La libertà di decidere

Cento (Fe) 6-7 maggio 1993

Cronaca di Giancarlo Benevolo, La libertà di decidere. Cento (Fe) 6-7 maggio 1993, in «Quaderni Medievali», XXXVI (1993), pp. 173-178. Ripubblicata in La libertà di decidere. Realtà e parvenze di autonomia nella normativa medievale italiana, Atti del convegno (Cento, 6-7 maggio 1993), a cura di R. Dondarini, Cento 1995, pp. 15-21.

Per la competenza degli studiosi intervenuti e per la qualità scientifica delle relazioni svolte, il primo convegno nazionale sulle origini, i contenuti e l’efficacia delle normative promulgate nel Medioevo dalle autonomie locali italiane (La libertà di decidere, Realtà e parvenze di autonomia nella normativa locale del Medioevo), tenuto a Cento il 6 e 7 maggio 1993, costituisce fin da ora un punto di riferimento fondamentale, che riassume lo stato delle conoscenze nelle varie aree regionali e apre nuove prospettive di indagine. Nella prima giornata, dopo il saluto delle autorità locali, Luciano CHIAPPINI, presidente della Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria, ha delineato sia lo sfondo storico-politico risorgimentale che ispirò la pubblicazione degli statuti comunali, sia l’attività delle prime Deputazioni di storia patria che si distinsero per iniziative importanti, come la Deputazione Subalpina torinese, che il relatore ha definito paradigmatica, e quelle di Romagna, di Ferrara e di Modena estense. Chiappini ha poi sottolineato la mancanza di continuità editoriale nel settore e ha indicato le principali edizioni  da effettuare, fra cui quelle degli statuti di Ferrara del 1320 e del 1394.

Jean Claude MAIRE VIGUEUR (Università di Firenze) ha presieduto la prima sessione e ha introdotto la Prolusione di Francesca BOCCHI (Università di Bologna), la quale ha proposto un esaustivo quadro metodologico di studio e di impiego delle fonti statutarie, importanti — ha affermato — perché‚ «inseguono le trasformazioni sociali e ne sono la spia». Sono stati indicati due livelli di approccio, uno storico-giuridico, tecnico e di non facile individuazione per il Medioevo, e uno storico-politico, proprio dello storico tout court, volto a studiare le intenzioni politiche che generarono il corpo normativo. Imprescindibile è quindi la conoscenza dei contesti geopolitici in cui operarono le comunità. Dopo avere osservato che i problemi delle moderne autonomie locali hanno nuovamente stimolato l’interesse per le tematiche statutarie medievali, la Bocchi ha concluso illustrando l’evoluzione generale e alcuni temi rilevanti della normativa medievale (secoli XII-XIV), come le norme concernenti l’edilizia di Pistoia, Vicenza, Bologna.

Rolando DONDARINI (Università di Bologna), promotore del convegno (premesso che la sua relazione sulla normativa della sede congressuale era stata inserita in programma solo dopo il raggiungimento del piano comparativo nazionale), ha invece trattato Gli statuti centopieviesi tra aneliti di autoderminazione e soggezioni forzate, descrivendo le caratteristiche politico-istituzionali, non emblematiche, ma significative, dell’autonomismo di Cento e di Pieve, dal XII al XVII secolo, nell’alternarsi dei dominatori, primo fra tutti il Comune di Bologna. È del 1328 il più antico statuto pervenutoci, in cui si riflette la volontà di mantenere margini di autonomia nei confronti dei potentati esterni, facendo leva sull’ordinamento amministrativo interno, sulla conservazione dei patrimoni comuni (le future partecipanze agrarie) e sul riconoscimento della giurisdizione vescovile bolognese, scelta come male minore. Per chiarire questi aspetti, il relatore ha presentato un documento processuale del 1289, non ancora analizzato adeguatamente, che riassume in dieci punti l’essenza dell’autonomia centopievese, dimostrando come per comprendere la reale efficacia delle normative locali sia necessario ricorrere anche ad altre fonti.

