle del Ticino. Il forte senso di repulsione che immediatamente invade il protagonista, di conseguenza, segna la definitiva scomparsa di quelle fantasie consolatorie che avevano dato vigore e linfa vitale alla psiche del protagonista.

Di fronte a questa esistenza assurda e crudele, però, Mombelli non si lascia vincere dall’angoscia e dalla disperazione, ma inizia a rinchiudersi in un atteggiamento sempre più apatico e paralizzato. La sua incapacità di agire, di trovare gli stimoli e le parole giuste per riuscire ad affrontare i diversi ostacoli della vita, di conseguenza, lo porteranno a rifugiarsi, come afferma Mauro Bignamini, all’interno di «fantasie risarcitorie e deliranti»[21] in grado di compensare le mancanze di una vita insoddisfacente. Spesso, infatti, il maestro Mombelli immagina di essere un grande ciclista in grado di gareggiare con Coppi e Bartali battendoli sul tempo.

 

Link_2_D_Fantasie risarcitorie

(da Il maestro di Vigevano, seconda parte, capitolo 12)

 

Il punto d’arrivo a cui giunge la riflessione del protagonista, dunque, è la drammatica consapevolezza di un’esistenza assurda di fronte alla quale ogni tentativo di comprensione è destinato a fallire. Di conseguenza, l’unico atteggiamento praticabile all’interno di questa realtà illogica è l’affidamento passivo ad un flusso vitale destinato a lacerare progressivamente la psiche degli uomini, come ammette, alla fine, lo stesso Mombelli: «Lascio che la vita scorra e io scorro con la vita; scorriamo insieme, finché mi fermerò».[22]

 

2.4.        Il maestro Nanini: follia ed esaurimento definitivo

 

Il maestro Nanini rappresenta un’altra figura rinunciataria e marginalizzata che, a differenza di Mombelli, non ha un ruolo stabile all’interno del mondo scolastico. Egli, infatti, è l’immagine dell’eterno supplente, sempre bocciato ai concorsi, che vive delle disgrazie altrui attendendo fiducioso di essere convocato a scuola nel momento in cui uno dei maestri di ruolo chieda dei giorni di malattia. Spesso gli vengono affidate le ore del doposcuola, ossia attività integrative pomeridiane, vissute da Nanini come un vero e proprio declassamento personale. Quello scolastico, dunque, è un ambiente all’interno del quale non si sente accolto e integrato, vivendo una perenne condizione di subalternità che, in alcuni momenti, lo rende aggressivo nei confronti dei suoi colleghi. È ciò che accade, per esempio, durante l’acceso confronto con il maestro Amiconi. Quest’ultimo, nel corso di una riunione scolastica, afferma di essere stato insignito del titolo di “commendatore” da parte del gran sovrano di Antiochia. Qualche giorno dopo, però, portando a scuola il «Corriere della Sera», Nanini mostra ai colleghi un articolo di Indro Montanelli che denuncia la truffa di quella onorificenza, ottenibile da chiunque per corrispondenza pagando poche migliaia di lire. E così, umiliato davanti a tutti, Amiconi decide di vendicarsi contro il collega, assegnando ai suoi allievi alcuni problemi difficilissimi, che essi dovranno affrontare col maestro Nanini durante il doposcuola. Quest’ultimo, però, non riesce a risolvere gran parte degli esercizi, e così, portando a termine la sua vendetta, Amiconi si reca dal direttore-ispettore Pereghi affermando che Nanini gli rovina la scolaresca distruggendo “la sua opera educativa” (la pompopsa retorica pedagogica è costante tema di derisione da parte di Mastronardi…). Al doposcuola, di conseguenza, il numero degli alunni si riduce sempre di più, e la fama di maestro incompetente comincia a diffondersi. Un giorno, però, sforzandosi di comprendere un problema piuttosto complesso, Nanini sfoga all’improvviso tutto il suo rancore nei confronti della scuola e dei suoi colleghi, compiendo una serie di gesti folli e volgari davanti agli alunni della classe. Successivamente, lasciando la scuola, decide di suicidarsi gettandosi sotto un treno.

