Motivi di sottovalutazione e marginalità del diritto proprio nella storiografia giuridica

Rolando Dondarini

La perdurante percezione di marginalità del diritto proprio da parte di molti studiosi del diritto è in parte frutto di un'interpretazione storiografico-giuridica italocentrica, diffusasi anche all’estero fin dagli anni Trenta del XX secolo ad opera soprattutto di Francesco Calasso e di Giuesppe Ermini. Influenzati dai dibattiti dottrinari essi vedevano l’Impero e la Chiesa come i protagonisti assoluti del sistema giuridico medievale. In tal modo il diritto di quei secoli appare in maniera unitaria e organica, tutto compreso nell'utrumque jus, l'insieme dal valore universale composto dal diritto civile e dal diritto canonico e che derivava dall'inscindibilità che all’epoca si aveva tra gli aspetti temporali e spirituali. Al diritto civile a base giustinianea e aggiornato dalla dottrina era demandata la cura dei primi nelle terre dell'Impero, mentre il diritto canonico, oltre a disciplinare gli aspetti spirituali ovunque, si occupava anche di quelli temporali nelle terre della Chiesa. Che all’interno di questo sistema l’ utrumque jus fosse considerato il diritto comune, quello valido e di riferimento per tutti, non impediva che si avessero anche gli jura propria, tesi a regolare comunità circoscritte. Secondo questa interpretazione quindi jus commune e jus proprium erano parti di uno stesso sistema che si accordava alle dimensioni e ai regimi dei vari ordinamenti territoriali secondo diverse graduatorie. Nelle compagini politico-territoriali maggiori, come i regni, il diritto comune era di riferimento per quanto non compendiato dalla legislazione regia, che a sua volta era comune a tutti gli ordinamenti e le normative locali: nei comuni cittadini si dovevano applicare le norme degli statuti municipali o le consuetudini in essi recepite, ma in mancanza di loro direttive e prescrizioni si doveva ricorrere al diritto comune che appariva così come la base e lo sfondo comune di riferimento.

In tale visione, che attribuiva assoluta preminenza e centralità ai fulcri imperiali e ai loro riflessi italici, vennero viste anche le evoluzioni diverse, come quelle dei regni francese e inglese che avrebbero respinto il diritto comune adottando propri sistemi proprio perché in conflitto col potere imperiale[1].

In realtà anche in origine tra giuristi e statutari vi fu un graduale mutamento di atteggiamenti reciproci, soprattutto da parte dei giuristi che, dapprima furono riluttanti a riconoscere validità a istituzioni e cariche comunali, non compendiate dal diritto giustinianeo, ma che poi giunsero a considerarle necessarie integrazioni locali dell'autorità centrale. Già nel Duecento alcuni dottori del diritto comparvero nelle commissioni incaricate di elaborare gli statuti. L’avallo degli statuti da parte della dottrina può essere pertanto considerato uno dei più rilevanti tra gli innumerevoli episodi che nella storia del diritto hanno visto affermarsi aspetti funzionali e legati alla prassi, in deroga o a completamento delle preesistenti formulazioni teoriche generali. Ciò detto, occorre però precisare che la vigenza degli statuti non può essere considerata un’innovazione in assoluto, dati i suoi frequenti legami con le consuetudini locali e le relative ascendenze che risalivano ben oltre la riscoperta del diritto comune

A questo proposito certe definizioni generali elaborate da alcuni storici del diritto si presentano dotate di un'indubbia suggestione, ma a volte appaiono inficiate dall'appiattimento delle analisi in una sorta di clima da laboratorio, fuori dallo spazio e dal tempo; ad esempio l’affermazione che “…la costituzione [giuridica] medievale non è articolata in un arcipelago di sovranità, ma in un tessuto di autonomie…”(P. Grossi, Un diritto senza stato (la nozione di autonomia come fondamento della costituzione giuridica medievale), “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, XXV (1996), pp. 282-283) può essere considerata valida solo per ambiti e periodi circoscritti del millennio medievale. Questa visione ad un tempo analitica e limitata si rivela incapace di tener conto delle varianti spaziali e cronologiche ed è stata alla base di un sottovalutazione generale da parte dei giuristi nei confronti del fenomeno statutario, visto come versione ridotta e particolaristica della storia giuridica. Per la comprensione del fenomeno sono state pertanto decisivi quegli atteggiamenti metodologici di storici e storici del diritto che hanno voluto inserire le promulgazioni, la vigenza, le ratifiche, le trasformazioni statutarie nei loro specifici contesti.

