Perdere l’innocenza: Mark Twain e lo Stato Libero del Congo

Andrea Gabban

Tra le molte tragedie che hanno insanguinato la Storia del XX secolo, quella del cosiddetto Stato Libero del Congo ha sollevato un’indignazione forse inaudita per i primi del Novecento, soprattutto a causa delle reazioni ferme di molti scrittori, che si impegnarono in prima persona per suscitare la rivolta dell’opinione pubblica contro tali atrocità. L’esempio più noto è certamente quello di Joseph Conrad, che da queste vicende trasse spunto per il suo romanzo più famoso, Heart of Darkness (1899).


Negli Stati Uniti d’America fu Mark Twain a prendere a cuore il destino della comunità congolese, portandolo all’attenzione della politica durante numerosi incontri con esponenti del governo federale e pubblicando alcuni articoli su giornali e riviste. Tra i testi di Twain dedicati alla questione congolese spicca il pamphlet King Leopold’s Soliloquy (1905), in cui alle preoccupazioni umanitarie si unisce la formulazione di un punto di vista sul destino dell’America. Analizzeremo perciò tale opera, insieme alle vicende dello Stato Libero del Congo.

 

1. La gomma rossa

2. La fine della superiorità americana

3. I missionari e la croce

4. Conclusioni

5. Bibliografia

 

1. La gomma rossa

La storia dell’infiltrazione occidentale nel Congo ebbe inizio il 14 settembre 1876, quando l’esploratore inglese Henry Morton Stanley partì dal lago Tanganica per mappare la parte ancora inesplorata della regione e il corso del fiume da cui essa traeva il proprio nome. Contemporaneamente, a Bruxelles fu fondata l’Association Internationale Africaine, un’unione di comitati nazionali sotto la guida del re del Belgio Leopoldo II. L’obiettivo era fondare alcune stazioni europee nel continente, in modo tale da poter estendere la propria influenza in Africa con il pretesto di “civilizzare” ed evangelizzare i popoli indigeni.

A questo fine, Leopoldo II incaricò lo stesso Stanley, tornato in patria nel 1877, che ripartì dal 1879 al 1884 assieme a un manipolo di uomini. Per poter gettare le fondamenta di roccaforti come Stanley Falls (oggi Kisangani) e Stanley Pool (odierna Kinshasa), l’esploratore stipulò anche alcuni accordi con capi dei villaggi locali. Questi contratti, redatti in francese o in inglese, contenevano una clausola, inserita in seguito alle pressioni di Leopoldo II, che prevedeva la cessione esclusiva dello sfruttamento delle terre al sovrano belga, in cambio di casse di gin o collane di corallo.

Una volta ottenuto il possesso delle terre, il sovrano aveva bisogno di un riconoscimento da parte della comunità internazionale. Tra il 15 novembre 1884 e il 26 febbraio 1885 le potenze europee di riunirono alla cosiddetta Conferenza di Berlino, in cui decisero come spartirsi l’Africa dietro l’ormai usuale facciata dell’espansione della civiltà e del libero mercato. Lì, Leopoldo II propose di essere nominato sovrano dei territori conquistati per lui da Stanley, concedendo che, in caso di fallimento, la Francia, sua maggiore rivale nel Congo, potesse assumere il comando della totalità della zona. La proposta fu accettata e, dato che il Parlamento belga si rifiutava ostinatamente di annettere colonie, Leopoldo II assunse il territorio (che prese il nome di Stato Libero del Congo) tra i suoi possedimenti personali. La posizione degli Stati Uniti in questo evento di politica internazionale rimase ambigua: se ufficiosamente i delegati americani furono tra i primi ad acconsentire alle richieste del monarca belga (Van Reybrouck 2010: 69), quando si trattò di ratificare le decisioni della Conferenza, il neo-Presidente Grover Cleveland, che temeva per la tenuta della Dottrina Monroe, convinse il Congresso a pronunciarsi negativamente. Di conseguenza, gli Stati Uniti, nonostante gli accordi informali, non comparivano tra i firmatari ufficiali della Dichiarazione di Berlino (Hawkins 1978: 153).

