Repertori territoriali di fonti statutarie: bilanci, programmi e iniziative in corso

San Miniato, 10-11 settembre 1994

Cronaca di Enrico ANGIOLINI, Repertori territoriali di fonti statutarie: bilanci, programmi e iniziative in corso (San Miniato, 10-11 settembre 1994), «Nuova Rivista Storica», anno LXXIX, fascicolo II (1995), pp. 409-424.

Il 10 e l’11 settembre 1994 si è tenuto a San Miniato (PI), presso il Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo, un incontro informale sulla situazione, sulle prospettive e sulle metodologie delle repertoriazioni territoriali di fonti statutarie a cui hanno preso parte numerosi studiosi, di formazione sia storica che giuridica, provenienti da tutta l’Italia.

Questo incontro è nato sulla scia del convegno sulle fonti normative tenutosi l’anno scorso a Cento (FE): La libertà di decidere: realtà e parvenze di autonomia nella normativa locale del Medioevo, a seguito del quale spontaneamente molti dei relatori impegnati in quell’occasione hanno deciso di mantenere vivi i contatti tra loro; questo per continuare a confrontarsi sui temi della metodologia di edizione e di studio comparativo di queste fonti, per scambiarsi liberamente utili esperienze acquisite attraverso le edizioni e le repertoriazioni in corso o già ultimate e infine, in prospettiva futura, per incominciare a pensare seriamente ad una struttura permanente specificamente dedicata alla materia statutaria. La forma, la sede e le finalità di questa struttura sono ancora da definire e proprio questo tipo di incontro seminariale e informale, che era già stato preceduto da due incontri tenutisi presso le università di Firenze e di Bologna, rappresenta l’occasione per definire meglio i contorni di questo obiettivo futuro.

In linea generale questa struttura vorrà anzitutto essere una struttura di servizio, che si assuma il compito di informare - eventualmente attraverso un apposito bollettino - e di promuovere il confronto, senza darsi da subito organigrammi o strutture gerarchiche e senza volere occupare spazi già egregiamente riempiti da altri. Perciò questo incontro samminiatese è stato dedicato ad un argomento di immediata utilità per i fruitori delle fonti statutarie, ovvero allo stato delle repertoriazioni di tali fonti, invitando chi ha concluso tali esperienze a tracciarne un bilancio e a presentare i problemi incontrati, e chi a simili progetti sta lavorando a riferire sull’avanzamento dei lavori.

Così, dopo una breve introduzione di Rolando Dondarini (Bologna), ha preso la parola per primo Gian Savino Pene Vidari (Torino) che ha ricordato come, nell’area piemontese, la questione della repertoriazione degli statuti si sia già posta, in tutt’altra forma, già dalla metà del Settecento, quando cioè gli statuti vennero raccolti per motivi eminentemente pratici in quanto diritto positivo vigente, destinato a rimanere tale, soprattutto per le questioni successorie, fino alla Restaurazione. L’Ottocento piemontese è stato provvido di studi statutari, e ha offerto figure come Bollati, autore di gran parte delle schede per l’area piemontese confluite nella Bibliografia degli Statuti dei Comuni dell’Italia Superiore di Leone Fontana, e come Fontana stesso, anch’egli piemontese; non così ricco è stato il Novecento, che ha visto solo censimenti di respiro locale, come quello di Frola per il Canavese edito nel 1918, fino all’attuale repertoriazione, intrapresa nel 1989 e coordinata dalla Deputazione Subalpina di Storia Patria e dall’Università di Torino, che è ora in dirittura d’arrivo.

Quest’opera ha preso come ambito di riferimento territoriale l’attuale Regione Piemonte, pur nella consapevolezza della relativa antistoricità di una simile divisione, che obbliga a prendere in considerazione anche la Valle d’Aosta, che ha un diritto consuetudinario suo peculiare, e il Novarese, che gravita storicamente verso la Lombardia. Il censimento ha inteso innanzitutto fotografare la situazione attuale, colla compilazione di una scheda per ogni singolo manoscritto esistente; queste schede poi, raggruppate per località, dovrebbero permettere di razionalizzare il piano delle edizioni, ora caratterizzato da sporadiche iniziative locali, e soprattutto di esaminare comparativamente queste fonti. Casi particolari problematici sono stati rappresentati dai bandi politici e campestri, fonte peculiare del mondo istituzionale piemontese, che sono stati presi in considerazione solo se interinati dal Senato, e dalle numerose edizioni di vigenza, cioè dalle edizioni condotte a stampa a partire dal Cinquecento su manoscritti di statuti ancora in vigore, che risultano più o meno pesantemente divergenti rispetto ai manoscritti senza che vi sia traccia di alcuna deliberazione riformatrice del testo. Così è per l’edizione degli statuti di Mondovì del 1547 e per quelli di Alessandria, dove resta solo l’edizione a stampa commissionata a stampatori privati che reca addirittura numerose righe bianche; un caso a sé è poi quello di Chieri, i cui numerosi manoscritti sono fortemente contrastanti fra di loro.

In conclusione, a giudizio di Pene Vidari, è fondamentale riaffermare la necessità dello studio comparativo delle redazioni statutarie che si formano anche per processi di influenza ed imitazione tra aree, contrastando la forzatura metodologica che, volendo fare dello statuto a tutti i costi un diritto speciale, locale, non comparabile, ha di molto ritardato gli studi in materia.

Rodolfo Savelli (Genova) ha poi illustrato lo stato dei lavori per il Repertorio degli statuti comunali liguri, attualmente in corso. Si è fatto ricorso a una scheda estremamente sintetica, che desse conto di titolo, datazione, consistenza e dislocazione dei manoscritti, menzione in altri repertori, edizioni e studi; il tutto si è tradotto finora nella redazione di 650 record di Data Base, comprendenti, fra le altre, anche circa settanta edizioni di statuti condotte in regime di vigenza. Le edizioni statutarie liguri hanno purtroppo cattiva tradizione, con edizioni del passato, soprattutto degli Historiæ Patriæ Monumenta, che superano ampiamente i limiti ipotizzabili della bizzarria umana.