 

Link_2_E_La follia del maestro Nanini

(da Il maestro di Vigevano, terza parte, capitolo 10)

 

Nanini, dunque, afferma Ugo Fragapane, «è il vinto per eccellenza».[23] Non si accontenta di scorrere in maniera inerte nel flusso incessante della vita, come il maestro Mombelli, ma al contrario, sentendosi costantemente schiacciato e oppresso, decide di evadere da questa drammatica realtà mediante un atto di autodistruzione, eliminando in un solo istante sé stesso e un’esistenza assurda all’interno della quale è relegato in una condizione di minorità. Ed è proprio attraverso la descrizione diretta e sincera di questa figura così sconvolgente, come quella di Nanini, che il romanzo tocca (ed è l’unico caso assieme alla scena del cimitero, sulla tomba di Ada) una modalità compiutamente tragica, trascinando in un baratro profondo questo personaggio sconfitto, costretto alla precarietà e relegato ai margini della vita sociale. La crisi psichica che ne deriva, dunque, sembra essere l’esito di una constatazione inevitabile: nessuno conosce veramente sé stesso e il mondo assurdo che lo circonda. Il maestro Nanini, di conseguenza, rappresenta davvero «la proiezione più inquieta che lo scrittore lascia di sé».[24] Lo stesso Mastronardi, infatti, come già accennato nell’introduzione, attraverserà vari momenti di pura follia che culmineranno nel suicidio finale, intimo e drammatico desiderio ripreso anche da Pietro, protagonista dell’ultimo romanzo dello scrittore vigevanese: A casa tua ridono.

 

 

Terza parte

La paralisi finale nelle opere dell’ultimo Mastronardi

 

Negli ultimi anni della sua vita Mastronardi si allontanò sempre di più dall’idea di letteratura sostenuta dagli einaudiani, con i quali collaborò fino al 1968, anno del definitivo passaggio alla casa editrice Rizzoli. In quel periodo, infatti, il nuovo obiettivo dello scrittore vigevanese, come afferma Claudia Carmina, fu quello di imboccare una nuova strada, sperimentale, capace di «scardinare la tradizionale rappresentazione dello spazio, del tempo e dei personaggi, imponendo nuove scelte stilistiche».[25] Ciò che lo ossessionava di più, in particolare, erano i piani temporali, l’alternanza dei punti di vista, l’adozione della prima o della terza persona. Il 2 settembre 1967, nell’ultima lettera inviata all’amico Calvino, Mastronardi esplicitò ulteriormente le sue ambizioni di narratore, affermando di voler «passare dal mare dell’oggettività al mare della soggettività dichiarata»,[26] alla ricerca di un linguaggio che fosse funzionale a un più acuto scandaglio dell’interiorità dei personaggi, mettendone a fuoco le inquietudini esistenziali ed esplorando, in questo modo, «l’andirivieni centrifugo degli ondeggiamenti psichici».[27]

 

3.1.        La ballata del vecchio calzolaio

 

Tra i vari racconti scritti in questo periodo, ce n’è uno che permette di verificare il processo evolutivo della scrittura mastronardiana: La ballata del vecchio calzolaio, apparso per la prima volta su «L’approdo letterario» nel 1969 e inserito, nel 1975, all’interno della raccolta intitolata L’assicuratore (edita da Rizzoli). Viene narrata la vicenda di Giuseppe, un ex calzolaio che, da povero artigiano, riesce a diventare un ricco imprenditore.

L’elemento che sancisce un netto contrasto con la produzione letteraria precedente è sicuramente la rinuncia al dialetto: il desiderio principale del protagonista, infatti, consiste nella distruzione della propria origine dialettale, simbolo di un passato legato alla precarietà e alla miseria, evocato più volte grazie alle numerose analessi presenti nel racconto. Attraverso il personaggio di Giuseppe, dunque, Mastronardi è come se stesse rinunciando alle proprie origini, «ai suoi folgoranti inizi che mettevano in scena un dialetto e una violenza integrali».[28] Inoltre, l’impiego dell’infinito al posto dei modi finiti (spesso senza proposizioni), le frequenti ellissi del verbo e il ricorso al sostantivo isolato dovevano servire a comunicare i pensieri del protagonista in modo immediato. In questo racconto, quindi, come afferma Rinaldi, siamo di fronte «allo sforzo di trascrivere il pensiero nel modo più naturale, più scorrevole: prova ne sia che la sintassi anacolutica e perfino le sgrammaticature del linguaggio popolare vengono utilizzate proprio in direzione della spontaneità, della verosimiglianza».[29] La descrizione dettagliata della vita interiore del protagonista, tuttavia, non lascia trapelare particolari sentimenti ed emozioni, solitamente preclusi ai personaggi di Mastonardi. L’esistenza di Giuseppe, infatti, è focalizzata esclusivamente sul lavoro e viene rappresentata da gesti ripetuti, meccanici e scomposti. Il suo unico desiderio, capace di dare un senso alle proprie giornate, è quello di vedere, un giorno, il figlio Carlo conseguire il titolo di ragioniere. Nel corso delle vicende, di conseguenza, il protagonista «non riesce a trovare il senso degli atti di tutta una vita trascorsa sotto il giogo del lavoro»,[30] vivendo una vita sempre più solitaria e paralizzata. Avverte in continuazione l’atmosfera pesante che lo circonda, fino ad arrivare a quel ricordo allucinatorio che chiude il racconto, caratterizzato da una serie di domande formulate in passato dalla moglie Giuditta e destinate a rimanere senza risposta.

