Andrea Gabban
Circa sessant’anni fa, la nascita della televisione segnava un avvenimento senza dubbio rivoluzionario nella Storia dell’umanità. Gli effetti di questo nuovo medium sono stati quanto mai pervasivi, cambiando profondamente lo stile di vita occidentale e la nostra attitudine nei confronti delle altre forme d’arte, sia quelle considerate popolari che quelle ritenute più nobili.
Quali conseguenze abbia avuto la TV sulla letteratura americana, al di là di facili isterismi e reazioni indignate, è il problema che si è posto David Foster Wallace nel suo saggio E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction (1990). La sua riflessione può rivelarsi preziosa per capire meglio il mondo in cui viviamo e l’opera letteraria dello stesso Wallace.
Secondo una ricerca, nel terzo quadrimestre del 2018, i cittadini americani avrebbero fatto uso di apparecchi elettronici per poco più di dieci ore al giorno, di cui circa il 40% è costituito dalla fruizione di programmi televisivi. Nel 1990 - quando Internet era agli albori e servizi di streaming come Netflix ancora non esistevano - il tempo passato davanti alla TV salirebbe, secondo i dati riportati da Wallace a
«over six hours a day in the average American household», (Wallace,1990: 22)
facendone la seconda attività che occupa più tempo in una giornata dopo il sonno.
Le ragioni di tutto ciò sono da ricercare nel divertimento che i programmi televisivi sanno garantire allo spettatore, grazie alla loro capacità di coinvolgere senza chiedere nulla in cambio. Da questo punto di vista, Wallace sottolinea il parallelo tra la televisione e quelli che definisce «Special Treats» (Wallace, 1990: 37), vale a dire sostanze - come l’alcol o i dolci, - che sarebbero perfettamente innocue se assunte con moderazione, ma potenzialmente letali in grandi quantità. Come una bevanda alcolica, la televisione può quindi dare dipendenza, soprattutto a un soggetto debole come Joe Briefcase, l’immaginario americano medio che soffre di solitudine.
Esattamente come queste sostanze, la televisione causa dipendenza in quanto capace di offrirsi come sollievo per i problemi causati dal suo stesso eccessivo consumo, chiudendo potenzialmente l’individuo in un circolo vizioso da cui diventa difficile uscire. I programmi televisivi, secondo Wallace, non darebbero allo spettatore una mera possibilità di distrazione dalla vita quotidiana, ma proporrebbero dei veri e propri sogni capaci di trascenderla:
The modes or presentation [sic] that work best for TV - stuff like “action,” with shoot-outs and car wrecks, or the rapid-fire “collage” of commercials, news, and music videos, or the “hysteria” of prime-time soap and sitcoms with broad gestures, high voices, too much laughter - are unsubtle in their whispers that, somewhere, life is quicker, denser, more interesting, more… well, lively than contemporary life as Joe Briefcase knows it. (Wallace, 1990: 39)
Il problema sorge poiché l’unica via d’accesso a questi sogni è la televisione stessa. Joe Briefcase, nella sua ricerca di un modo per sfuggire alla piattezza di una vita passata davanti alla TV, vede la possibilità di un mondo dominato dall’azione che gli appare molto più vivo del proprio, ma per poter continuare a vederlo non ha altro modo che rimanere attaccato a quella dipendenza dalla quale cercava così disperatamente di sfuggire.
La televisione, inoltre, presenta se stessa come una trasgressione, un piccolo strappo alla spesso immaginaria regola di seguire uno stile di vita sano. In uno spot pubblicitario citato da Wallace (1990: 41), un cinico cucciolo dei fumetti, come Snoopy o Garfield, si rivolge allo spettatore invitandolo a farsi una scorpacciata e guardare un sacco di TV.
Un primo punto di contatto con la letteratura contemporanea è l’autoreferenzialità che soggiace sia a questo spot che allo stesso circolo vizioso che la televisione in quanto Special Treat rischia di causare. Infatti, questi fenomeni, che potremmo definire di metatelevisione, sono del tutto analoghi alla metafiction dominante nei romanzi americani riconducibili alla corrente del postmodernismo, sviluppatasi tra gli anni ‘50 e ‘60. Si tratta, in altre parole, di forme d’arte che hanno come tema nient’altro che se stesse e perciò possono stimolare il loro fruitore a ragionare sui meccanismi profondi che regolano la realtà, oppure distaccarsi pericolosamente da essa e non proporre altro che un cinismo di maniera.