Tra i problemi in cui ci si è imbattuti più di frequente, va indubbiamente segnalata la difficile identificazione dello statuto a causa dell’imprecisa datazione (è il caso delle Constitutiones campestres di Albenga del 1573); inoltre, se pur all’inizio si era deciso di escludere con sicurezza tutti gli statuti di singoli uffici della Dominante, poi si sono fatti rientrare ad esempio gli statuti di mercanzia, rivelatisi fondamentali per gli stretti rapporti della tradizione giuridica genovese col diritto mercantile, lasciando invece fuori un ente dalle sicure peculiarità come il Banco di San Giorgio. Gli stessi statuti di Genova si presentano all’apparenza particolarmente scarni proprio perché, in prosieguo di tempo, si vengono scorporando le varie competenze, poi trattate in testi specifici e separati per i vari uffici.
Interessante si mostra infine la distribuzione delle redazioni sul territorio e nel tempo, che mostra come un’ampia zona attorno a Genova rappresenti un «deserto statutario» dovuto all’enorme influenza genovese.

Ettore Dezza (Milano), illustrando la situazione della Lombardia, si è pienamente riconosciuto nelle osservazioni e nei problemi esposti da chi lo aveva preceduto, mostrando anche come l’attuale progetto di repertoriazione statutaria in corso per l’area lombarda sia allineato, per i suoi criteri, a quanto già discusso. Anche in questo caso l’ambito territoriale preso in considerazione è quello della Lombardia attuale, con qualche necessario sconfinamento, dettato da ragioni storiche, verso il Canton Ticino e la provincia di Piacenza; la schedatura per il territorio milanese è già a buon punto, avendo oltrepassato le mille schede, e si sta cercando nel frattempo di portare avanti il progetto di microfilmatura integrale degli statuti lombardi.

Un’altra prospettiva di rilevante interesse è rappresentata dalla possibile ricostruzione degli statuti perduti attraverso la redazione di repertori di citazioni statutarie da compiere utilizzando archivi pubblici e privati, cronache e storiografia erudita locale. Un lavoro di questo tipo sarebbe particolarmente necessario in casi come quelli di Voghera e Tortona, dove la prima e unica redazione statutaria giunta fino ad oggi è anche l’ultima di una precedente serie perduta ma variamente documentata.
Maria Grazia Nico Ottaviani (Perugia) e Patrizia Bianciardi (Siena) hanno portato il contributo di un’esperienza che, seppur formalmente «conclusa», come quella del Repertorio degli statuti comunali umbri, resta sempre suscettibile di integrazioni, fintanto che gli archivi non saranno inventariati e riordinati al punto da garantire una ragionevole certezza di avere individuato tutto l’esistente; certezza che attualmente resta sempre e comunque del tutto irraggiungibile. Inoltre, per la sua stessa natura, molto materiale deliberativo dei comuni dev’essere certamente disperso nei fondi notarili, che non si possono spogliare sistematicamente a tal fine.

Perciò è tanto più importante che fiorisca il dibattito su metodi, materiali e strumenti di repertoriazione: per avere un utile confronto sulle scelte, spesso pesanti e definitive, che deve compiere chi sta compilando un repertorio di questo genere, e per cercare di realizzare anche in occasione dei repertori «un concorso di competenze tra storici senza specificazione e storici del diritto e ancora diplomatisti», come auspicato in passato da Severino Caprioli.

Anche per il repertorio umbro si è preferito prendere in considerazione l’attuale estensione amministrativa della regione ed escludere in partenza gli statuti di settore come quelli degli uffici dei comuni; è inoltre evidente che serie anche consistenti di rubriche si possono reperire nelle serie dei Consigli, nei Diplomatici e nei fondi giudiziari, ma non è assolutamente plausibile l’intrapresa dello spoglio di simili materiali a tal fine. Si sono invece inserite aggiunte e riforme, nonché le grazie e le costituzioni pontificie, che giocano un ruolo fondamentale nelle vicende istituzionali umbre.

Tra i punti fermi che si possono già fin d’ora considerare acquisiti alla repertoriazione statutaria sulla base dell’esperienza umbra, vi dev’essere la tendenza ad impostare schede agili e di facile lettura, al fine di rendere veramente il repertorio uno strumento di immediata utilizzazione, come è stato fatto in questo caso: titolo — originale o meno —, datazione, lingua utilizzata, tipo di supporto materiale, numero dei libri, note tipografiche per le edizioni a stampa, luogo di conservazione e bibliografia — tanto i repertori quanto gli studi e le edizioni — sono elementi perfettamente in grado di individuare una redazione statutaria.

Dopo di che non si può che applicarsi con duttilità e senza preclusioni agli inserimenti, alle esclusioni e agli altri problemi specifici che sarà la documentazione stessa a porre: il numero delle carte e il formato dei testi, ad esempio, sono dati di interesse immediato ma non sempre facilmente ricostruibili per testimoni spesso compositi, frutto di aggiunte, inserzioni di documenti e fascicoli diversi, rilegature di materiali anche di diversa misura. La rilevazione di miniature e decorazioni, poi, richiederebbe già di per sé competenze specifiche, a meno di non dare conto della loro presenza soltanto sommariamente.

Infine gli indici dovranno anch’essi essere elaborati al fine di divenire un sicuro e flessibile strumento di lavoro, permettendo di incrociare tra loro tipologia, cronologia e distribuzione geografica delle diverse redazioni statutarie.