Fin dai primi anni, il neonato Stato Libero del Congo fu caratterizzato da numerose turbolenze: oltre a sporadiche rivolte nei territori periferici, Leopoldo II si impegnò in azioni militari per debellare il commercio di schiavi, perpetrato soprattutto dai mercanti afro-arabi originari di Zanzibar, e per la conquista del Sud Sudan, su cui il monarca aveva messo gli occhi da tempo. Ad affrontare tali impegni bellici non fu l’esercito belga, del tutto indipendente dalla vicenda congolese, ma la Force Publique, un esercito coloniale composto di coscritti, prelevati spesso con la forza dai loro villaggi. Le nuove milizie ottennero risultati altalenanti: il dominio degli afro-arabi fu definitivamente spezzato, sostituito dalle coercizioni dell’amministrazione dei bianchi ai danni dei locali, mentre la campagna in Sudan si concluse prima ancora di iniziare, con l’ammutinamento di massa della fanteria e alcuni disordini nelle caserme.

A Bruxelles, Leopoldo II fu duramente colpito da queste iniziative, al punto di perdere gran parte del suo patrimonio personale ed essere costretto a chiedere aiuto finanziario al Parlamento belga per sostenere le proprie spese coloniali. La svolta arrivò nel 1888, quando John Boyd Dunlop sfruttò il processo di vulcanizzazione della gomma, ottenibile in grande quantità dagli alberi in Congo, per fabbricare pneumatici. La nuova risorsa naturale permetteva a Leopoldo II di risolvere a un tempo il problema della penuria di avorio, dovuto alla caccia diffusa degli elefanti, e quello della riscossione delle tasse nei suoi nuovi possedimenti. Il sovrano decise, infatti, di farsi pagare in natura, imponendo a ogni villaggio di consegnare periodicamente una quantità di gomma che dipendeva dal numero dei suoi abitanti.

A causa della scarsa presenza belga sul territorio, concentrata per lo più attorno alle stazioni di Stanley, questa nuova tassa non poteva essere riscossa direttamente dall’amministrazione. Si decise, pertanto, di affidare il compito ad aziende private, controllate in parte dai funzionari coloniali belgi. lavoratori di queste compagnie, però, erano pagati in base alla quantità di gomma che riuscivano a farsi consegnare. In questo modo, si creò un sistema implacabile che vessava i congolesi per ricavarne un profitto in costante aumento.

I metodi utilizzati si distinguevano per la loro estrema brutalità: i capi locali delle concessionarie reclutavano uomini africani e li armavano per andare a riscuotere il tributo in territori abitati da tribù rivali, per evitare ogni possibile solidarietà. Nei villaggi, anziani, donne e bambini venivano sequestrati dagli esattori fino a quando gli uomini non tornavano da viaggi che spesso richiedevano giorni con la quantità di gomma richiesta. Spesso, se le ceste non erano abbastanza piene, gli ostaggi venivano uccisi con un colpo di pistola e la loro mano destra veniva tagliata, perché i bianchi volevano assicurarsi che i loro agenti africani non sprecassero proiettili per cacciare. In aggiunta a tutte queste violenze, gli stupri erano molto diffusi e i cadaveri mutilati venivano esposti per mostrare a tutto il villaggio il destino di chi non soddisfava le richieste della nuova amministrazione di Leopoldo II. Gli stessi funzionari belgi, pienamente consapevoli di ciò che accadeva, prendevano parte agli abusi e sfogavano il loro razzismo rendendo più feroci le pene corporali previste dalla legge - ad esempio, colpendo i detenuti con fruste nodose anziché piatte, - oppure sparando a vista sui passanti da dietro le mura di casa (Van Reybrouck 2010: 106-109; Anstey 1971: 66s.).

