Intervista a Enrico di Oto

Conosciamo Enrico Di Oto, Ceo della startup Oncology and Cytogenetic Products.Enrico ci ha raccontato della trasformazione della sua idea in un’azienda rivolta ai mercati statunitense e cinese.

Oggi sei un imprenditore a tutti gli effetti ma, se guardiamo la tua carriera universitaria, notiamo una predilezione per la ricerca e soprattutto un progressivo interessamento verso la specializzazione in ricerca medica. Non a caso, dopo aver conseguito tre lauree hai svolto anche un Dottorato di Ricerca in Oncologia e Patologia Sperimentale. Come descriveresti il tuo percorso accademico? 

Un mix tra casualità e passione. Penso che ognuno di noi nella vita debba fare quello gli piace, anche perché ciò che studia con ogni probabilità diventerà materia del lavoro che svolgerà in futuro. Io sono partito proprio da questo: ho studiato quello che mi piaceva, seguendo – durante il mio percorso accademico – i miei interessi. Durante la mia Laurea Triennale in Scienze Biologiche, ad esempio, ho svolto un tirocinio presso l’Ospedale Bellaria, a Bologna. Mi è piaciuto molto l’approccio applicativo del sapere in ambito medico/scientifico, e così ho deciso di seguire questa strada. Mi sono iscritto alla Laurea Specialistica in Scienze Biologiche e Sanitarie e ho preso un’altra specializzazione in Patologia Clinica. Successivamente ho svolto il dottorato di ricerca. Al di là della mia esperienza personale, credo che in generale oggi specializzarsi sia una necessità per emergere nel mondo del lavoro. 

Il 2015 ha rappresentato un turning point fondamentale per te. In quell’anno, infatti, hai partecipato alla prima edizione (oltretutto vincendola) di Unibo Launchpad, un programma di imprenditoria promosso dall’Università di Bologna. Possiamo dire che è da questa esperienza che ha avuto inizio la tua carriera di imprenditore? 

Sì, indubbiamente. Oltretutto vi ho partecipato per caso. All’epoca stavo svolgendo il mio Dottorato di ricerca e avevo appena trovato una soluzione per ridurre il tempo necessario per una diagnosi genetica sul cancro. Insieme all’ufficio KTO dell’Università di Bologna, che si occupa della tutela della proprietà intellettuale, stavo cercando di brevettare la mia invenzione ed è stato proprio il KTO a suggerirmi di iscrivermi al programma Unibo Launchpad, per capire le reali potenzialità della mia invenzione sul mercato. Questa esperienza è stata davvero importante da un punto di vista formativo, facendomi compiere un passo decisivo dalla ricerca all’imprenditoria. Mi ha permesso di trascorrere 20 giorni nella Silicon Valley e di entrare in contatto con altri startupper. Percorsi di questo tipo dovrebbero essere obbligatori per tutti gli studenti universitari.

Proprio all’interno di Unibo Launchpad si sviluppa l’idea che ha portato alla costituzione, nel 2017, della tua azienda: Oacp – Oncology and Cytogenetic Products. Come è nata la startup e quali erano all’epoca le tue ambizioni e quelle dei tuoi co-founder?

L’idea di trasformare un progetto in impresa nasce dal fatto che è più semplice portare un’invenzione sul mercato anziché costringerla a essere il mero oggetto di un articolo pubblicato su una rivista scientifica. Determinante è stata la partecipazione al programma RebelBio a Cork, in Irlanda, dove OaCP ha sede legale. Per quanto riguarda le ambizioni, quando abbiamo lanciato l’azienda l’obiettivo era crescere in maniera graduale. Immaginavamo uno sviluppo interessante e di livello globale, poi un anno e mezzo dopo è arrivato il Covid-19.

Hai anticipato gli stravolgimenti causati dalla Pandemia, ma, prima di chiederti dell’impatto del Covid-19 sulla vostra attività, ci racconti di cosa si occupa Oacp?