Elsa Mango Tomei (Zurigo) ha innanzitutto illustrato le vicende istituzionali della Svizzera Italiana, che non ha mai presentato alcuna particolare omogeneità: se sono sostanzialmente parallele le vicende del Moesano, della Bregaglia e del Poschiavino — le comunità italiane che con discreta autonomia entrarono nelle leghe dei Grigioni —, l’attuale Canton Ticino, dopo essere stato a lungo diviso tra Como e Milano, entrò nell’orbita elvetica a partire dal XV secolo e si divise in baliaggi del cantone di Uri o di Svitto o, ancora, in baliaggi comuni dei cantoni sovrani, non senza aree privilegiate come quella della pieve di Lugano, rimanendo in tale situazione fino alla sua costituzione come cantone sovrano nel 1803.

In tale contesto rari sono gli statuti di comunità maggiori, e poche le edizioni a stampa di statuti nella loro vigenza, tutte nei Grigioni, in quanto nel Ticino i cantoni sovrani ne avversavano la stampa. Il primo a occuparsene dal punto di vista della ricerca storica fu Emilio Motta che, a partire dagli anni Settanta del XIX secolo, ne curò diverse edizioni non critiche. Seguirono poi i fondamentali lavori di Andreas Häusler, che fornì numerose edizioni critiche, e di Alessandro Lattes, che dimostrò la diretta derivazione degli statuti di Lugano da quelli di Como. Non si hanno studi sistematici per i Grigioni Italiani, e molte edizioni sono disperse su pubblicazioni locali o condotte senza metodo.

Attualmente non sono previste iniziative comuni di edizione o repertoriazione, che si presenterebbero inoltre particolarmente difficili, in quanto neppure l’Archivio Cantonale di Bellinzona ha uno specifico fondo statutario, rimanendo gli statuti aggregati alle carte delle singole comunità.

Franco Colombo (Trieste) ha innanzitutto ricordato come la storia dell’Istria e la storiografia di materia istriana siano state vittime, nel secondo dopoguerra, di trascuratezza e superficialità, se non di una vera e propria rimozione; quasi come se la storia recente della regione giustificasse l’oblio del suo passato.

Ripercorrere la storia dell’Istria vuol dire ricostruire la lunghissima vicenda di una terra di confine e quindi di incontro e di scontro di popoli: dalla conquista romana che, raggiunto il Risano, include quasi tutta la penisola nella regio X di Venetia et Histria, al permanere dell’unità della regione attraverso le dominazioni gota, bizantina, longobarda e franca — quando l’introduzione del diritto franco provocò le proteste che animano il placito del Risano — e poi l’appartenenza al ducato di Baviera e quindi di Carinzia. Con Enrico III l’Istria divenne marca di cui fu poi investito il patriarca di Aquileia; ma l’Istria patriarchina si ridusse via via alla costa, poi passata a Venezia, mentre l’interno, come contea di Pisino, finì all’Austria, e la spartizione della penisola tra austriaci e veneziani durò fino al 1797.

Gli altri futuri protagonisti della storia dell’Istria, gli Slavi, fecero la loro comparsa nell’alto medioevo: gli antenati degli Sloveni apparvero nel 599 come predoni al seguito degli Avari, poi furono mercenari e si insediarono infine come coloni nelle terre abbandonate e spopolate dalla malaria; i Croati si affacciarono sul Quarnero nel corso del IX secolo. Iniziava così la compresenza di diversi gruppi etnici e linguistici che, a parte il progressivo calo della componente tedesca, si riflette tuttora nell’attuale tripartizione politica dell’Istria che assegna Trieste — ancorché la sua istrianità si sia molto attenuata col’istituzione del porto franco — e Muggia all’Italia, il territorio di Capodistria alla Slovenia e il resto della penisola, verso sud, alla Croazia.

In virtù di questa storia così peculiare, gli statuti istriani sono di particolare ricchezza e complessità, frutto dell’articolato incontro, fino alla fusione, delle diverse forme di diritto proprie dei diversi popoli: notizie di «statuta de novo facta» concessi dal patriarca di Aquileia si hanno per il XIII secolo, ed è del 1274 un frammento di statuto di Pirano recentemente edito; parimenti editi, nell’edizione ottocentesca di Pietro Kandler, che curò anche il Codice diplomatico istriano, sono gli statuti più antichi conservatici per Trieste.

Negli ultimi anni l’interesse per l’edizione di statuti è stato vivo in tutta l’Istria; ma spesso quanto si realizza è condizionato dall’elemento linguistico, per cui gli studi in sloveno o in croato rimangono poco accessibili agli studiosi italiani (solo lo statuto di Capodistria ha l’introduzione trilingue), o da quello latamente ideologico, per cui le visioni nazionalistiche distorcono la percezione della storia istriana riducendola a una mera contrapposizione tra gruppi etnici.

Sul piano metodologico bisogna lamentare che molti testi statutari siano stati editi senza aggiunte; qualsiasi iniziativa di repertoriazione richiederebbe poi un coordinamento generale tra tutti gli archivi e le biblioteche sparsi nei tre stati.

Michele Zacchigna (Udine) ha illustrato come in area friulana risulti ancora difficile tracciare una sintesi del fenomeno statutario, anche per il persistere, a livello della storiografia locale, del mito di una fondamentale unità della patria friulana e patriarchina, quando questa invece mostra, a ben guardare, tendenze contrastanti in aree ben individuabili. Questo ha manifesta influenza sulle tipologie statutarie, che si presentano secondo modelli omogenei soltanto all’interno delle singole aree subregionali.

La produzione statutaria friulana è in generale tardiva, e frutto non del dispiegarsi di forme di autonomia e dinamismo urbano medievali bensì, piuttosto, della stabilizzazione di poteri signorili radicati nelle campagne e senza antecedenti nel Medio Evo o, più ancora, della decisa azione di normalizzazione da parte della Serenissima, che tende a ristabilire i testi delle consuetudini, spesso fissate in maniera rapsodica dai notai, per un’esigenza di razionalizzazione del suo controllo.