Presto, alcune voci di denuncia giunsero in Europa. Furono principalmente i missionari, presenti in Congo fin dall’arrivo di Stanley e macchiatisi della distruzione di numerosi idoli della religione autoctona, a raccogliere i racconti delle vittime e portarli all’attenzione della stampa. Inizialmente, però, prevalse l’incredulità: grazie ai motivi umanitari con cui aveva ammantato la sua volontà di espansione coloniale, Leopoldo II godeva di una fama di filantropo presso l’opinione pubblica europea. Inoltre, poiché le accuse provenivano in gran parte dai missionari protestanti, le autorità del Belgio - paese a maggioranza cattolica - tentarono di derubricarle a sintomi di una rivalità confessionale, dovuta ai maggiori proseliti che la Chiesa romana stava facendo tra la popolazione congolese.

La gran parte delle incredulità cessò nel 1904, quando Roger Casement, ambasciatore britannico a Boma - sede dell’amministrazione dello Stato Libero del Congo, - pubblicò un rapporto in cui raccoglieva i racconti della popolazione che dimostravano come le violenze denunciate dai missionari corrispondessero a realtà. Lo stesso Casement si impegnò in prima persona insieme al giornalista Edmund Dene Morel e fondò in Inghilterra la Congo Reform Association, un’organizzazione umanitaria tesa a denunciare le violazioni nello Stato Libero e fare pressione sui governi occidentali affinché ponessero fine al dominio del terrore di Leopoldo II.

 

2. La fine della superiorità americana

Il 17 ottobre 1904, quando ricevette la visita dello stesso Morel nella sua casa di New York, Mark Twain era già noto come uno scrittore profondamente critico nei confronti della politica coloniale che caratterizzava le potenze occidentali in quegli anni. Per questa ragione, la proposta di Morel di collaborare alla causa del ramo americano della Congo Reform Association suscitò l’effetto sperato e Twain decise di scrivere un pamphlet. Basandosi sui libri di denuncia che gli erano stati inviati da Morel, iniziò subito a lavorare alla stesura di King Leopold’s Soliloquy, che terminò il 22 febbraio 1905, quando ne diede lettura davanti a sua nuora e alla sua segretaria.

L’effetto che ottenne sulle due donne, però, fu completamente diverso da quello degli editori della North American Review, periodico sul quale Twain aveva pubblicato i suoi precedenti articoli anti-imperialisti. Costoro, infatti, rifiutarono il testo, che dovette perciò essere pubblicato presso un editore indipendente a spese della Congo Reform Association. Le ragioni del rifiuto sono probabilmente da ricercare nello scandalo che le accuse mosse da Twain avrebbero suscitato, in quanto andavano a colpire al cuore l’identità nazionale americana, a cominciare dal suo ideale fondante: la libertà.

Fin dalla prima pagina del testo, infatti, il lettore viene accolto da due dichiarazioni di accademici belgi, disposte significativamente a forma di croce, delle quali la prima, attribuita a un docente dell’Università di Bruxelles, presenta Leopoldo II con toni da sovrano assoluto:

 

Leopold II is the absolute Master of the whole of the internal and external activity of the Independent State of the Congo. The organization of justice, the army, the industrial and commercial regimes are established freely by himself. He would say, and with greater accuracy than did Louis XIV, “The State, it is I.” (in Twain 1905)

 

L’intenzione di Twain di provocare un’irritazione patriottica nel lettore appare particolarmente chiara quando Leopoldo II, nel monologo ironicamente autodifensivo che Twain gli fa pronunciare, si vanta di essere riuscito a gabbare gli Stati Uniti (Twain 1905: 5), in quanto, pur proclamandosi Paese della libertà, erano stati tra i primi ad appoggiare le sue pretese di sovrano assoluto sul Congo. Twain, infatti, pur avendo tra le sue fonti testi che spiegavano con chiarezza la questione della mancata ratifica della Dichiarazione di Berlino, sembra ignorare questo fatto al momento della stesura del pamphlet, probabilmente a causa di una lettura affrettata dei libri inviatigli da Morel (Hawkins 1978: 157) e alla foga di dare il proprio contributo alla causa.