 

Link_3_Il drammatico epilogo de La ballata del vecchio calzolaio

 

Questa impotenza di fronte alla vita, dunque, viene ripetutamente affiancata dall’inquietante presenza della morte, unica compagna di viaggio in un mondo abitato da uomini sempre più malinconici e disperati. Il ghigno finale della moglie Giuditta, infatti, è l’immagine plastica della folle disperazione che investe ogni singola giornata dei personaggi, conducendoli, di conseguenza, ad una profonda paralisi esistenziale destinata a non trovare redenzione.

 

3.2.        A casa tua ridono

 

Quella forte ambizione di scrivere qualcosa di assolutamente nuovo conduce Mastronardi, dopo sette lunghi anni di attesa, alla conclusione del suo ultimo romanzo, A casa tua ridono, pubblicato dalla Rizzoli nell’aprile del 1971. Anche in quest’opera il linguaggio sperimentale prende il sopravvento: vengono riprese, infatti, tutte le tendenze stilistiche già adoperate nella Ballata del vecchio calzolaio, introducendo, inoltre, la tecnica della ripetizione, attraverso cui «il romanzo riprende episodi e pagine già trascorse e le scrive di nuovo, identiche, per evocarne in questo modo automatico il ricordo».[31] La questione temporale, dunque, è una delle tematiche più importanti dell’intero romanzo. Per questo motivo Giorgio Bocca, durante un’intervista a Mastronardi realizzata nell’agosto del 1971, gli chiese le motivazioni di quella particolare scelta stilistica riguardante il tempo del racconto: «Il nuovo nel tuo libro è anche la ricerca di un tempo narrativo diverso da quello tradizionale. I tuoi personaggi sono sempre, a un tempo, nel contemporaneo e nel passato. Cosa è Lucio, una necessità vera o un virtuosismo?».[32] La risposta di Mastronardi fu la seguente: «No, è soltanto la verità. Il problema del tempo in letteratura è il problema centrale, decisivo. Forse che l’uomo vero, qualsiasi, vive davvero in un tempo da orologio? O non piuttosto in un continuo passare dal vivere al ricordare, dal sentire al risentire?».[33]