Si hanno così per lo più statuti di centri dal debole carattere urbano (Cividale, Gemona, Sacile, Portogruaro), che non si proiettano giurisdizionalmente su di un districtus, e molti statuti di centri castellani e rurali; non mancano però peculiarità subregionali come quelle del Friuli centrale, dove Udine, che fino a tutto il Trecento non emerge sugli altri centri castellani, conosce un dinamismo economico e demografico che si arresta soltanto vero gli anni Trenta del XV secolo, sconvolgendo gli equilibri dei poteri signorili consolidati nel territorio circostante.

Discorsi ancora diversi vanno fatti per l’alto Friuli e l’area pedemontana tarcentina, ben presto emarginati dal proiettarsi verso la pianura dei ceti dominanti e dello sviluppo demografico, e per i territori occidentali oltre il Tagliamento, dove non si ha un dinamismo urbano rilevante — neanche Pordenone può giocare un ruolo simile — e la tendenza è a gravitare progressivamente verso l’area veneta. Qui la prima produzione statutaria era avvenuta sotto l’egida dei patriarchi, ma la produzione successiva mostra tutti i caratteri di una venetizzazione incipiente.

Dal punto di vista della ricerca, l’erudizione locale ha compiuto un dignitoso lavoro di scavo archivistico, che non dovrebbe lasciare più molto da scoprire; manca del tutto però, finora, uno studio generale — anche per le predette difficoltà di riduzione ad unum della statutaria friulana — o un progetto di inventariazione e studio a tappeto delle fonti normative in Friuli.

Augusto Vasina (Bologna) ha presentato lo stato di avanzamento dei lavori per il Censimento degli statuti comunali in area emiliano-romagnola attualmente in corso e che uscirà a cura dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, illustrando le metodologie e la tipologia di scheda utilizzate per quest’opera. Il momento è particolarmente adatto per una impresa del genere, grazie all’ambiente favorevole agli studi di statutaria creato, in generale, dal convegno di Cento del 1993 su La libertà di decidere e, in particolare, per l’area emiliana e romagnola, dalle relazioni specifiche tenute a quel convegno da Bruno Andreolli sul Modenese, da Enrico Angiolini sulla Romagna e da Rolando Dondarini sul Centese.

All’indietro nel tempo, la statutaria di quest’area conta poche edizioni a stampa antiche, sporadiche e disegualmente diffuse, e pochi studi essenziali ed edizioni, di cui molte inficiate da limiti qualitativi evidenti. Solo col tardo Ottocento si è avviato un processo di emulazione tra le deputazioni provinciali che ha prodotto le edizioni degli statuti più antichi (segnatamente quelli ravennati) ed ha reso la regione molto presente nel Corpus Statutorum Italicorum con le edizioni rese per Forlì, Imola, il Frignano e Predappio; questo prima di ritornare ad una attività frammentaria e diseguale.

Il gruppo di lavoro, che svolge la sua attività presso il Dipartimento di Paleografia e Medievistica dell’Università di Bologna e conta attualmente circa trenta persone impegnate, si propone di censire la realtà statutaria emiliana e romagnola tra il tardo XII e la metà del XVI secolo, applicando questi limiti con elasticità ma anche con sistematicità.

Il modello di scheda comprende sette voci per descrivere sul piano formale e sostanziale ogni archetipo o edizione nella loro individualità, dando conto di: titolo — originale o meno —, cronologia redazionale, centri o ambiti di riferimento territoriali, descrizione dei contenuti normativi (testo del proemio, tenore della prima rubrica, explicit, articolazione del testo in libri e rubricari degli statuti inediti, purché di dimensioni ridotte), fortuna ed altre notizie (segnatura e descrizione dei testimoni, luogo e stato di conservazione, formato e numero delle carte, materiali scrittori, caratteri grafici e linguistici, presenza di miniature, stratificazioni normative seriori), profilo sintetico della raccolta statutaria — nel suo significato e valore storico complessivo — e bibliografia analitica, contenente eventuali edizioni, studi e riferimenti nei repertori, in ordine cronologico. Si è voluto evitare, in generale, di essere troppo selettivi, ed eventuali informazioni aggiuntive potranno essere recuperate redigendo introduzioni apposite per le singole schede; all’opera sarà allegato un apparato cartografico sulla distribuzione spaziale e temporale delle redazioni statutarie che illustrerà, verosimilmente, come, col semplificarsi della carta geopolitica della regione anche la produzione statutaria finisca coll’attenuarsi. Anche per questo si è deciso di allargare il campo d’indagine al Cinquecento, laddove i testimoni precedenti manchino del tutto.

Attualmente è in corso la verifica diretta dei testi negli archivi e nelle biblioteche della regione e, al di fuori di essa, soprattutto di Roma, per la strettissima connessione istituzionale con quella città che è propria della Romagna; finora sono stati individuati circa 160 manoscritti, e tra essi 108 sono a tutt’oggi sicuramente inediti. Due sole redazioni statutarie del tardo XII secolo (di Piacenza e di Ferrara) precedono la pace di Costanza; 13 sono le raccolte statutarie del XIII secolo, 54 quelle del XIV secolo — di cui 19 urbane, in una età in cui l’attività di redazione statutaria è sollecitata dai rivolgimenti politici —, 80 quelle del XV secolo — di cui 12 urbane —.

Grande dinamismo statutario si ha poi nelle subaree interessate dalle egemonie estense e fiorentina: la Romagna toscana, in particolare, conta una rilevante produzione di statuti rurali approvati dalla dominante (oltre una trentina).

In conclusione si può già fin d’ora affermare come non si riscontrino vistose soluzioni di continuità cronologica nei processi normativi dei centri urbani e rurali emiliani e romagnoli, mentre manca invece una continuità territoriale, persistendo aree quasi del tutto prive di tale produzione, come il Bolognese e il Ferrarese, accanto al zone, soprattutto collinari, dove il processo di formazione e revisione statutaria è particolarmente intenso: così è per il Forlivese, per il Frignano, per il vicino Montefeltro — che presenta l’unico di statuto dal respiro in apparenza subregionale — e per il caso peculiare rappresentato da San Marino.