L’indignazione che parole del genere provocavano nei lettori americani viene poi ulteriormente aggravata dai numerosi passaggi del Soliloquy in cui Twain fa ribadire ossessivamente a Leopoldo II la sua particolare soddisfazione nell’aver superato in astuzia la diplomazia americana, che dipinge come organo di una nazione vanagloriosa nel suo culto per le istituzioni. Gli Stati Uniti, infatti, sono definiti dal monarca belga una «vain Republic, self-appointed Champion and Promoter of the Liberties of the World», che però si è macchiata di essere «the only democracy in history that has lent its power and influence to the establishing of an absolute monarchy!» (Twain 1905: 12).

Queste stesse accuse esprimono in parte anche il punto di vista dei movimenti anti-imperialisti americani. Costoro ritenevano l’indulgenza mostrata dal loro Paese nei confronti del sovrano belga, insieme alle guerre imperialiste che gli Stati Uniti stessi avevano intrapreso nelle Filippine, sintomi di un crollo della superiorità morale americana. Secondo William Dean Howells, scrittore amico di Twain e suo compagno nelle battaglie contro il colonialismo, questi eventi 

 

«seem to imply the close of the peculiar mission of America to mankind. We shall probably be richer and we shall be stronger even than we are now, but the American shall hardly again be the son of the morning, toward which the struggling peoples turned their eyes with the hope at least of sympathy» (in Gibson 1947: 465s.).

 

Dopo aver riportato minuziosamente i fatti del Congo, con frequenti citazioni dei testi di denuncia contemporanei attraverso l’espediente narrativo di far leggere a Leopoldo II una sorta di rassegna stampa dell’epoca, Twain calca ulteriormente la mano sul problema del regime di governo dello Stato Libero e della sua distanza incolmabile con quello statunitense. La ragione per cui quelle atrocità sono state possibili, infatti, sarebbe precisamente l’aver istituito una monarchia assoluta: i re - afferma Leopoldo II - non si sono mai davvero preoccupati di rispettare l’umanità, perché loro stessi, pur essendo umani come i loro sudditi, sarebbero una sorta di superuomini che non sentono il bisogno di sottomissione che governa i loro simili. In quanto sovrano assoluto, Leopoldo II sarebbe, al pari dello zar, un’entità che si staglia al di sopra degli uomini comuni, dai quali è visto come una specie di dio, che da un piedistallo domina sulle masse di «meek human things» (Twain 1905: 32) intente ad adorare un pugno di altri esseri umani che non sono in alcun modo migliori di loro, bensì «made […] out of the same quality of mud» (ibidem).

Facendo parlare Leopoldo II in questo modo, Twain vuole sì provocare un moto di disgusto nei confronti dei suoi compatrioti, cittadini di una democrazia che per definizione rifiuta gli atteggiamenti superomistici del sovrano belga, ma al contempo esprime una convinzione che è andato dolorosamente maturando nel corso della sua vita. Negli ultimi anni della sua vecchiaia, infatti, Twain assunse un pessimismo profondo nei confronti dell’umanità e della sua natura: le parole di Leopoldo II non sono solamente il delirio di un pazzo, ma denunciano quello che Twain vede come una realtà di fatto, cioè il bisogno dell’umanità di credere ciecamente in qualcosa e abbandonarsi così all’adorazione di quelli che non sono in ultima istanza altro che uomini come loro.

 

3. I missionari e la croce

Come avviene per il problema della natura umana e della democrazia, anche a proposito della religione Twain mostra una certa ambiguità. I missionari, principali responsabili della fuga di informazioni dallo Stato Libero del Congo, sono oggetto dei lamenti di Leopoldo II, che li considera nient’altro che degli impiccioni, sempre pronti a riportare qualunque cosa vedessero, dopo essersi presentati alla popolazione come i loro unici amici (Twain 1905: 12). Le parole del sovrano belga, però, non rispondono unicamente alla logica dell’ironia che governa il Soliloquy, ma testimoniano anche l’odio atavico di Twain per i religiosi (Gibson 1947: 442).

