Andrea Gabban
Nel 1996 l’uscita del videogioco Tomb Raider, sviluppato dalla casa inglese Eidos Interactive per pressoché tutte le console dell’epoca, portò una rivoluzione nella cultura popolare, diventando uno dei franchise più noti del mondo videoludico per essersi diffuso anche al di fuori dei circoli degli appassionati. La ragione di questo successo è dovuta in gran parte al carisma della sua protagonista, l’archeologa Lara Croft, un misto di intelligenza e sensualità che ha ammaliato milioni di giocatori virtuali.
Proprio a questo inedito (e per certi versi inquietante) rapporto tra la protagonista e i suoi ammiratori lo scrittore e artista canadese Douglas Coupland ha dedicato il suo Lara’s Book. Lara Croft and the Tomb Raider Phenomenon (1998), che fa proprie le caratteristiche della guida strategica (tipicamente diffusa nell’universo dei giochi elettronici) per esplorare l’impatto del medium "videogioco" e l’effetto delle sue narrazioni. Il testo di Coupland è interessante anzitutto per il momento storico in cui è uscito, cioè agli albori di quel matrimonio tra le varie forme di storytelling attraverso i nuovi media e la galassia Internet che stava allora muovendo i suoi primi passi verso la pervasività di cui gode oggi.
Uno degli aspetti più evidenti del personaggio di Lara Croft è la sua rispondenza a canoni estetici (spesso inverosimili) che la società tende a imporre alla figura femminile. Anche nelle sue prime versioni, meno definite a causa degli standard grafici particolarmente bassi delle tecnologie del tempo, l’eroina di Tomb Raider mette in mostra “misure perfette”: seno prosperoso, vita stretta e fianchi larghi. Rispetto agli eroi dei videogiochi dei decenni precedenti - basti pensare a personaggi come Donkey Kong o Super Mario - il cambiamento è evidente e la natura di «digital love affair» (Coupland 1998) del rapporto tra Lara e i giocatori è impossibile da ignorare.
Partendo dal presupposto che le rappresentazioni mediali sono tutt’altro che neutre, la creazione di un modello di donna come Lara Croft, che abbina alla bellezza anche una notevole intelligenza, appare senza dubbio un passo in avanti rispetto alle icone del cinema del Novecento. Le attrici di Hollywood, infatti, venivano spesso scelte unicamente per il loro aspetto fisico, talora anche a discapito dell’individualità, come suggellato da una sgradevole battuta del grande regista Cecil B. DeMille, secondo il quale «the average Hollywood glamour girl should be numbered instead of named» (in McLuhan 1951: 96).
In questo senso, il videogioco è il medium più rappresentativo di un’epoca in cui l’essere umano sembra, in termini mcluhaniani, aver esteso la propria mente attraverso la Rete anche a discapito delle relazioni faccia a faccia. Un tale stile di vita sembra voler scardinare il ruolo della donna dalle sue funzioni imposte dalla società industriale del Novecento, suggellando un innegabile passo in avanti verso la liberazione della figura femminile dalla tirannia del corpo, di mera tradizione sessista.
Tuttavia, la pressione esercitata sulle giocatrici da una figura come quella dell’archeologa di Tomb Raider dimostra come Lara Croft entri in contrasto con la rappresentazione della donna emancipata. Per quanto Coupland (1998: 49) si sforzi di descriverla come «a composition of devastating force, set against a backdrop of intelligence and intuition», è pure incontestabile che i suoi tratti fisici finiscano più immediatamente al centro dei riflettori. A ciò si aggiungono gli effetti sonori esibiti dal videogioco: ogni volta che Lara compie uno dei suoi salti al limite delle capacità umane, infatti, si sentono gemiti fin troppo simili all’immaginario sessuale comunemente diffuso dalle pellicole pornografiche, al punto che a vent’anni di distanza non rimane più nulla di Lara Croft come icona femminista nel mondo del gaming, quanto piuttosto un'immagine ipersessualizzata.
La ragione di questa scelta è da ricercare nelle dinamiche commerciali a cui i videogiochi (come e più di altri media) devono sottostare. Al pregiudizio di giudicare una donna solo per il suo aspetto fisico si sovrappongono quelli dell’industria videoludica per cui i destinatari di questo medium sarebbero per lo più maschi eterosessuali. Nonostante questi cliché siano oggi abbondantemente superati, le aziende di sviluppo non paiono tenerne conto. Lara Croft continua a essere anche il simbolo di questo problema di rappresentazione. Il reboot di Lara Croft del 2013 ispirato all’attrice Alicia Vikander sembra essere mosso più da un cambiamento dei canoni di bellezza femminile che da una vera volontà di eliminare i tratti ipersessualizzati dell’archeologa, come dimostra anche la persistenza dei fastidiosi gemiti.