Questo contatto sarebbe ancora più profondo, in quanto Wallace sottolinea come i primi esperimenti postmodernisti siano avvenuti negli stessi anni in cui la televisione stabilizzava il suo ruolo di primo piano nella vita degli americani:
Metafictionists may have had aesthetic theories out the bazoo, but they were also sentient citizens of a community that was exchanging an old idea of itself as a nation of do-ers and be-ers for a new vision of the U.S.A. as an atomized mass of self-conscious watchers and appearers. (Wallace, 1990:34)
Da qui deriva il titolo del saggio: E Unibus Pluram (Dai singoli, la moltitudine) è l’inversione della frase latina che è stata per anni il motto degli Stati Uniti, E Pluribus Unum (Dai molti, il singolo). Se, infatti, l’America ha rappresentato da sempre il sogno dell’integrazione della diversità in un’unica Nazione, con l’avvento della TV, l’americano è un singolo, isolato sul suo divano, che partecipa a una immensa moltitudine di spettatori, pur rimanendo bloccato nella sua solitudine.
Tra le varie critiche - che Wallace rifiuta con decisione - spesso mosse ai programmi televisivi spiccano senza dubbio quelle che li accusano di trivialità e impoverimento della vita intellettuale di chi guarda. Questi attacchi sono così diffusi da essere captati anche dalla televisione stessa, che li ha dunque fatti propri, rovesciandoli con ironia.
L’ironia televisiva consiste per Wallace nello iato che si crea tra ciò che si vede e ciò che si sente. Ad esempio, è ironico - in modo forse un po’ nero - che un dirigente di una multinazionale vestito di tutto punto abbia dichiarato durante un’intervista negli anni ‘70 che l’oppressione delle minoranze nei Paesi sottosviluppati non sarebbe stata altro che un’invenzione giornalistica, proprio mentre le sue parole erano accompagnate dalle immagini di bambini che vivevano negli slums del Guatemala.
Anche i romanzi postmodernisti sono spesso caratterizzati da questo uso dell’ironia. Secondo Wallace, la letteratura americana del secondo Novecento si può classificare, in base ai suoi rapporti con la cultura pop e i nuovi media, in tre fasi. Nella prima, quella dei «postmodern church fathers» (Wallace 1990: 50) degli anni ‘60, tra cui spiccano John Barth e Thomas Pynchon, le immagini pop erano utilizzate come simboli. Nei due decenni successivi, invece, gli autori della seconda fase cominciarono a utilizzare quelle stesse immagini come soggetti per le loro opere. Infine, la situazione contemporanea vede emergere una nuova tendenza, la cosiddetta «Image-Fiction» (ibidem) - cui appartengono testi come You Bright and Risen Angels (1987) di William T. Vollmann e Great Jones Street (1973) di Don DeLillo - che utilizzerebbe i miti della cultura pop come un mondo in cui ambientare le sue storie.
La Image-Fiction si presenta come un adattamento alla nuova realtà elettrica del tradizionale realismo dell’Occidente. Se, infatti, nel passato il realismo ha favorito la permeabilità delle nostre frontiere culturali, rendendo spesso familiare lo strano, nella realtà contemporanea, in cui dominano i non-luoghi - costituiti di un mix di culture diverse avvicinate acriticamente - il nuovo realismo si pone l’obiettivo di «make the familiar strange» (Wallace, 1990 52). In questo senso, la new wave della letteratura americana si propone di andare al di là delle illusioni mediali che sembrava adottare e cercare di ricostruire un mondo realmente tridimensionale in cui immaginare una possibilità di vita umana.