Di particolare rilievo metodologico e storiografico è stato l’intervento di Pietro CORRAO (Università di Palermo), intitolato Le città dell’Italia meridionale: un caso storiografico da riaprire, che ha efficacemente fornito gli strumenti di lavoro per «ricostruire un modello di città meridionale svincolato dal modello centro-settentrionale», caratterizzato dal movimento comunale estraneo al Mezzogiorno. Analizzando l’origine delle fonti normative (secoli XIII-XV) e il formarsi della coscienza cittadina dall’unificazione normanna all’età post-federiciana, si può concludere che la legislazione urbana meridionale si configura come il risultato della probatio regia alle tradizionali forme di amministrative locali e come il prodotto del sistema pattizio fra le comunità urbane e la monarchia. È su questi temi che il relatore ha rivalutato pienamente la posizione della città nella dialettica politica meridionale, accanto ai due tradizionali protagonisti: feudalità e monarchia.

Altrettanto interessante è stata la relazione di Alessandro CLEMENTI (Università dell’Aquila) riguardante le Autonomie negli Abruzzi: alcuni esempi (secoli XIII-XIV), dal momento che la storiografia abruzzese presenta ancora moltissime lacune, principalmente dovute alla difficoltà di dare contorni storici unitari alla regione. Dopo la crisi urbana altomedievale, le città dell’Abruzzo si trovarono fra le suggestioni autonomistiche dei Comuni tosco-marchigiani, la giurisdizione tutelare dei vescovi e l’ingerenza restrittiva della monarchia. A differenza di altre città come Teramo e Atri, l’Aquila ebbe larghe autonomie, come è testimoniato dal suo statuto (1294-XV secolo), perché sfruttò la posizione di confine, che le permetteva di minacciare fughe verso lo Stato della Chiesa. Il relatore ha poi concluso facendo notare che la tipologia cittadina descritta, avente una propria capacità normativa nel rispetto dell’ordinamento statale, forse si avvicina al Comune odierno più della città Stato centro-settentrionale.

Presidente della seconda sessione è stato Giuliano PINTO (Università di Firenze). Nella relazione L'Umbria tra potere e autonomie locali: i casi di Perugia e Spoleto con alcuni dei loro castelli nella normativa due-trecentesca, Maria Grazia NICO OTTAVIANI e Patrizia BIANCIARDI hanno mostrato, ricostruendone il profilo attraverso la normativa, il multiforme rapporto tra la Chiesa, le due città dominanti e alcuni importanti castelli, aventi consuetudini e consistenze demografiche diverse e di cui si conservano pochi statuti. La legislazione umbra aveva come perno i maggiori comuni urbani ed era volta a mantenere sottomessi i centri del contado, nel quadro dell'ordinamento pontificio non sempre pienamente determinante. Infatti gli statuti di Perugia (1279, 1342) rivelano almeno una sottomissione formale alla Chiesa, con larghi margini autonomistici, mentre quelli di Spoleto (1296, 1347) evidenziano una più spiccata autonomia comunale fino al decisivo intervento dell'Albornoz.

Angela LANCONELLI (Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma) ha affrontato la questione fra Autonomie comunali e potere centrale nel Lazio dei secoli XIII e XIV, richiamando l'attenzione soprattutto sui castelli e sui centri minori, i quali forse costituirono il vero punto di forza del potere temporale della Chiesa, dal momento che solo in essi il papa era in grado di intervenire nella nomina del podestà. I comuni laziali subirono le maggiori limitazioni nel tempo di Innocenzo III e di Albornoz, i quali imposero decisamente la sovranità papale alle molteplici realtà. locali, dominandole direttamente o attraverso i rapporti vassallatici coi signori del luogo. La Santa Sede si riservò poi la revisione e l'approvazione degli statuti delle comunità che in questo modo entravano nella gerarchia dell'ordinamento statale romano in posizione subordinata.