Sviluppiamo, produciamo e vendiamo reagenti diagnostici per rendere i test di diagnosi più rapidi, meno costosi e più facili da utilizzare per i tecnici. Siamo partiti sviluppando il primo test per l’ambito oncologico, mentre dal 2020 siamo passati alle malattie infettive. Da pochi giorni invece abbiamo lanciato anche un’attività di supporto per i ricercatori che vogliono sviluppare il loro progetto di ricerca ma hanno bisogno di un aiuto e dei mezzi di un laboratorio per condurre i loro esperimenti.

Veniamo alla Pandemia: in che modo ha influito sulla vostra attività? 

Ha avuto senza dubbio un impatto negativo. Già a dicembre 2019 uno dei nostri partner industriali che aveva sede a Wuhan ci ha comunicato che avrebbe chiuso. Con l’anno nuovo e l’espandersi della Pandemia non abbiamo più avuto mercato per mesi. Tutte le attività oncologiche si sono arrestate: screening, interventi, trattamenti. Il Covid-19 ci ha rallentato, ci ha fatto perdere un’opportunità con un investitore, e ci ha costretto a chiudere la società italiana e, di conseguenza, a mantenere solo quella con sede in Irlanda. Detto questo, la Pandemia ci ha indotto anche ad accelerare la sperimentazione dei nostri reagenti per le malattie infettive; avevamo calcolato di compiere questo step più avanti ma la contingenza ha contratto i tempi. Ad aprile 2020 un nostro partner cinese ci ha contattato per sviluppare un kit Covid. Poco dopo abbiamo iniziato a dialogare anche con Invitalia, l’Agenzia nazionale per lo sviluppo di proprietà del Ministero dell’Economia. Abbiamo lanciato il primo kit per tampone molecolare rapito al mondo capace di mantenere la sensibilità alle varianti nel marzo del 2021.

Seppur consapevole di aver raggiunto importanti traguardi, un imprenditore è sempre proiettato verso il futuro. Come vedi il tuo e quello della tua azienda? 

Vogliamo espanderci a livello internazionale e per fare questo stiamo cercando di andare incontro alle opportunità che il mercato al momento ci offre. Nel medio-breve termine consolideremo una partnership con Roche italia (e siamo intenzionati a estenderla anche a livello europeo). Stiamo inoltre lavorando per entrare nel mercato statunitense grazie alla partecipazione a due programmi promossi rispettivamente da Accelerate Italy e dal network globale del Mass Challenge di Boston. Ma non ci vogliamo fermare qui. Parallelamente guardiamo al mercato cinese. A dire il vero, la Cina è nei nostri pensieri fin dal 2017. È molto difficile prendere contatti lì perché è un Paese molto protettivo che si apre poco verso l’esterno. Siamo dunque consapevoli delle difficoltà che ci attendono ma, proprio in ragione di ciò, sappiamo di avere di fronte a noi tantissime opportunità e (al momento) poca concorrenza. Già nel 2018 siamo arrivati in finale alla Overseas talent and entrepreneurship competition (Otec), la principale startup competition cinese del Chaoyang District (tra i più importanti di Beijing). Ora siamo nuovamente in finale in questa competizione e in un’altra challenge promossa dalla provincia di Wuxi. Quindi, incrociamo le dita. Poi, abbiamo in programma anche un’attività di fundraising: molto difficile da attuare, ma credo sarà un passaggio necessario per il nostro futuro.   

Alla luce della tua esperienza, quali sono a tuo parere le qualità che deve avere un imprenditore innovativo? 

Innanzitutto bisogna essere consapevoli dei propri limiti, sapere che fare l’imprenditore significa lavorare a tempo pieno, ed essere consci del fatto che il 95% delle startup fallisce. Una volta capito questo, l’altra parola magica è perseveranza. Attenzione, però: da non confondere con la testardaggine.

 

Intervista effettuata il 19/7/2022 - Associazione Almae Matris Alumni