Nella globalità delle promulgazioni occorre infatti distinguere tra diversi tempi e tra diverse aree politico-territoriali, all’interno delle quali è poi necessario selezionare specifiche vicende evolutive, possibilmente fino a giungere all’esame di ogni singola realtà. Nell’ambito delle autonomie cittadine comunali ad esempio sul piano evolutivo e cronologico vanno individuati almeno tre stadi di formazione[2]:

quello originario (XII - inizio XIII secc.) che vide le comunità cittadine, ancora guidate dai ceti aristocratici, darsi gli statuti come strumenti normativi capaci di recepire le loro particolari istanze e di affidare prerogative e deleghe agli organi e alle magistrature comunali, cercando di conferire loro in maniera definitiva un potere pubblico e vincolante;
quello conseguente all’ascesa economica, politica e sociale dei ceti popolari (metà XIII- inizio XIV secc.), che dapprima vide gli statuti affrontare il confronto istituzionale tra le cariche della vecchia struttura comunale e quelle delle organizzazioni di popolo e poi tradurre in chiave antimagnatizia l’affermazione del partito unico;
quello in cui si prese atto del consolidamento degli assetti regionali e delle relative subordinazioni (XIV-XV secc.), congelando gli statuti nel loro valore emblematico o piegandoli ad affrontare le questioni pratiche e minute.

Naturalmente anche questa ripartizione è frutto di una schematizzazione che non tiene conto delle dissincronie che si verificarono in tutte le fasi. Nel seconda metà del Trecento ad esempio, quando ormai le più durature preminenze sociali e politiche si andavano consolidando, si verificarono ritorni transitori a statuti di ispirazione popolare[3], presto superati da promulgazioni confacenti alle graduatorie sociali che vedevano al loro vertice sempre più salde e selezionate cerchie elitarie.           

Estremamente variabile dunque è stata la possibilità di incidenza dei codici normativi cittadini, strettamente dipendente dalle opportunità politiche di ogni contesto spazio/temporale; in particolare dalle graduatorie e dalle precedenze effettive del potere politico e dalla dislocazione dei suoi fulcri che, a seconda di luoghi, tempi e dimensioni, potevano essere prevalentemente interni o esterni alle diverse comunità cittadine. Un tema questo che non riguarda solo la herrshaft in relazione alle città d’oltralpe dipendenti da signorie esterne, ma anche la dialettica tra città dominanti e centri minori delle aree più intensamente occupate dagli stati cittadini[4]. Con molta approssimazione si può affermare che l’attuale territorio italiano ha visto espletarsi praticamente tutte grandi varianti del fenomeno politico cittadino e di conseguenza delle relative versioni normative. Quella delle città inserite nei tessuti tendenzialmente unitari di regni o delle grandi signorie; quella delle città/stato tendenti a conquistarsi i più ampi spazi di autonomia a scapito sia delle autorità centrali sia dell’autodeterminazione dei centri minori soggetti; quella del tutto originale delle città delle terre della Chiesa nelle quali poteri centrali e locali si compenetravano alla continua ricerca di nuovi equilibri.

Il fenomeno comunale cittadino, come è ben noto ebbe modo di espletarsi a più riprese e in diverse circostanze anche in quest’ultimo contesto, ma soprattutto in quello degli stati cittadini, dove assunse anche forti connotazioni politiche; altrove ebbe fin dalle origini una funzione più orientata alla gestione amministrativa locale nel panorama di uno stato tendenzialmente unitario. In relazione a ciascuno di questi ambiti è possibile individuare premesse, stadi evolutivi, vicende ed eventi particolarmente significativi – rispettivamente l’instaurarsi e l’alternarsi delle dinastie regnanti e di quelle dominanti, per i regni a i grandi domini signorili; le sorti dei disegni ierocratici, delle constitutiones egidiane e delle pattuizioni quattro-cinquecentesche, nelle terre della Chiesa; gli esiti dei conflitti con l’autorità imperiale e delle dispute tra città dominanti, nell’area delle autonomie cittadine. Ma poi all’interno dei diversi ambiti è necessario focalizzare ogni singola realtà cittadina, dato che ciascuna visse esperienze proprie e peculiari che si ripercossero anche nella produzione di codici normativi, i quali quindi vanno visti come esiti delle diverse convergenze di fattori e influenze sia generali sia locali. Pertanto, anche circoscrivendo l’obiettivo della trattazione al contesto delle autonomie cittadine comunali, occorre ammettere che gli svolgimenti dedotti da visioni sintetiche di fenomeni articolati e complessi sono frutto di astrazioni e perciò in genere non corrispondono ad alcuna vicenda effettiva.

Per le comunità minori ad esempio i codici statutari furono di volta in volta espressioni della volontà di conservare margini di autonomia nei confronti di dominanti vecchie e nuove, oppure traduzioni normative delle sottomissioni ad esse.