Nella relazione Uomini e potere dal Tronto al Potenza tra XI e XVI secolo, Valter LAUDADIO (Scuola di Memoria Storica del Piceno, Ascoli Piceno) ha compiuto il primo tentativo di analisi complessiva delle libertà comunali nelle Marche meridionali, descrivendo il quadro regionale dei rapporti fra vescovi, abati (Santa Vittoria in Matenano, Farfa), signori locali, comuni rurali e i due principali comuni urbani, Ascoli e Fermo, che non riuscirono a creare ampi contadi. La formazione dei comuni e la loro legislazione iniziò nel XII secolo sotto la protezione dei vescovi, che concessero le nomine dei podestà e delle altre magistrature comunali. Le autonomie crebbero, come testimoniato dagli statuti (Ascoli 1254, 1377), giocando anche sulla posizione di confine; poi la legislazione albornoziana frenò tali libertà e pose ovunque notabili fedeli alla chiesa.

Enrico ANGIOLINI (Laboratorio Multidisciplinare di Ricerca Storica, Università di Bologna) ha svolto una chiara relazione panoramica dal titolo Gli stretti margini di libertà delle comunità romagnole, nella quale ha trattato le caratteristiche normative della Romagna propriamente detta, di quella ferrarese, di quella toscana e della Repubblica di San Marino. Le comunità romagnole non trovarono mai un proprio spazio autonomo definitivo e furono sempre soffocate da potentati feudali legati ai vescovi, da signorie esterne e dalla presenza pontificia, confermata nel 1278 e resa più incisiva dall'Albornoz. Per questo le città, prive di un vero carattere urbano, tradussero la loro libertà di decidere nella scelta della signoria che appariva più favorevole. Gli statuti di Ravenna (1257), Rimini (1334), Imola (1334), Forlì (1359), attestano questa scarsa capacità di gestione autonomistica.

Di notevole interesse metodologico e storiografico è stata anche la lezione su Città, comunità, signorie, dipendenze e autonomie in Toscana (XIII-XV secc.) di Duccio BALESTRACCI (Università di Siena), che nonostante la vastità del tema, ha composto un quadro chiaro della realtà toscana basso medievale. Il relatore ha infatti delineato dal XII al XIV secolo il dinamismo dei comuni rurali, capaci di strappare propri spazi fra comuni urbani maggiori e signorie locali laiche e vescovili; poi ha approfondito i molteplici rapporti fra città dominanti e centri minori fino al XV secolo, puntando soprattutto su quelli di Firenze e di Siena coi loro contadi. Da questo esame è emerso, fra le molte suggestioni, che per comprendere il grado di autonomia delle comunità, oltre agli statuti, bisogna verificare per ciascun caso in che modo e in che misura si attuava il dominio della città: si pensi per esempio al trattamento particolare delle terre di confine.

Nella seconda giornata Antonio Ivan PINI (Università di Bologna) ha presieduto la terza sessione e Marco TANGHERONI (Università di Pisa) ha riaperto i lavori con la relazione Le città della Sardegna tra Due e Trecento. Solo nel XIII secolo le città sarde ebbero un cospicuo sviluppo che comportò adeguamenti istituzionali e rese necessaria la creazione di corpi normativi, per quanto nell’ambito amministrativo pisano dei giudicati di Cagliari, Arborea, Logudoro e Gallura. Le forti tradizioni infatti ispirarono la normativa locale costituita da brevi, statuti e carte de logu. Cagliari godette di una certa autonomia, benché il «Breve portus» attesti il controllo pisano sulle attività portuali. Nel giudicato cagliaritano sopravvisse, anche dopo i pisani, una carta de logu contenente le consuetudini sarde relative al diritto processuale e a quello privato. I margini di autonomia che si conquistò Sassari furono invece sostenuti di fronte agli aragonesi sulla base dei propri statuti.