Tra i codici riscoperti in occasione di questa indagine, vanno segnalati gli statuti quattrocenteschi di Sarsina, che erano inventariati presso l’Archivio di Stato di Firenze sotto l’antico nome di Bobium, portato da quel centro.

Enrica Salvatori (Pisa) ha iniziato ricordando le osservazioni di Giovanna Petti Balbi sulla trascuratezza usata dalla storiografia nei confronti della Lunigiana, vista sempre come una terra senza individualità e confini ben riconoscibili, come semplice terreno di scontro dei vescovi di Luni, dei marchesi Malaspina e delle varie forze esterne, senza aver particolare riguardo, poi, alle sue fonti statutarie, disperse negli archivi dei suoi diversi referenti istituzionali.

Il primo tentativo di sistemazione storiografica per quest’area si deve a Giovanni Sforza e al suo Saggio di una bibliografia storica della Lunigiana, del 1864; dopo di che hanno proliferato le edizioni più o meno affidabili, ma soltanto adesso l’Accademia Cappellini della Spezia sta curando l’edizione del Corpus statutario della Lunigiana. L’opera, preziosissima, è però priva di un’introduzione storica che affronti anche soltanto il problema, centrale, della consistenza territoriale della Lunigiana nel suo divenire storico.

Per ora si sta procedendo alla redazione di schede con criterio archivistico e non geografico, non senza problemi di omogeneità; le schede in corso di realizzazione danno conto della località cui appartiene la redazione e del titolo di questa, cui fanno seguito: collocazione archivistica, datazione redazionale anche con le eventuali aggiunte, età della copia, descrizione codicologica e dei contenuti, edizione integrale del proemio e bibliografia.

Duccio Balestracci (Siena) ha riferito come la Toscana presenti, tanto per le città quanto per i centri minori, un quadro a prima vista sostanzialmente dignitoso di edizioni; già nel secolo scorso paleografi, linguisti, archivisti e storici del diritto si sono volti allo studio degli statuti animati dall’interesse che la borghesia toscana nutriva per una fonte descrittiva di una sua «epoca d’oro» in cui amava rispecchiarsi e riconoscersi — l’ambiente culturale è quello del Gabinetto Viessieux e dell’Archivio Storico Italiano —; fiorì perciò tutta una serie di edizioni di statuti ossessionate dal «mito delle origini» e portate quindi a privilegiare le redazioni statutarie più antiche. Si innalza sul resto, per dignità di metodo, il Corpus statutario pisano edito da Bonaini tra 1854 e 1857. Seguirono le edizioni dei più antichi statuti di tutte le maggiori città toscane: quelli di Lucca del 1308, quelli pistoiesi e il Constituto senese del 1262.

Minor fortuna ebbero gli statuti fiorentini che, dopo l’edizione di Friburgo del 1778-1781 che stampava gli statuti del 1415, dovettero aspettare il 1910 per vedere la trascrizione dello Statuto del capitano del popolo del 1322-1325 fatta da Romolo Caggese — cui tenne dietro l’edizione dello Statuto del podestà del 1325 — e non vennero più riaffrontati in seguito. Infine è giunta l’edizione dello statuto trecentesco di Arezzo, pubblicato nel 1946.

In generale l’attività di studio e di edizione non ha trascurato i centri intermedi ma, in tale campo, la situazione è ancora più articolata e insoddisfacente. Ad esempio, ancora non si è prodotto nulla per Prato, per Massa Marittima (eccetto gli statuti minerari) e per Livorno, mentre per San Gimignano e per Cortona si è rimasti fermi alle trascrizioni ottocentesche; in un caso poi, quello degli statuti duecenteschi di Chianciano, il Comune ha finanziato la traduzione in italiano di una vecchia ed improponibile edizione piuttosto che farne intraprendere una nuova.

Cose migliori si hanno per Volterra e per Montepulciano, mentre stanno fortunatamente per essere pubblicati gli statuti di Colle Val d’Elsa, a cura di Ninci, e di Montalcino, a cura di Alfio Cortonesi.

Per i centri minori, infine, si presenta una situazione caotica dove alberga di tutto, dal più banale localismo ad edizioni metodologicamente preziose, come quella di Terranuova Bracciolini, che reca tutte le varie riforme ed aggiunte fino al Seicento.

Proprio dal punto di vista metodologico, bisogna lamentare innanzitutto come si siano quasi sempre sistematicamente ignorate le aggiunte, o si sia pensato solo al contenuto del puro manoscritto trascurando ogni documentazione esterna ad esso, soprattutto l’enorme e preziosissimo materiale prodotto in funzione di correzioni ed emendamenti e conservato altrove; manca qualsiasi tentativo di contestualizzazione e studio comparato, mentre sempre più indispensabile per il futuro sarà intervenire sull’edito oramai inaffidabile, tenere conto della fonti apparentemente appartate come la Legislazione toscana del Cantini — che riporta interi brani statutari per la loro abrogazione o correzione — e scandagliare attentamente l’editoria statutaria «sommersa» prodotta dagli istituti di credito nonché risorse come le tesi di laurea.

Non apparendo realistico continuare a pubblicare fonti a caso, un repertorio di statuti si rende fondamentale proprio per questo: per capire, cioè, cosa esiste, dove, e con quale valore e consistenza.

Per meglio agire in questa direzione, si potrebbe pensare anche a progetti di repertoriazione su scala territoriale meno vasta, quale quella provinciale (si pensi al progetto dell’Amministrazione provinciale di Siena condotto da Giuliano Catoni), tenendo sempre come punto di riferimento basilare l’esigenza della semplicità e della essenzialità, ma pensando anche a repertori che non siano semplici elenchi di statuti bensì, con ulteriori informazioni, permettano di incrociare dati rendendo possibile il riconoscimento di aree omogenee sulla base di criteri non solo istituzionali, ma anche produttivi e sociali.