Qualcosa, però, sembra andare irrimediabilmente storto nei tentativi di questi autori. Wallace, infatti, sostiene che le loro opere finiscono per degenerare in una specie di visione dietro le quinte del mondo della televisione, ottenendo un risultato piuttosto superficiale. La ragione di tutto ciò andrebbe ricercata proprio nel loro uso dell’ironia. Il percorso compiuto da questa figura retorica nella televisione - da critica feroce a innocua risata su se stessi - ha avuto pesanti ripercussioni anche sulla storia letteraria:
The reason why today’s Image-Fiction isn’t the rescue from a passive, addictive TV-psychology that it tries so hard to be is that most Image-Fiction writers render their material with the same tone of irony and self-consciousness that their ancestors, the literary insurgents of Beat and postmodernism, used so effectively to rebel against their own world and context. (Wallace, 1990 52)
L’ironia ha avuto inoltre un altro effetto sulla psicologia del pubblico. Analizzando gli spot pubblicitari più diffusi in TV, Wallace nota come negli anni ‘80 sia avvenuto un cambio di paradigma dai valori di appartenenza al gruppo che dominavano la retorica dei decenni precedenti alla nuova enfasi posta sul distaccarsi dalla massa. Questa nuova retorica - che si inserisce nell’infinito dibattito culturale americano tra individualismo e senso della comunità - potrebbe essere deleteria per persone come Joe Briefcase che, riflettendo sulla loro abitudine di guardare la TV in dosi massicce, colgono certamente la contraddizione di appartenere a un gruppo composto da milioni di spettatori a cui viene continuamente detto che la vita consisterebbe nello staccarsi dal gruppo.
Per questa ragione, dunque, la televisione assume un atteggiamento ironico, talvolta anche irriverente, inserendosi in un altro cambiamento epocale nella percezione degli americani, che sono passati da un concetto dell’arte come affermazione di alcuni valori a uno che vede nella distruzione dei disvalori il ruolo dell’espressione artistica. Ciò sarebbe evidente soprattutto paragonando due figure di autorità provenienti dai telefilm: il capitano Kirk di Star Trek e l’agente speciale Dale Cooper di Twin Peaks. Quest’ultimo, in particolare, pur essendo un portatore di valori esattamente come Kirk, è ammantato di un alone di ironia che porta talora il pubblico a prendersi gioco di lui e delle sue ossessioni - come la passione per il caffè e la torta di ciliegie - finendo così per prendere poco sul serio tutto ciò che comunica.
In questo modo, l’ironia televisiva convince Joe Briefcase che fa sì parte di una massa indistinta di milioni di spettatori, ma è al contempo uno dei pochi - l’unico, forse? - a riuscire a cogliere questa capacità di prendersi in giro in programmi che il resto del gruppo fruisce senza notarne l’aspetto comico. Un ulteriore vantaggio che la televisione trae dal nuovo concetto di arte è la formazione di un vuoto di autorità, che essa stessa può riempire, in quanto medium che contribuisce così pesantemente a formare la nostra visione del mondo.
Il problema dell’ironia consiste, però, nell’avere una funzione essenzialmente negativa. In altre parole, funziona perfettamente nelle mani di un Pynchon o un Barth quando si tratta di mostrare l’ipocrisia della narrazione che gli Stati Uniti facevano di loro stessi negli anni ‘60 e ‘70, ma si rivela del tutto inadeguata se messa di fronte alla necessità di trovare qualcosa con cui sostituire la suddetta narrazione. Inoltre, l’uso massiccio di questa figura retorica da parte di media come la TV crea un problema di sovraesposizione, che la fanno passare da strumento di emergenza a voce di ostaggi che hanno cominciato ad apprezzare la loro gabbia.
Com’è possibile, allora, sfuggire dalla dipendenza e dall’assuefazione all’ironia che la televisione comunica? Guardandosi intorno, Wallace distingue diverse strategie, messe in atto dalle personalità più disparate, che però trova tutte in qualche modo difettose. L’ironia è stata così interiorizzata che anche lo scrittore, esposto alla televisione come tutti gli altri americani, la usa inconsapevolmente contro soluzioni che gli sembrano poco convincenti.
Una prima via di scampo consiste in una chiusura reazionaria nell’ideale di una presunta età dell’oro pre-televisiva, che renderebbe, secondo Wallace, «pro-Life, anti-Fluoride, antediluvian» (Wallace, 1990:69). Oltre all’ovvia insensatezza di rifiutare totalmente un progresso ormai esistente e stabilizzatosi da sessant’anni, questa strategia è stata resa impraticabile dall’ascesa politica dell'ala repubblicana negli anni '80. Presidenti come Reagan o i due Bush avrebbero riattualizzato l’ipocrisia della società contro cui si era mossa la prima generazione dei postmodernisti (ivi: 69s.). Queste posizioni, inoltre, sono altrettanto suscettibili allo sfruttamento da parte delle compagnie commerciali della TV quanto il cinismo attuale.