Dall’anticlericalismo di Twain derivano gli atteggiamenti parossistici di Leopoldo II, dipinto come un uomo posseduto da una religiosità maniacale e ipocrita. La colpa che il sovrano imputa ai missionari sarebbe in ultima istanza quella di essersi immischiati negli affari di un re, un «sacred personage», immune dalle critiche in quanto scelto direttamente da Dio (Twain 1905: 6). Nella visione distorta di Leopoldo II, quindi, le denunce dei missionari sarebbero niente meno che blasfeme, poiché solo Dio può giudicare l’operato di coloro che ha investito del potere e Lui non avrebbe in alcun modo ostacolato le decisioni del monarca belga in Congo, né le avrebbe interrotte (ibidem).

Nel corso del suo discorso, Leopoldo II bacia frettolosamente il crocifisso dopo ogni sua intemperanza verbale e protesta per la mancata gratitudine per tutto il denaro che avrebbe speso a favore della religione (ivi: 3). Con queste ragioni, il sovrano arriva persino a contestare l'accusa di non aver offerto nulla in cambio delle tasse che imponeva con brutalità alla popolazione congolese

 

I furnish “nothing”! I send the gospel to the survivors; these censure-mongers know it, but they would rather have their tongues cut out than mention it. I have several times required my raiders to give the dying an opportunity to kiss the sacred emblem; and if they obeyed me I have without doubt been the humble means of saving many souls. None of my traducers have had the fairness to mention this; but let it pass; there is One who has not overlooked it. (ivi: 20s.)

 

I meriti religiosi che Leopoldo II si attribuisce non sono finiti qui: la stessa presenza dei missionari sarebbe da imputare unicamente alla preoccupazione per le anime dei suoi sudditi congolesi. In cambio di quelle medesime tasse che raccoglieva con metodi disumani, Leopoldo II avrebbe infatti mandato in Congo i frati - o almeno, secondo Twain, cattolici, più compiacenti - per convertire i locali alla religione cristiana e al Dio «who is all mercy and love, and who is the sleepless guardian and friend of all who suffer» (ivi: 7s.). L’affermazione risulta essere tanto più paradossale quanto più si osserva che le caratteristiche del Dio cristiano sottolineate da Leopoldo II sono esattamente il contrario di quelle che il sovrano, autoproclamatosi poco prima agente divino, ha mostrato alla popolazione congolese nei suoi anni di regno.

La voce di Twain celata nel monologo di Leopoldo II si fa sentire con forza anche a proposito della crocifissione di sessanta donne di cui gli agenti belgi si sarebbero macchiati in Congo. Non appena legge la notizia, riportata dal rapporto di Casement, Leopoldo II non è ovviamente mosso da alcuna pietà, ma si preoccupa invece della risonanza mediatica che il fatto avrebbe suscitato negli ambienti cristiani e della possibile accusa di profanazione dei simboli religiosi che gliene sarebbe derivata.

Questa possibilità provoca l’ira del monarca, che lamenta come quegli stessi uomini timorati di Dio che l’avrebbero criticato per tali ragioni non abbiano invece alzato la voce contro il mezzo milione di morti che ogni anno - secondo le stime fortemente gonfiate di Twain (Hawkins 1978: 153, nota 7) - sarebbero state provocate nei vent’anni di governo in Congo (Twain 1905: 31). Leopoldo II arriva addirittura ad ammettere che le crocifissioni sono state un errore, ma mostra preoccupazione solamente per lo scandalo, al punto di affermare poi che «I believe it would have answered just as well to skin them. But […] after all it is but human to err» (ibidem).

Il Soliloquy si chiude su quello stesso simbolo sacro, con un’altra collezione di dichiarazioni disposte a forma di croce, in modo speculare rispetto a come era cominciato. Questa volta, però, si tratta di stralci del dibattito parlamentare belga scaturito dalla commissione d’inchiesta sulle atrocità commesse in Congo. Da esse emerge una consapevolezza diffusa tra la classe politica di ciò che accadeva nei territori di Leopoldo II, al punto da definire un massacro tale presunta opera di civilizzazione (in Twain 1905: 41).