Sandro Bulgarelli (Biblioteca del Senato, Roma) ha brevemente illustrato lo stato di avanzamento dei lavori del Catalogo degli Statuti della Biblioteca del Senato. Entro la fine del 1995 dovrebbe uscire il volume VIII della serie, che dovrebbe coprire l’intervallo alfabetico T-U o, forse, T-VA, in considerazione dei problemi che porrà poi la mole del materiale relativo a Venezia. Altro grosso problema sarà rappresentato, in futuro, dalla consistenza degli aggiornamenti che si rendono necessari per i primi sette volumi, che hanno coperto l’intervallo A-T, e che già fin d’ora comporterebbero l’edizione di materiali per almeno altri tre volumi della serie.

Si medita, in futuro, di trasferire tutti i volumi pubblicati finora su Data Base, facendo ricorso a uno scanner; a parte questo progetto, si cercherà in ogni modo di tenere, colle edizioni future, il passo che già fu di Chelazzi di un volume ogni quattro-cinque anni.

Marco Tangheroni (Pisa) ha esordito ricordando come, anche avendo attenzione alle peculiarità istituzionali proprie della Sardegna, se di dovesse trattare soltanto di statuti e repertoriazioni di questi, vi sarebbe ben poco da dire: i testi normativi sardi sono pochi, e non ci sono iniziative editoriali o di repertoriazione in corso, anche perché la maggior parte degli studiosi sono assorbiti dall’impegno dell’edizione dei Parlamenti dell’isola. Bisogna allora porsi altri tipi di domande: se non sia più possibile, ad esempio, trovare altri statuti finora ignoti grazie ad indagini sistematiche.

Così in un fondo della Corona d’Aragona sono stati ritrovati vari capitoli di una Carta de logu — che è poi una legge statuale, quindi — del giudicato di Cagliari; a Bosa, fondata da una ramo dei Malaspina e quindi fortemente influenzata da questi dal punto di vista delle istituzioni, pare fosse in vigore una Carta particolare, detta anche Breve, che si credeva perduta e i cui capitoli 158-160 furono invece ritrovati, una ventina d’anni fa, tra gli atti di un notaio dell’inizio del Seicento.

Il problema è anche di terminologia e di definizione degli esatti caratteri di documenti come il Breve di Castel di Castro, fondato da Pisa nel 1216 e direttamente influenzato da questa, o delle stesse Carte de logu.

Ci sono poi casi in cui non si hanno notizie neppure di brevi, e si è costretti a interrogarsi se essi vi fossero o meno: così è per il caso di Terranova (l’attuale Olbia), che pure nei documenti è definita «quasi civitas», di Porto Torres e di Oristano.

Statuti veri e propri si hanno con certezza solo per la fondazione di Castelgenovese (ora Castelsardo) e per Sassari, che presenta peraltro seri problemi di edizione: occorrerebbe innanzitutto mettere ordine nei complicati rapporti tra i cinque codici esistenti, di cui una parte è in sardo-logudorese e un’altra in latino, e si discute su quale sia la versione originale e quale la traduzione.

Pasquale Corsi (Bari) ha mostrato come uno studio sistematico delle fonti normative, per la Puglia, sia ancora tutto da fare; non sono mancati, in passato, tentativi non realizzati compiutamente di studi analitici ed edizioni ma, a fronte di una quantità di fonti disponibili anche cospicua, l’obbiettivo primario dev’essere quello della repertoriazione dell’inedito e della revisione delle fonti già pubblicate. Per questo la Società di storia patria per la Puglia intende inaugurare l’indagine nel campo di questo tipo di fonti, che in Puglia parte da zero rispetto, per esempio, agli studi sulle fonti degli archivi ecclesiastici, che già hanno beneficiato dei 35 volumi del Codice diplomatico pugliese.

A testimonianza della validità delle fonti statutarie pugliesi, si ricorda che il più antico statuto conservato, entro gli attuali confini regionali, è lo statuto rurale di San Severino, concesso nel 1116 dall’abate, e barone del Regno, agli abitanti del casale, e di cui non si ha ancora un’edizione critica; non manca poi tutta una serie di statuizioni, sia per le grandi città che per i centri minori, che conoscono una serie di conferme in età aragonese, alcune sintetiche, altre più estese. Rappresenta tuttora un caso problematico la città di Foggia, che non presenta statuti noti fino ad età tardissima, e sulle cause di questa mancanza bisognerà indirizzare studi specifici.
 Pietro Corrao (Calabria) ha esordito richiamandosi all’esigenza di una metodologia di studio degli statuti, ricordando la nota polemica sorta attorno alla posizione di Calasso, che identificava consuetudini e statuti e li considerava espressione di potestà legislativa. Corrao ritiene che tale impostazione vada superata: le fonti esistenti serviranno soprattutto per identificare, nel caso siciliano, le tappe dei rapporti tra universitates e re.

I rapporti tra questi due poli sono fortemente dialettici, e la circolazione di uomini, il rafforzamento politico reciproco tra i due elementi sono altrettanto significativi; in tale contesto il discorso sulla reale autonomia dei centri siciliani conta relativamente, giacché le successive redazioni statutarie sono espresse ed approvate sempre da ristretti nuclei di cittadini.

A partire dal XVI secolo le stesse città promuovono compilazioni a fini pratici, ma c’è da chiedersi preventivamente quanto furono esaustive e quanto affidamento si possa fare su di loro, quando alcune di queste sono definite esplicitamente «selectae»; non è mancato poi, nell’Ottocento, l’interesse erudito, rivolto soprattutto ai capitoli delle comunità.

Prima ancora di parlare di un repertorio per l’area siciliana, impresa che nella situazione attuale rischierebbe di arenarsi, l’obiettivo minimo dovrebbe essere costituito dalla formazione sistematica di schede di lavoro che identifichino i testi editi ed inediti, istituendo confronti colle loro edizioni parziali, censiscano i «libri rossi» negli archivi e nelle biblioteche delle città demaniali e, infine, individuino capillarmente privilegi e capitoli, il tutto città per città.