L’uso da parte di Coupland di un medium diverso da quello videoludico permette di focalizzarsi, invece, su altri aspetti tra cui le caratteristiche mentali e comportamentali del personaggio. Certo, Lara Croft è molto intelligente, ma è dotata di un’intelligenza estremamente pratica, ben diversa da quella dello studioso che riesce a trovare nuove soluzioni ai problemi millenari di cui è animata la trama del videogioco. Come la sua controparte cinematografica (e maschile) Indiana Jones, anche la protagonista di Tomb Raider viene mostrata solo raramente in classe e molto più spesso mentre è impegnata in avventure degne di un detective o una spia.
Bisogna poi notare come il linguaggio videoludico abbia avuto, fino alla diffusione su larga scala del voice acting, una tendenza a limitare la componente verbale e narrare le vicende in gran parte attraverso le immagini. In questo senso, l’esempio di Super Mario è paradigmatico, in quanto l’unico messaggio che vi si legge è sempre lo stesso: la principessa Peach è imprigionata in un altro castello e attende di essere salvata. Appartenente a una fase tecnologicamente più avanzata, Tomb Raider prevede qualche porzione animata che illustra le scene più importanti della trama, oltre che alcune linee di testo, ma la componente visuale rimane di gran lunga preponderante. È un mistero, dunque, ciò che Lara Croft pensi ed è lo stesso mezzo di comunicazione a impedire, almeno nel genere dell’action-adventure, un maggiore approfondimento psicologico del personaggio.
È da questo punto che parte Coupland: per riuscire a conoscere lo spessore psicologico dell’archeologa possiamo servirci solo della letteratura, lasciando al videogioco il potere di controllarne il corpo. Il dualismo corpo-mente, presente nella cultura umana fin dall’alba di ogni pensiero metafisico si ripresenta ora in una versione forse più prosaica ma ugualmente pressante in quelli che sono stati definiti i «miti a bassa intensità» (Ortoleva 2019), vale a dire i racconti diffusi dai media elettrici che occupano una larga parte della nostra vita quotidiana.
Secondo Coupland (1998: 23), le ossessioni dei giovani possono servire come chiave di accesso al futuro prossimo: «the best way to figure out what human beings are going to be making in the not-too distant future is to look into the recent past and see what the young people were fixating on».
Proprio guardando al passato, tra Ottocento e Novecento, ritorniamo a Jules Verne, che incarnava pienamente lo spirito del tempo, sperimentando con i suoi personaggi le nuove tecnologie dei suoi anni. Il suo testimone culturale fu raccolto a metà del XX secolo dalle spie à la James Bond di Ian Fleming ed è arrivato, nei giorni nostri, nelle mani della giovane archeologa di Tomb Raider. Questa progressione si porta dietro, nella visione di Marshall McLuhan, anche uno sviluppo di tipo mediale che va dai libri ai film fino ai videogiochi: qui assistiamo a un aumento progressivo del coinvolgimento del fruitore che, da una passiva lettura delle vicende narrate, diviene lui stesso il protagonista principale, controllando a suo piacimento il corpo di Lara.
Secondo l’ecologia dei media, ossia la prospettiva di studio che indaga come i mezzi di comunicazione influenzano la percezione della realtà, la linea di cambiamento evidenziata da Coupland porterebbe con sé un risorgere della mentalità tribale che la società moderna, basata sul medium della stampa, sembrava aver scacciato per sempre. In questo senso, il mestiere di Lara Croft è indicativo: il compito dell’archeologia è esattamente quello di scavare nelle testimonianze materiali delle civiltà, in modo tale da contribuire a ricostruirne lo stile di vita. Ciò è particolarmente importante nel caso delle civiltà di cui non ci sono rimaste testimonianze scritte, come quelle a cui si dedica Lara. L'esempio di Tomb Raider è dunque interessante perché il suo contenuto, vale a dire la storia narrata, coincide in modo particolarmente perturbante con la mentalità indotta dal medium nei suoi fruitori.