 

Anacronismi, apparenze e letture di stratificazioni statutarie

Alla generale sottovalutazione del fenomeno statutario ha contribuito la constatazione dei frequenti divari tra contenuti e realtà locali che molti codici presentano Particolarmente calzante è il caso esaminato da Gherardo Ortalli a introduzione del suo paradigmatico e avvincente saggio su lo statuto tra funzione normativa e valore politico (G. Ortalli, Lo statuto tra funzione normativa e valore politico, in Gli statuti delle città: l'esempio di Ascoli nel secolo XIV, cit., pp. 11-35). Lo studioso prende le mosse dalle suggestive parole di chi volle registrare nel proemio dello statuto di Ascoli del 1377 la portata dell’innovazione di cui tali statuti erano il coronamento. Il nuovo codice vi veniva presentato come il suggello dei mutamenti politici nati dalla ribellione contro la tirannide dei Malatesta e dei Vendibene. Tutto sarebbe iniziato “…quella sera over nocte in ne la quale fo facta la novità in la ciptà d’Asculi contra lu signore”. L’approvazione collettiva dei nuovi statuti sarebbe stata intrapresa quella stessa notte del 15 marzo, appena conclusasi vittoriosamente la rivolta. Lo statuto nuovo parrebbe così lo strumento e il suggello della volontà politica che aveva portato al sopravvento della parte guelfa e che puntava all’affermazione dello stato popolare contro la tirannia; figurava insomma come la soglia di ingresso alla vigenza dei valori etici e politici della perpetua libertà tutelata e garantita però non solo dal nuovo regime popolare, ma anche dall’appartenenza allo stato della Chiesa…Senonché, come rileva l’Ortalli, le ribellioni contro i Malatesti e i Vendibene erano avvenute decenni prima e in tempi diversi tra loro, mentre nei mesi precedenti la promulgazione di quegli statuti era stata proprio la dominazione della Chiesa il bersaglio della ribellione di Ascoli, coinvolta come tante altre città dall’invito fiorentino a liberarsi del giogo del dominio ecclesiastico. Un anacronismo voluto o imputabile a disavventure testuali? Data l’importanza del testo è difficile credere a quest’ipotesi e sarebbe più ammissibile un cambiamento voluto e mirato dei destinatari degli strali del proemio. Nell’un caso o nell’altro appare innegabile il significato politico anche di questa discordanza. Tanto più se tale mimetismo fosse stato volontario, poiché attesterebbe l’esigenza di legare o corroborare il valore politico dei contenuti del codice alle impellenze congiunturali. Come sostiene l’Ortalli, sarebbe frutto di una “stratificazione di contingenze politiche” e parrebbe “…un pedaggio tutto sommato modesto, pagato per garantirsi la vigenza dello statuto”. Provando a dar seguito all’interpretazione dello studioso, un’ipotesi plausibile potrebbe essere quella che scioglie l’ambiguità in relazione alla fase che, dopo le rivolte, vedeva molte città ribelli cercare un accomodamento con la Chiesa (vedi Bologna 1376/77, proemio statuti). La confusione sarebbe così l’esito di un “intreccio di richiami” che potrebbe anche essere traccia di precedenti redazioni, ma che sostanzialmente avrebbe puntato a dar vigore al contenuto del codice alla luce dei nuovi assetti. Da un lato non si sarebbe voluto rinnegare l’adesione ancora recente alla lega promossa da Firenze e Perugia contro il potere della Chiesa (“…honore, triumpho et exaltatione de la felice legha della italica libertà, et de tucti l’altri colligati, et maxime de li magnifichi comuni de le ciptà de Fiorenza  et Perusia); ma per farlo si sarebbe fatto riferimento alle ormai lontane rivolte nei confronti dei Malatesta e dei Vendibene per non compromettere il dialogo con lo stato ecclesiastico, tornato ad essere l’interlocutore obbligato. Si sarebbe in tal modo preso doveroso atto dei nuovi e necessari equilibri, giungendo addirittura a postulare la cooperazione della dominazione ecclesiastica e del regime popolare per la conservazione perpetua della libertà (“honore et reverentia de la sacrosanta Romana Ecclesia… conservatione de la perpetua libertà et de lu stato ecclesiastico et de lu popolare stato” (p. 18). La sostanza da tutelare parrebbe dunque essere il contenuto delle rubriche e non tanto la loro presentazione, piegata un po’ grossolanamente ai compromessi necessari al momento. In questo caso il proemio dovette esser considerato accessorio (lo si rileva anche dall’analisi delle stratificazioni: pp segg.). Ma l’Ortalli si spinge ben oltre nell’esame delle promulgazioni ascolane (pp. 20-21); la constatazione che gli statuti locali sono giunti completi solo nella traduzione in volgare stampata nel 1496 e non nella originaria stesura latina – che pure era considerata più autorevole, tanto che gli stessi traduttori ne consigliavano la consultazione in casi di dubbi sul testo volgare – porta all’apertura di una questione con aspetti almeno apparentemente paradossali, in quanto si rivela una spiccata noncuranza per i contenuti del codice che fra l’altro risaliva a circa 120 anni prima e conteneva quindi evidenti anacronismi, soprattutto nel tono che evocava conflitti ormai lontani.