Pur non essendo potuti intervenire personalmente, hanno inviato i testi dei loro articolati interventi Alessandro Clementi, Pietro De Leo, Valter Laudadio e Gian Maria Varanini.

Alessandro Clementi (L’Aquila) ha ricordato come le vicende storiche che hanno isolato gli Abruzzi dalle correnti storiche generatrici delle autonomie comunali facciano sì che solo poche città della regione (Teramo, Atri, L’Aquila) abbiano conosciuto la formazione di una legislazione che si possa definire di modello statutario. Tuttavia sono molti i comuni abruzzesi che presentano documenti contenenti regole di governo in senso lato, quali capitoli concordati coi feudatari, privilegi, concessioni, riforme e anche costituzioni di ordini religiosi, quando esse abbiamo riflessi politici: è il caso dei capitoli concordati nel 1522 tra i Celestini di Santo Spirito del Morrone e i «Massarii, sindici et homines» di Pratola Peligna.

Tali documenti si sono poi naturalmente conservati in misura più ridotta per i secoli più lontani, quando maggiore è il loro contenuto autonomistico (solo cinque tra statuti, capitoli e documentazioni affini sono rimasti per il XIII secolo abruzzese), per poi farsi via via più numerosi già dal XIV secolo, quando si è instaurata una ben precisa dialettica tra città e corona.

Nei secoli XV e XVI, caratterizzati dal dominio aragonese, numerosi sono gli statuti di bagliva, attraverso i quali le universitates agivano da elemento intermedio per la gestione corrente tra sudditi e corona; le documentazioni di questo tipo si rarefanno, infine, col sopraggiungere della dominazione spagnola.

Pietro De Leo (Calabria) ha ricordato come già nel 1982, in occasione del VII Congresso storico calabrese promosso dalla locale Deputazione di storia patria, fosse stata annunciata come prossima l’uscita di una vasta raccolta di edizioni degli statuti municipali della Calabria, che avrebbe dovuto intitolarsi Città e Stato. La legislazione statutaria delle Calabrie dal XV al XVII secolo e che, articolandosi in quattro volumi, avrebbe dovuto contenere gli statuti di sessanta località della regione, ordinati alfabeticamente e cronologicamente.

Purtroppo il mancato mantenimento, a tutt’oggi, di questa promessa ha funzionato come elemento di dissuasione nei confronti degli studiosi dall’occuparsi di un campo teoricamente già impegnato ed ampiamente in corso di studio: si può oramai ritenere con fondatezza che quell’annuncio fosse soltanto un auspicio per un disegno che l’immatura scomparsa di alcuni dei promotori ha sicuramente rallentato ma, si spera, non vanificato del tutto.

Per quanto riguarda invece la Basilicata, non si è a conoscenza di programmi volti alla raccolta sistematica e all’edizione di statuti, che pure non mancano e hanno già attirato in passato l’attenzione della storiografia erudita, da Giuseppe Gattini, colle sue Note istoriche sulla città di Matera e sulle sue famiglie nobili (Napoli, 1882, pp. 70-85), a Giacomo Racioppi, che inserì la serie dei «capitoli di grazie» relativi a Lagonegro, Lauria, Saponara, Moliterno, Latronico e Spinoso nel secondo volume della Storia dei Popoli della Lucania e della Basilicata (Roma, 1902, pp. 266-273). Tuttavia quasi tutto il materiale in questione è ancora inedito; così è per il Libro degli Statuti e Capitoli dell’Università della Regia Città di Lagonegro, conservato presso l’Archivio di Stato di Potenza, per i vari privilegi concessi alla città di Venosa e per il cosiddetto Liber niger Pisticii.

In questa situazione generale, il primo problema è quello dell’effettiva conservazione dei testi statutari, che appare meno catastrofica di quanto ci si potrebbe attendere, ripensando alla traversie subite dagli archivi regi napoletani e da quelli periferici: a parte il caso di Cosenza, che vanta una delle prime raccolte a stampa di documenti municipali dell’intera Italia meridionale (Privilegi e Capitoli della città di Cosenza e soi casali, rist. anastatica, Bologna, Forni, 1982), Catanzaro conserva gli statuti del 1451, Castrovillari possiede un Libro bianco con i capitoli dal 1521 e Reggio Calabria ha un’inedita raccolta di privilegi di cui lo stesso De Leo sta curando l’edizione.

Altre raccolte custodite negli archivi domestici (gli statuti di Acri, di Amantea e di Altomonte), si sono salvate in copie tratte da studiosi (gli statuti di Tropea copiati da Ernesto Pontieri) o sono conservati nei vari fondi archivistici napoletani: un discorso organico di edizioni potrebbe anche permettere il ricorso a finanziamenti di enti sensibili a tale tipo di iniziative.

Valter Laudadio (Ascoli Piceno) ha segnalato come chi si accinga allo studio della produzione statutaria marchigiana debba affrontare difficoltà di diverso tipo, dalla dispersione del materiale nelle sedi più disparate (l’esemplare di Amandola si trova alla Biblioteca Comunale di Fermo, quello di Arquata presso l’Archivio di Stato di Roma e gli Statuta Ducatus Urbini, prima di pervenire all’Archivio di Stato di Pesaro, sono stati rintracciati presso un parroco del Modenese) all’inadeguato stato di conservazione e, soprattutto, alla mancanza di qualsiasi repertorio complessivo. Punto di riferimento insostituibile rimane ancora, perciò, l’indagine compiuta da E. Liburdi che tra 1964 e 1965 identificò 78 statuti editi e 96 inediti in tutta la regione.