Come nel caso di Verne e della sua esplorazione delle tecnologie a vapore e in quello di Ian Fleming e il muoversi elegante e disinteressato della sua spia durante la Guerra Fredda, Lara Croft può dirci qualcosa sull’epoca che stiamo vivendo. Così come Lara vaga tra le rovine di un tempio precolombiano, in perfetta sintonia emotiva e cognitiva, anche noi, alle prese con le nuove tecnologie siamo intenti a sviluppare nuove capacità di adattamento, comprensione e coinvolgimento emotivo, a discapito invece della capacità analitica tipica dell’età moderna. In queste caratteristiche si nasconde il segreto dell’intelligenza di Lara Croft, che diventa così il modello non solo della donna, ma dell’essere umano in senso lato della fine del Ventesimo secolo.
A ciò si connette anche uno dei dibattiti più annosi a proposito dei videogiochi: la loro rappresentazione della violenza. Proprio in virtù della loro componente fortemente partecipativa, in cui è il giocatore stesso a prendere in mano le armi, questo medium ha da sempre sollevato polemiche su un suo supposto effetto diseducativo. Nello stesso anno in cui Coupland pubblica il suo libro su Lara Croft, infatti, in Italia tutte le copie della pietra miliare dell’horror Resident Evil 2 venivano sequestrate dai carabinieri con l’accusa di istigazione al suicidio, nonostante nel gioco questo tema non fosse neppure accennato.
La prospettiva di Coupland, tuttavia, è diversa: l’ecologia dei media indaga i linguaggi della comunicazione piuttosto che i loro contenuti, che sono spesso visti come la componente di cui spesso l’opinione pubblica discute senza sapere che, nel frattempo, il medium sta cambiando le percezioni umane a livello più profondo. Già a proposito dei fumetti, a loro volta accusati di diffondere comportamenti antisociali, Marshall McLuhan (1964: 229s.) combatteva questa opinione superficiale:
The violence of an industrial and mechanical environment had to be lived and given meaning and motive in the nerves and viscera of the young. To live and experience anything is to translate its direct impact into many indirect forms of awareness. We provided the young with a shrill and raucous asphalt jungle, beside which any tropical animal jungle was as quiet and tame as a rabbit hutch. We called this normal. [...] When the entertainment industries tried to provide a reasonable facsimile of the ordinary city vehemence, eyebrows were raised.
La violenza nei videogiochi, dunque, suona come un avvertimento ben più grave di quello che si sarebbe portati a pensare grazie al senso comune. Il fatto che Lara Croft impugni sempre due pistole e non si faccia problemi a scaricare colpi su animali e umani che le si parano davanti non è un segnale dei rischi della gioventù ventura, esposta ai pericolosi influssi dei giochi elettronici. Al contrario, è il modo in cui l’industria dell’intrattenimento cerca di fare propria l’inquietudine giovanile per la svolta presa dal mondo dopo il crollo della cortina di ferro.
L’annuncio della «fine della Storia» (Fukuyama 1992) dopo la vittoria statunitense della Guerra Fredda assume un significato diverso da quello per cui era stata coniata. La diffusione dei media elettrici ha raggiunto, infatti, un punto tale da porre l’uomo al di fuori dal tempo lineare tipico della modernità, per riportarlo alla concezione di un ciclo eterno caratteristico delle società tribali. Parafrasando il Batman di Christopher Nolan, dunque, Lara Croft è l’eroina di cui abbiamo bisogno, capace di evidenziare questa svolta e incarnare le abilità che si ritengono necessarie per sopravviverle, esattamente come la figura di James Bond rifletteva il clima di sfiducia e senso di complotto creato dalla spartizione del mondo tra due superpotenze.
Il ruolo dell’ambiente è, dunque, più importante di quanto si tenda comunemente a pensare. L’uscita di Tomb Raider, in questo senso, si colloca in un momento storico particolarmente delicato. Sul piano geopolitico, la vittoria del modello di vita occidentale e capitalistico su quello comunista creava una situazione inedita in cui molti erano privati delle ideologie che contribuivano a dare senso alla loro vita e, nel frattempo, un nuovo potente medium stava facendo la sua comparsa: nel 1995, l’anno prima del debutto di Lara Croft, le prime e-mail cominciavano a dare forma al mondo iperconnesso in cui viviamo oggi. Si iniziò a diffondere così l’uso civile di Internet, fino ad allora familiare solo alla comunità accademica e a quella militare.
Sempre sensibile a questi mutamenti epocali, Coupland ne aveva già discusso nel suo romanzo Microserfs (1995) e anche sulle vicende dell’archeologa tiene d’occhio come la sua fama si veicoli soprattutto attraverso la rete. In Lara’s Book, infatti, è presente un lungo elenco di siti a tema dedicati in larga parte all’eroina, anziché al gioco in sé. La fascinazione per Lara Croft diventa per lo scrittore canadese l’esempio paradigmatico di come possano nascere e svilupparsi delle comunità sul web. Attorno a vari videogiochi, o anche anime come Neon Genesis Evangelion (1995-96), gli appassionati si radunavano grazie a Internet nei primi esempi di quelli che oggi chiamiamo “fandom”.