Per Bologna un esempio chiaro di quanto dopo la metà del Trecento si fosse consapevoli del divario ormai esistente tra le volontà espresse nei codici statutari e la loro reale efficacia e incidenza lo si rileva dai "Praecepta" del cardinale Anglico, legato pontificio per le terre della Chiesa in Italia, che tra i consigli al suo successore  gli confidava come ritenesse assurda la pretesa dei bolognesi di vedere applicati i loro statuti, facendo però intendere come non valesse la pena creare eccessivi attriti negandone il valore. Facile dedurre che le stesse interpretazioni fossero condivise da quella parte di aristocrazia bolognese che era coinvolta nella gestione della città: R. Dondarini, Un volto riemerso di Bologna Medievale, Bologna 1999.

Il valore emblematico dei codici anche al di là del loro contenuto si espresse anche attraverso la “veste grafica” che assunse sempre più decoro, anche ricorrendo a famosi e ricercati miniatori le cui raffigurazioni erano a loro volta foriere di particolari significati. Riprodurre i patroni cittadini in un certo ordine o con certo rilievo ad esempio era spesso sintomo della temperie politica del momento. Gli statuti di Bologna che vengono riferiti al 1376, in realtà furono l'esito di un biennio (1376-78) in cui si era passati dalla  nota e aperta ribellione al governo della Chiesa alla riconciliazione che aveva portato al conferimento del vicariato del governo della città a Giovanni da Legnano; fu evidentemente per ossequio a questa riconciliazione che il codice statutario riporta miniata la figura di san Pietro e non quella dell'altro patrono allora in auge e simbolo dell'autonomia cittadina, ovvero san Petronio.

Gli anacronismi o la mancanza di rispondenza con le realtà locali che evidenziano molti codici normativi non debbono però indurre a considerarli in toto inaffidabili. Al contrario proprio contestualizzandone le promulgazioni e le vigenze si può cogliere quanto le norme avessero un significato vivo e reattivo e quanto invece si fossero irrigidite perdendo parte della loro applicabilità, ma mantenendo un indubbio valore di immagine.

 

 

 

[1] Per una rassegna su questi temi e sulla letteratura relativa: M. Caravale, Ordinamenti giuridici…, cit..          

[2] Un'articolazione in fasi successive di tutto il periodo evolutivo del diritto comune (XII - XIX secc.) fu proposta dal Calasso: la prima fase dal (XII-XIII secc.) con "predominio del diritto comune sopra ogni altra fonte concorrente"; la seconda (XIV e XV) definita come "periodo del diritto comune sussidiario"; la terza iniziata nel XVI secolo e definita come "periodo del diritto comune particolare": F. Calasso, Introduzione al diritto comune, Milano 1951, pp.  125 e segg.

[3] Fra gli altri nuovi codici furono redatti nel clima della Guerra degli Otto Santi tra il 1376 e il 1377 a Firenze, a Bologna, a Perugia (?) e ad Ascoli, visti come gli strumenti di un recupero delle condizioni precedenti il degrado e le sventure degli ultimi decenni, un recupero che solo col "senno di poi" può essere considerato illusorio, nostalgico e velleitario. 

[4] L’esistenza di centri majores, mediocres et minores fu compendiata anche dall'Albornoz: Costituzioni Egidiane dell'anno MCCCLVII, a cura di P. Sella, Roma 1912 (Corpus Statutorum Italicorum, n. 19, lib. II, rubr. 37: De descrictionibus civitatum, terrarum, castrorum et locorum, p. 121. Il raffronto di queste dialettiche politico-territoriali coi sistemi molecolari e i campi gravitazionali costituisce un’ottima similitudine, poiché fa riferimento a forze di attrazione e di propagazione e ad ambiti e sistemi complessi – forze centripete e centrifughe. Le grandi variabili sono i raggi di ampiezza dei legami che di dipartono dai fulcri del potere – nei regni il centro di gravità  fondamentale è la sede di corte, la capitale, da cui si irradia un tessuto tendenzialmente unitario e si ridistribuiscono compiti amministrativi (nei prototipi dei regni medievali dapprima prevalgono i rapporti di tipo personale tra i depositari dei domini territoriali poi affiancati nella formazione delle compagini nazionali). Nelle aree e nei contesti in cui non riesce ad imporsi un tessuto unitario prevale un sistema articolato in sistemi o in campi di attrazione tendenzialmente autonomi e contendenti, ciascuno dei quali ha una città dominante capace di attrarre e inglobare nel proprio campo gravitazionale centri satellite, a loro volta in grado di esercitare attrazioni a raggio ridotto sui territori limitrofi.