La seconda tesi, propugnata tra gli altri da George Gilder in Life After Television (1990), si posiziona su un piano di conservatorismo moderato e di grande fiducia nello sviluppo tecnologico. In particolare, Gilder sostiene che la televisione, pur avendo molti pregi, sarebbe caratterizzata da altrettanti difetti, imputabili a un grado insufficiente di progresso nella tecnologia dell’apparecchio televisivo. La sua struttura ancora dipendente dal tubo catodico farebbe sì che tutta l’elaborazione dei dati debba essere svolta dai network, creando un sistema che impone dall’alto la sua visione del mondo a milioni di ricevitori passivi. Questa struttura top-down sarebbe destinata a scomparire, nell’utopia di Gilder, grazie alla comparsa della fibra ottica e del microchip. Le nuove tecnologie, infatti, consentirebbero una maggiore partecipazione da parte degli spettatori, anche grazie a un apparecchio televisivo capace di elaborare autonomamente i dati forniti dalle emittenti per il pubblico.
A distanza di quasi trent’anni, con l’avvento del Web 2.0 - nel quale domina l’informazione prodotta direttamente dall’utente attraverso i blog o i social, - è facile scartare la visione di Gilder come una profezia eccessivamente ottimista. Anche nel 1990, però, Wallace la trovava ugualmente fallace: più che fare in modo di coinvolgere lo spettatore passivo, Gilder lo rassicura, dicendogli che la colpa non è sua, ma della tecnologia superata che utilizza e propone un’alternativa che avrebbe come unico effetto quello di aumentare la concorrenza e dare più possibilità di scelta. Il pubblico si troverebbe così semplicemente intrappolato in una spirale ancora più profonda di immagini quasi uguali alla realtà e facilmente impiegabili a fini commerciali.
Una terza via per superare i problemi del consumo contemporaneo di programmi televisivi è quella attuata da scrittori alla moda come Mark Leyner nel suo My Cousin, My Gastroenterologist (1990). Leyner finge, secondo Wallace, di superare l’ironia televisiva, celebrandola di fatto in un testo che unisce il pastiche - la tecnica di fondere insieme registri diversi - a una parodia della televisione stessa. Il risultato è una prosa composta di brevi spezzoni, che spesso violano le regole grammaticali, accostati nel modo apparentemente incoerente caratteristico della poesia come del romanzo dell’assurdo.
Leyner finisce così per creare una distopia basata sulle idee di Gilder: i suoi personaggi sono ancora intrappolati nella passività della fruizione rispetto ai programmi televisivi a cui abbondano i riferimenti nei loro discorsi semiseri. Inoltre, Wallace lamenta come la possibilità di decostruire ogni esperienza, riducendola a un breve frammento da inserire qua o là nella narrazione, creerebbe un ambiente quasi tirannico in cui lo spettatore si sente schiacciato da un’eccessiva possibilità di scelta.
My Cousin, My Gastroenterologist presenta perfettamente il lato oscuro dell’Image-Fiction. Il suo intento sarebbe, infatti, quello di stupire continuamente il lettore, per fare in modo che si diverta e continui a leggere: esattamente ciò che fa la televisione. Le strategie messe in atto per ottenere questo risultato sono duplici: da un lato, il tentativo di adulare il lettore con continui riferimenti eruditi di stampo postmoderno; dall’altro, l’insistenza nel mettere in mostra l’intelligenza e la verve umoristica dell’autore.