Laura BALLETTO (Università di Genova) nella relazione Novità e conservazione negli statuti liguri del tardo medioevo, ha in primo luogo distinto la produzione statutaria dell'entroterra appenninico, legata ad esigenze rurali, da quella delle comunità costiere, volta da un lato a conservare la tradizione normativa del passato e dall'altro a regolare le sempre nuove attività economiche, con particolare attenzione per il commercio marittimo. Una legislazione, non immune da influenze esterne, che lasciava molte libertà d'azione e che seguiva i cambiamenti impressi dalle esigenze della pratica marittima alla società, al diritto di famiglia, alle scelte politiche e alla struttura dello stato. Genova e Savona sono stati i principali esempi approfonditi. La relatrice ha poi affrontato il problema della reale coscienza della libertà nel Medioevo, concludendo che la libertà di decidere era per l’uomo del Medioevo «un bene meno ambito per l'uomo medievale rispetto a quanto lo sia per noi».

Il complesso tema de Le comunità appenniniche tra signoria locale e giurisdizione cittadina (secc. XIV-XV), è stato tratta da Paolo PIRILLO (Università di Bologna) in relazione all'area compresa tra Lucca, Parma, Faenza e il Casentino. Nell'allargamento dei propri comitati, le città dominanti trovarono resistenze maggiori in montagna, dove le comunità, tenacemente legate alle consuetudini locali (capitula, ordinamenta, franchigie), erano spesso collegate alle signorie di origine feudale, da cui in forme diverse dipendeva la loro sopravvivenza: un esempio è costituito dal Frignano. In Toscana quando le città si imposero con podesterie e vicariati (secc. XIII-XIV), la montagna fu spesso capace di imprimere un nuovo equilibrio sociale che si riflesse nella redazione degli statuti cittadini. Un caso a parte invece è rappresentato dalla montagna bolognese, dove il precoce assoggettamento alla città cancellò praticamente ogni traccia delle antiche consuetudini.

Per una morfologia della statutaria medievale emiliana: il caso modenese, è stato l'argomento approfondito da Bruno ANDREOLLI (Università di Bologna) che ha individuato tre aree subregionali, la città, la pianura e il Frignano. Lo statuto cittadino del 1327, di origine comunale, venne utilizzato in età signorile integrato da additiones. La pianura fu caratterizzata da due tipi di produzione, una controllata dalle signorie dei Pio (Carpi) e dei Pico (Mirandola), l'altra direttamente sottoposta agli estensi (Nonantola, S. Felice e Finale). Il comune federale del Frignano, invece, forte di una grande tradizione autonomistica, testimoniata anche dalla produzione statutaria del XV secolo, vide riconosciuti gli statuti (1337-38) dalla città e poco dopo diventò provincia. Dunque, benché lo stato estense abbia subordinato la normativa locale, in essa prevalse la tradizione dello ius proprium, principio di base per il mantenimento di ambiti decisionali autonomi.

Francesco PANERO (Università di Genova) ha svolto la relazione Autonomie urbane e rurali nel Piemonte basso medievale: aspetti e problemi, distinguendo i centri urbani e para-urbani, proiettati verso la conquista del territorio, da quelli castrensi e rurali, soggetti ai signori locali e alle prime due forme comunalistiche. Per analizzare le caratteristiche evolutive delle autonomie locali, oltre agli statuti, si devono considerare le consuetudini (franchigie, diplomi imperiali, patti fra comunità e signorie), sedimentatesi dopo l'età carolingia e aventi funzioni normative private e pubbliche. Ad eccezione di Alessandria e di Vercelli, l'origine delle autonomie di Biandrate, Torino, Novara e Ivrea, avvenne all'ombra di vescovadi invadenti, mentre quelle dei comuni delle valli alpine, come la Valdossola, si sviluppò nell'interesse per la tutela dei beni comuni, in rapporto dialettico coi signori locali.