In questo romanzo, inoltre, scompare la precisa connotazione geografica e socio-economica che aveva caratterizzato la trilogia di Vigevano. Mastronardi, infatti, decide di eliminare dal racconto ogni elemento di contingenza al fine di dargli una risonanza più ampia, un valore più generale: non c’è più, dunque, un calzolaio, un maestro o un meridionale, ma semplicemente un uomo che vive in qualche località non rintracciabile sulle carte. La storia, tuttavia, è ancora una storia di sconfitte e umiliazioni, di equivoci e illusioni, e come tale riprende il modulo dei libri precedenti, estremizzandolo nei contenuti e nello stile. Pietro, il protagonista del romanzo, viene presentato fin dalle prime pagine come un ragazzo estremamente vulnerabile e fragile, incapace di difendersi dall’accusa di furto che Claudia, una sua ricca compagna di classe, muove contro di lui, vendicandosi così dell’umiliazione un tempo subita dalla madre di Pietro. Costretto a patire le continue molestie da parte dei suoi coetanei, il ragazzo decide di abbandonare lo studio e di gettarsi nel mondo del lavoro. Anche qui, tuttavia, si trova ad affrontare nuove e pesanti umiliazioni: a causa dei suoi atteggiamenti maldestri e ingenui, infatti, viene licenziato dodici volte. E così, costantemente alla ricerca di un nuovo impiego, Pietro decide di andare a lavorare come garzone presso l’osteria di Angela e, soddisfatto del proprio incarico, inizia a sentirsi finalmente una persona realizzata. Un giorno, però, viene accusato da Angela di aver rubato cinquecento lire. Ancora una volta, come gli era già capitato qualche anno prima a scuola, Pietro non ha il coraggio di rispondere, preferendo rifugiarsi nei suoi pensieri. Alla fine Angela riesce a trovare la moneta, scusandosi con Pietro, ma quest’ultimo, fortemente scosso da quell’accusa infamante, decide di licenziarsi. Successivamente, venendo a sapere che il furto a scuola era stato architettato da Claudia ai suoi danni, cerca di mettere a frutto questa sua innocenza chiedendo al padre della ragazza di essere assunto nella sua azienda. Ottenuto il posto di lavoro, Pietro riesce a sposare Claudia, diventando così il padrone dell’industria. Anche da ricco padrone industriale, tuttavia, è costretto a subire le umiliazioni di Celeste, un operaio caporeparto: il giorno stesso in cui Pietro festeggia il versamento del suo centesimo milione in banca, infatti, Celeste si reca nel suo ufficio riferendogli le lamentele degli operai, i quali, a causa delle nuove macchine introdotte da Pietro per ridurre gli infortuni sul lavoro, si sentono umiliati e spersonalizzati, costretti a compiere semplici gesti elementari senza alcuna inventiva. Pietro rimane colpito dalle parole di Celeste che, come una spada affilata, lo feriscono nell’orgoglio. Fino a quel momento, infatti, si sentiva piuttosto appagato della gestione aziendale: non c’erano stati incidenti, aveva rinnovato ogni impianto e, soprattutto, i dipendenti, in caso di malattia, potevano stare a casa qualche giorno in più senza che la produzione ne soffrisse. Come se non bastasse, un giorno Pietro si imbatte casualmente nella lettura del diario del figlio Luigi, venendo a conoscenza di alcune umilianti verità. Scopre, per prima cosa, che la moglie era stata sul punto di tradirlo, come dichiarato esplicitamente in una lettera che Claudia aveva inviato alla posta della rivista alla quale era abbonata. Viene a sapere, inoltre, che i suoi genitori avevano chiesto prima a Claudia e poi al commendatore una somma di denaro per poter costruire la loro nuova casa. Infine si sofferma a leggere alcune pagine del diario riguardanti il presunto orientamento omosessuale di Luigi. Quest’ultimo, infatti, a causa dei suoi atteggiamenti effeminati e del suo forte legame di amicizia con Filippo Barnocco, aveva turbato le certezze maschili del padre, il quale non perdeva occasione per rinfacciargli la gravità dei suoi comportamenti, fino ad arrivare, un giorno, a condurlo nella casa della signora Elvira per cercare di renderlo uomo. Luigi, però, riuscì a fuggire e Pietro, immediatamente, decise di telefonare al padre di Filippo per spiegargli la situazione. Da quel momento i due amici non si parlarono più e Luigi cadde in un dolore profondo. Terminata la lettura del diario, Pietro giunge alla drammatica conclusione che tutta la sua vita, sia lavorativa che familiare, non è stata altro che un accumulo di umiliazioni e sconfitte, le quali, in fondo, rappresentano la sua unica, vera, eredità. E così, paralizzato da questa consapevolezza, tenta il suicidio gettandosi nel fiume. Pietro, tuttavia, viene miracolosamente salvato dal padre che, proprio in quel momento, stava navigando nel fiume con la sua barca. Risvegliandosi nella corsia dell’ospedale, viene visitato dalla domestica Rosa, la quale gli racconta l’accaduto e gli rivela che «a casa vostra ridono!».[34] In preda al delirio, Pietro inizia a ripetere ossessivamente quest’ultima frase intervallandola ai ricordi del suo passato, come riportato nell’ultimo link sottostante. L’unica speranza che gli rimane, a questo punto, è quella di tornare dai suoi genitori, aggrappandosi, di conseguenza, ad un progetto di vita nuovamente precario e umiliante.

 

Link_4_Il delirio di Pietro in A casa tua ridono

 

È evidente, dunque, che le riflessioni, i pensieri e i ricordi effettuati dai personaggi delle ultime opere di Mastronardi non ci restituiscono un’interiorità stabile, profonda e riflessiva, ma semplicemente lo sfogo di una psiche lacerata dai tormenti della vita, incapace di trovare spiragli di luce e rinascita. Il linguaggio utilizzato, quindi, riflette perfettamente la drammatica paralisi esistenziale di un mondo in cui la ricerca di senso affonda nella frustrazione e approda al delirio.