È questa una delle forme di tribalizzazione della società causate da internet: la nostra identità si definisce a partire dalle varie comunità a cui apparteniamo, da quelle legate a opinioni sociali e politiche a quelle connesse con le passioni con cui occupiamo il nostro tempo libero. Tutto ciò è di solito animato da una forte conflittualità, rivolta sia verso l’esterno che all'interno. Accade, infatti, di frequente non solo che due passioni diverse, come possono essere lo sport e i videogiochi, vengano contrapposte in scontri dialettici, ma anche che due visioni diverse all’interno di uno stesso hobby causino dissensi in una stessa comunità: quante volte si assiste a dibattiti sul fatto che il videogioco sia esso stesso uno sport, facendo leva sulla componente “gaming” del termine?
L’individuo si trova, dunque, in una situazione di perenne lotta, che assume talora una piega anche violenta sfociando nel cyberbullismo, nel tentativo di raggiungere una stabilità emotiva tra il gran numero di realtà particolari che gli gravitano attorno. Ognuno di noi è nella stessa situazione dell’abitante di un villaggio tribale, che deve fare i conti con un mondo diviso in piccole realtà sul quale aleggia lo spettro di un contesto più ampio di carattere globale. È questo l’effetto della globalizzazione, di cui Lara Croft è l’eroina più rappresentativa, divisa com’è tra i suoi dungeon precolombiani e la realtà cosmopolita dell’Inghilterra. Trovare un equilibrio e reagire a un tale dualismo è fondamentale per adattarsi alla situazione caotica dell’ambiente mediale contemporaneo, limitarne i danni e sopravvivere in modo stabile.
Per sottolineare questo fatto, Coupland (1998: 1) apre il suo testo facendo parlare Lara in modo quasi metanarrativo: quel «Some days I don’t really even feel like myself» rappresenta, infatti, un’ipotetica riflessione dell’archeologa sul fatto di essere la protagonista di un videogioco, costretta a compiere i movimenti imposti su di lei dal controller. Il rischio, tuttavia, è che a essere controllati, su un piano più alto, siano anche i giocatori, illusi di avere in mano le redini mentre invece stanno subendo passivamente l’influsso dell’ambiente in cui vivono, la cui trama e l'evoluzione degli eventi sarebbero già scritte. Già rendersi conto di questa situazione sarebbe, dunque, un primo fondamentale passo per liberarsi dalla tirannia della rete e dei colossi dell’intrattenimento.
La soluzione, ovviamente, non è quella di armarsi di due pistole e vagare in cerca di rovine azteche, ma mettere in campo strategie come quella di Coupland. L’ibridazione tra forme mediali diverse (in questo caso, il libro e il videogame) aiuta a far emergere gli aspetti più nascosti dell’influsso dei mezzi di comunicazione sul modo in cui interpretiamo la realtà. Che si tratti del problema delle questioni di genere, della Storia o di internet, il cortocircuito provocato dall’uso giocoso di linguaggi diversi dà spesso frutti molto interessanti.
Leggere il libro di Coupland, in questo modo, permette di svincolare Lara Croft dalla superficialità del discorso di massa e umanizzarla, rendendola simile ai giocatori stessi. Solo questa visione più profonda consente di mettere in atto un cambiamento concreto e radicale spingendoci a prendere consapevolezza dei problemi (ambientali e sociali, in primis) anziché venirne sommersi.
Coupland, Douglas (1995). Microserfs, New York: Harper Perennial, 2008.
— (1998). Lara’s Book. Lara Croft and the Tomb Raider Phenomenon, Rocklin (CA): Prima Publishing, 1998.
Fukuyama, Francis (1992). La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano: Rizzoli, 1992.
McLuhan, H. Marshall (1951). The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man, Corte Madera (CA): Gingko Press, 2001.
— (1964). Understanding Media: The Extensions of Man, ed. W. Terrence Gordon, Corte Madera (CA): Gingko Press, 2003.
Ortoleva, Peppino (2019). Miti a bassa intensità, Torino: Einaudi, 2019.
Foto 1 da Wikipedia (data di ultima consultazione: 17/09/21)
Foto 2 da Raiding the Globe (data di ultima consultazione: 17/09/21)
Foto 3 da The Coupland File (data di ultima consultazione: 17/09/21)