La quarta ed ultima sessione del convegno è stata presieduta da Giorgio CHITTOLINI (Università di Milano) e avviata da Gian Maria VARANINI (Università di Trento) che si è occupato de Gli statuti quattrocenteschi nella Terraferma veneziana relativi a Verona, Vicenza, Padova e Treviso. Per tali città lo statuto rimase il principale strumento normativo interno e il cardine amministrativo del loro dominio sul contado. Le commissioni formate da patrizi e giurisperiti cittadini, incaricate di compilare i corpi normativi, dovevano però adattare le loro esigenze alla sovranità veneziana. Infatti Venezia dal punto di vista politico e istituzionale confermava la propria superiorità, mentre da quello sociale ed economico interveniva rispettando maggiormente le realtà locali, purché non fossero in contrasto con i suoi interessi. La presenza veneziana si sostanziava nel prelievo fiscale, nell'apparato burocratico e nel contributo richiesto per la difesa militare.

Le carte di regola delle comunità trentine dal Medioevo all'età moderna sono state al centro dell'intervento di Mauro NEQUIRITO (Università di Trento), che ha chiarito come esse abbiano sancito in sede locale dal XIII al XVIII secolo, il carattere giuridico del rapporto fra i singoli abitanti, la comunità, rappresentata dall'assemblea dei capifamiglia e i territori di loro pertinenza. Tali carte, fissate negli statuti, venivano controllate da famiglie nobili o dal vescovo, il quale però doveva figurare presente nella redazione di tutte. D'altronde ogni forma normativa, anche quella statutaria di valle (Val di Fiemme), trentina e tirolese fu quasi sempre fortemente condizionata dalla presenza vescovile principesca, in un contesto politico e amministrativo imperiale asburgico per molti aspetti diverso da quello italiano.

Michele ZACCHIGNA (Università di Trieste) ha invece svolto la relazione su Strutturazioni signorili e comunità in Friuli fra i secoli XIV e XV, in cui ha trattato il delicato passaggio della regione dalla signoria patriarchina di Aquileia al dominio di Venezia. Questo cambiamento vide protagonisti in primo piano l'aristocrazia friulana, da tempo inurbata e in via di strutturazione proprio alla fine del XIV secolo, e sullo sfondo le deboli comunità cittadine, che espressero negli statuti la mancata sottomissione del contado. In certi casi furono gli stessi nobili a favorire la compilazione di corpi normativi per consolidare la propria posizione di dominio sul territorio. Come nel Veneto, anche nel Friuli, Venezia provvide ad imporre la propria sovranità, procedendo alla revisione delle normative locali senza incidere molto.

Prima delle conclusioni Francesca BOCCHI ha presentato il volume La storia come storia della civiltà, che raccoglie i contributi della giornata di studi, tenuta il 3 aprile nella Facoltà di Magistero di Bologna, in onore di Gina Fasoli scomparsa il 18 maggio 1992. La relatrice ha ricordato la carriera accademica e il valore scientifico della grande studiosa delle città medievali, cui va anche il merito di avere posto le basi per la realizzazione del convegno.

Giovanni CHERUBINI (Università di Firenze) nelle sue Conclusioni ha sottolineato come dal convegno sia emerso un quadro delle autonomie locali molto diversificato da una regione all'altra. Tuttavia l'eterogeneità della complessa situazione italiana è stata finalmente studiata su un terreno di confronto unitario e metodologicamente omogeneo, perché orientato alla lettura storico-sociale e storico-politica dell'intero patrimonio normativo nazionale. Nelle analisi sono infatti confluite insieme agli statuti, fonti normative di diversa natura, che hanno permesso di porre utilissime basi per l'approfondimento di vaste tematiche sociali, politiche, economiche, amministrative relative alla vita locale. Visti i fecondi risultati scientifici raggiunti, si è auspicato che l'iniziativa abbia un seguito sotto la direzione di un comitato nazionale permanente.