 

 

 27 giugno 2022

 


[1] Gian Carlo Ferretti, Il mondo in piccolo, in Per Mastronardi. Atti del convegno di studi su Lucio Mastronardi, a cura di M. Antonietta Grignani, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1983, p. 23.

[2] Ibidem.

[3] Rinaldo Rinaldi, Romanzo come deformazione. Autonomia ed eredità gaddiana in Mastronardi, Bianciardi, Testori, Arbasino, Mursia, Milano, 1985, p. 9.

[4] Gianni Turchetta, “La musica è sempre quella: danè fanno danè”. Il mondo piccolo globale del Calzolaio di Vigevano, in «L’ospite ingrato», n.8, luglio-dicembre 2020, p. 270.

[5] Ibidem.

[6] Massimiliano Tortora, Quando l’incipit chiude il romanzo. La claustrofobia del Calzolaio di Vigevano, in «L’ospite ingrato», n.8, luglio-dicembre 2020, p. 97.

[7] Rinaldo Rinaldi, Romanzo come deformazione. Autonomia ed eredità gaddiana in Mastronardi, Bianciardi, Testori, cit, p. 13.

[8] Ibidem.

[9] Italo Calvino, Ricordo di Lucio Mastronardi, in Per Mastronardi. Atti del Convegno di studi su Lucio Mastronardi, a cura di M. Antonietta Grignani, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1983, p. 13.

[10] Gianni Turchetta, “La musica è sempre quella: danè fanno danè”. Il mondo piccolo globale del Calzolaio di Vigevano, cit., p. 280.

[11] Lucio Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano, in Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano, Einaudi, Torino, 2016, p. 179.

[12] Ibidem.

[13] Rinaldo Rinaldi, Romanzo come deformazione. Autonomia ed eredità gaddiana in Mastronardi, Bianciardi, Testori, cit, p. 12.

[14] Ivi, p. 11.

[15] Massimiliano Tortora, Quando l’incipit chiude il romanzo. La claustrofobia del Calzolaio di Vigevano, cit., p. 95.

[16] Cfr. Mauro Bignamini, Alienazione sociale e discorso della follia nel «Maestro di Vigevano», in «Strumenti critici», n. 3, settembre-dicembre 2014, p. 473.

[17] Ivi, p. 465.

[18] Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, in Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale Vigevano, Einaudi, Torino, 2016, p. 159.

[19] Cfr. Mauro Bignamini, Alienazione sociale e discorso della follia nel «Maestro di Vigevano», cit., p. 466.

[20] Tiziano Toracca, «E mi venne in mente un racconto di Tolstoi che tanto mi aveva impressionato da bambino». La scissione del Maestro di Vigevano, in «L’ospite ingrato», n.8, luglio-dicembre 2020, p. 165.

[21] Mauro Bignamini, Alienazione sociale e discorso della follia nel «Maestro di Vigevano», cit., p. 462.

[22] Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano, cit., p. 54.

[23] Ugo Fragapane, Tecnica e linguaggio di Mastronardi, in Letteratura italiana. Vol X: Novecento – I contemporanei, a cura di Giovanni Grana, Marzorati, Milano, 1979, p. 9230.

[24] Ibidem.

[25] Claudia Carmina, “Il tentativo di imboccare una nuova strada”. I racconti di Lucio Mastronardi, in «L’ospite ingrato», n.8, luglio-dicembre 2020, p. 209.

[26] Ivi, p. 208.

[27] Ivi, p. 224.

[28] Rinaldo Rinaldi, Romanzo come deformazione. Autonomia ed eredità gaddiana in Mastronardi, Bianciardi, Testori, Arbasino, cit., p. 24.

[29] Ivi, pp. 25-26.

[30] Claudia Carmina, “Il tentativo di imboccare una nuova strada”. I racconti di Lucio Mastronardi, cit., p. 225.

[31] Rinaldo Rinaldi, Romanzo come deformazione. Autonomia ed eredità gaddiana in Mastronardi, Bianciardi, Testori, Arbasino, cit., p. 27.

[32] Giorgio Bocca, A casa tua ridono, «Il Giorno», 11 agosto 1971, in Mastronardi e il suo tempo, a cura di Piersandro Pallavicini e Antonella Ramazzina, Edizioni Otto/Novecento, Milano, 1999, p. 107. 

[33] Ivi, p. 108.

[34] Lucio Mastronardi, A casa tua ridono, Rizzoli, Milano, 1971, p. 102.