Dopo aver constatato il fallimento di queste tre proposte, Wallace chiude E Unibus Pluram senza una vera e propria soluzione ai problemi causati dalla TV. Al suo posto, presenta una profezia, secondo la quale l’impasse sarà sbloccata dall’arrivo di nuovi ribelli, che sapranno ridare un aspetto umano alla letteratura:
The next real literary “rebels” in this country might well emerge as some weird bunch of anti-rebels, born oglers who dare somehow to back away from ironic watching, who have the childish gall actually to endorse and instantiate single-entendre principles. Who treat of plain old untrendy human troubles and emotions in U.S. life with reverence and conviction. Who eschew self-consciousness and hip fatigue. (Wallace, 1990: 81)
In realtà, un primo tentativo di parlare criticamente della solitudine e dell’ironia connesse con la televisione può essere visto nella produzione letteraria dello stesso Wallace, che affronta di petto i problemi messi in evidenza nei suoi saggi.
Nel racconto My Appearance, contenuto in Girl with Curious Hair (1989), Edilyn, una modesta attrice di serie televisive, partecipa al celebre talk show “Late Night with David Letterman”. Preoccupato dallo stile di Letterman - che appare come una sorta di personificazione dell’ironia televisiva - il marito la istruisce, prima e durante lo show, su come comportarsi, anticipando in gran parte le argomentazioni di E Unibus Pluram. Ciò che salva il racconto dall’essere l’ennesimo dietro le quinte tipico dell’Image-Fiction è il colpo di scena finale, in cui Wallace rivela che l’intero plot televisivo era un semplice meccanismo per far luce sulla relazione tra i due protagonisti. L’attrice, infatti, disattende le istruzioni - che, provenendo da un produttore televisivo, pongono l’enfasi sull’apparire, piuttosto che sull’essere, - rivelando apertamente le sue fragilità e i suoi dubbi esistenziali nel modo fortemente autoironico che riesce a tenere a bada Letterman. Una volta in auto con il marito, però, l’incapacità di costui di riconoscere che durante lo show Edilyn non stava recitando scatena in lei la consapevolezza che la vera finzione era in realtà la loro vita coniugale.
D’altro canto, Infinite Jest (1996), senza dubbio il romanzo più famoso di Wallace, dirige l’attenzione sulla dipendenza dai nuovi media così diffusa nella nostra società immaginandone una versione distopica. Nel mondo del romanzo, infatti, gli uomini vivono come hikikomori, sempre chiusi in casa davanti a un televisore che permette loro persino di fare la spesa senza muoversi, impedendo così di distrarsi dalla costante ricerca di intrattenimento. Alcuni dei protagonisti, però, sono ex-tossicodipendenti che sembrano aver trovato nelle associazioni della galassia degli Alcolisti Anonimi una via di fuga da ogni tipo di dipendenza, attraverso il forte senso della comunità - talora persino opprimente - e i suoi cliché, nei quali Wallace intravede una verità profonda a cui aggrapparsi nei momenti di maggiore difficoltà.
L’avvento della televisione ha determinato un cambiamento profondo nella psicologia degli americani, che contestualmente hanno modificato la loro concezione dell’autorità come dell’arte. Le novità più rilevanti sono state senza dubbio quelle sottolineate da Wallace: la sovraesposizione quotidiana a un medium sostanzialmente autoreferenziale e la diffusione capillare dell’ironia.
Quest’ultima ha finito per trasformarsi in una vera e propria gabbia, minando alla base molti dei tentativi di scrittori e ideologi di imprimere un miglioramento nell’impatto della TV sul suo pubblico. A causa dell’ironia, infatti, è sempre possibile volgere in ridicolo le argomentazioni di costoro, mantenendo il tono divertito dei più noti conduttori di talk show.
In attesa dei nuovi ribelli paventati nella conclusione di E Unibus Pluram, però, David Foster Wallace sembra aver trovato un modo di fare letteratura che sia al contempo critico - entro i limiti della ragionevolezza - contro l’ambiente televisivo e caratterizzato da una rinnovata attenzione per l’umano. Proprio in questa capacità di riportare il focus sulle persone, con le loro fragilità e i loro processi psicologici complessi, risiederebbe dunque il compito della letteratura nell’epoca contemporanea.
Wallace D. F., My Appearance, Abacus, London 1997.
Wallace D. F., Girl with Curious Hair, Abacus, London 1997.
Wallace D. F, E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction, Abacus, London 1998.
Wallace D. F, A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again. Essays and Arguments, Abacus, London 1998.
Wallace D. F, Infinite Jest, Abacus, London 1997.