La croce, quindi, assume qui il suo significato di speranza, in netta opposizione con la simbologia di morte che incarnava nella primissima pagina dell’opera, quando la presentazione dell’assolutismo di Leopoldo II rappresentava il germe di tutte le violazioni dei diritti della popolazione congolese. Non si tratta, però, di una speranza cieca, da abbracciare passivamente per poi attendere che la soluzione arrivi dall’alto, bensì una speranza da costruire con l’azione politica, anzitutto quella tesa a far sì che gli Stati Uniti, assieme alle altre potenze occidentali, facessero pressione affinché la posizione del Parlamento belga avesse la meglio su quella di Leopoldo II.

 

4. Conclusioni

Nel febbraio 1906, circa un anno dopo la pubblicazione di King Leopold’s Soliloquy, Mark Twain dichiarava concluso con alcune lettere (in Wuliger 1953) il suo impegno con la Congo Reform Association. Le possibili ragioni di questa scelta sono state oggetto di dibattito tra gli studiosi, che hanno formulato svariate ipotesi, da una preoccupazione ipocrita di Twain di perdere consensi tra i lettori, alla sua età avanzata, che non gli avrebbe più permesso una partecipazione a pieno regime (Hawkins 1978: 149). 

L’ipotesi più plausibile resta tuttavia quella che si basa sull’irritazione dello scrittore, che era stato informato durante una visita a Washington della mancata ratifica della Dichiarazione di Berlino e si era sentito ingannato per non aver ricevuto tale informazione da Morel (ivi: 149s.). A ciò si aggiunse la disillusione sul suo stesso programma di riforma: se gli Stati Uniti non avevano dato il loro appoggio a Leopoldo II, non potevano avere alcuna influenza sul sovrano, anche nel caso in cui il Soliloquy avesse scatenato le proteste per cui era stato concepito. Twain decise pertanto di staccarsi dal movimento anti-imperialista, a tal punto da non voler neppure leggere alcuna notizia che riguardasse il Congo (ivi: 174).

I fatti, però, provarono che Twain si sbagliava: la pressione internazionale contro Leopoldo II era in continua crescita, così come gli interessi economici belgi nel Congo. Di fronte alla possibilità che la Francia, facendo leva sulla promessa ricevuta a Berlino, potesse subentrargli nel controllo della zona, ostacolando così le imprese belghe, il Parlamento di Bruxelles decise nel 1908 di annettere il Congo come colonia, sottraendola al potere personale di Leopoldo II, che si oppose fino all’ultimo (Vanthemsche 2006: 91).

La storia delle battaglie anti-imperialiste di Twain, insomma, si concluse con una vittoria, anche se all’insaputa dello stesso scrittore. Appare dunque legittimo leggerla come un esempio di impegno di un intellettuale che ha avuto il coraggio di ignorare le voci che lo attaccavano consigliandogli di “pensare solo a scrivere romanzi”, ma ha invece continuato a denunciare le ingiustizie perpetrate contro gli indifesi, riuscendo a ottenerne la fine, per quanto solo parziale e temporanea.

5. Bibliografia

Anstey, Roger (1971), The Congo Rubber Atrocities - A Case Study, in «African Historical Studies», Vol. 4, No. 1 (1971), pp. 59-76.

Gibson, William M. (1947), Mark Twain and Howells: Anti-Imperialists, in «The New England Quarterly», Vol. 20, No. 4 (Dec., 1947), pp. 435-470.

Hawkins, Hunt (1978), Mark Twain’s Involvement with the Congo Reform Movement: “A Fury of Generous Indignation”, in «The New England Quarterly», Vol. 51, No. 2 (Jun., 1978), pp. 147-175.

Twain, Mark (1905), King Leopold’s Soliloquy. A Defense of His Congo Rule, The P. R. Warren Co., Boston (MA) 1905.

Van Reybrouck, David (2010), Congo, traduzione italiana di Franco Paris, Feltrinelli, Milano 2014.

Vanthemsche, Guy (2006), The Historiography of Belgian Colonialism in the Congo, in Csaba Lévai (ed.), Europe and the World in European Historiography, Pisa University Press, Pisa 2006, pp. 89-119.

Wuliger, Robert (1953), Mark Twain on King Leopold’s Soliloquy, in «American Literature», Vol. 25, No. 2 (May, 1953), pp. 234-237.

 

Foto 1 le-citazioni.it (09/08/2021)