L’attenzione della storiografia marchigiana verso le fonti normative si è delineata a partire dalla seconda metà del XIX secolo, colla convergenza dello spirito risorgimentale e dell’interesse positivistico verso la pubblicazione di memorie patrie; si ebbero così opere come quelle di F. Raffaelli (Leggi statutarie di Cingoli, 1864) e di E. Giulietti (L’antico Statuto di Montelparo nelle Marche, 1879) e, verso la fine del secolo, i primi riordini di archivi comunali da parte di eruditi come A. Zonghi, che affiancò tale opera agli studi sugli statuti di Fabriano (1872), Gradara (1874) e Osimo (1891).

Incentivo ai programmi di edizione venne dalla Deputazione di storia patria locale, che patrocinò le edizioni di M. Santoni degli Statuti di Visso (1884) e di C. Ciavarini degli Statuti anconetani del mare (1896); ma una vera svolta metodologica si ebbe solo grazie all’opera di G. Luzzatto che, formatosi alla scuola storico-giuridica, seppe ricondurre la produzione statutaria al processo di formazione del comune e al ruolo giocato in essa dalle diverse classi sociali. Questa nuova maturità metodologica si riflesse nelle edizioni della Deputazione degli Statuti del comune di Santa Anatolia (1909) e degli Statuti della società del popolo di Matelica (1909).

Attualmente anche nelle Marche si assiste ad una proliferazione incontrollata di edizioni prive di credibilità, promosse da amministrazioni comunali ed istituti di credito, affianco ad opere di indiscussa validità metodologica come quelle di Dante Cecchi, che per primo ha compiuto studi di tipo comparativo tra statuti di comunità legate da comuni vicende storiche (Statuti di Sefro (1423), Fiastra (1436), Serrapetrona (1473) e Camporotondo (1475), Studi e testi della Deputazione di storia patria per le Marche, 7, Macerata, 1971). Rimangono però fuori dal dibattito storiografico marchigiano i temi del ruolo dei giuristi e degli statutari, delle diverse fasi della formazione dello statuto, delle additiones e delle approbationes.

Gian Maria Varanini (Trento) ha informato di come, allo stato attuale, non risulta sia in corso alcuna iniziativa di repertoriazione di testi statutari per l’area veneta, né a livello regionale, né nell’ambito delle singole provincie; le esemplari edizioni del Corpus statutario delle Venezie non seguono infatti un principio di metodica copertura del territorio ma, pragmaticamente ed opportunamente, valorizzano iniziative specifiche cercando il coinvolgimento degli enti locali.

Sul piano delle edizioni, sono in corso lavori importanti, pur senza alcun coordinamento: Ugo Pistoia ha dato un’edizione ineccepibile degli statuti di Primiero del 1364 nel volume Una valle alpina del medioevo, Deputazione di storia patria per le Venezie, 1992; fra i lavori in corso sono da segnalare l’edizione degli statuti del comune di Padova del 1362, che sta curando Mariella Magliani, e l’edizione degli statuti di Vicenza del 1311 e del 1339 che Varanini stesso sta portando avanti.
Inoltre certi distretti cittadini della Terraferma non presentano una grande quantità di testi statutari; nel caso di Verona, ad esempio, le particolari modalità del rapporto città-contado, e la mancanza nel districtus di centri demici di qualche rilievo, fanno sì che gli statuti prodotti nel suo territorio a partire dalla seconda metà del Duecento siano pochissimi. Un’affermazione simile si può fare per Padova, mentre Vicenza presenta una produzione statutaria anche tre-quattrocentesca più ricca.

Infine non si può prescindere dal ricordare come il governo veneziano non si occupi di promuovere la redazione di nuovi statuti né di organizzare una qualche forma di raccolta di quelli precedenti, tanto che la nascita di una magistratura a ciò deputata è tardissima.

Al termine della giornata dell’11 settembre si è aperto un ampio dibattito fra tutti gli intervenuti e sono state tratte le prime conclusioni: innanzitutto si è senz’altro verificata, in materia di metodologia della repertoriazione statutaria, una sostanziale convergenza sull’esigenza di agilità e, al tempo stesso, di elasticità della schedatura e dei criteri guida ad essa premessi.

Vengono poi sottoposti all’attenzione e alla riflessione di tutti i problemi che restano aperti, come quello delle aggiunte e delle fonti per le procedure di riforma, che non si possono più ignorare senza alterare gravemente la comprensione della portata del fenomeno statutario, e che però certo sollevano enormi problemi di spoglio e di reperibilità, essendo per lo più dislocate fuori dei codici statutari e disperse in serie archivistiche di natura diversa. Ugualmente bisognerà prestare sempre più attenzione al confronto degli originali cogli editi anche non troppo lontani nel tempo che, frequentemente, non danno garanzie di affidabilità nella resa del testo.

In particolare, volendo fin d’ora individuare il tema per un prossimo incontro condotto sullo stesso modello, tutti hanno segnalato come, pur non potendosi considerare affatto esaurita la questione delle repertoriazioni, si sia posto con rilevanza il problema delle edizioni: un problema tanto di criteri di edizione da proporre alla considerazione degli interessati quanto, in prospettiva, di una razionalizzazione del piano delle edizioni stesse.

Per dare continuità al proficuo contatto stabilitosi fra così tanti studiosi qualificati di argomento statutario, varrà poi la pena di ipotizzare la creazione di un bollettino che potrebbe ospitare schede bibliografiche ed informative di nuove iniziative, di edizioni e di tesi di laurea intraprese in questo campo; la realizzazione di un «numero zero» potrà servire come banco di prova della fattibilità di una simile idea ed indicherà per quale strada sarà meglio optare fra quelle prese in considerazione nella discussione samminiatese, cioè il bollettino dotato di vita autonoma — con l’impegno continuativo che esso richiede —, la presenza con una rubrica su riviste storiche già affermate e disposte a garantire ospitalità a queste proposte o, infine, la circolare informativa.

È intenzione di tutti i convenuti a San Miniato garantire la realizzazione di questo primo esperimento entro la fine del 1994 e di partecipare attivamente ad un nuovo incontro seminariale di questo carattere, da organizzare per la primavera del 1995 in una data e in una sede che saranno prossimamente diffusi.