Ilaria Sala
Dorothea Lange, prima donna fotografa a cui il MoMA dedicò una retrospettiva e tra i co-fondatori della rivista Aperture (1952), risulta fra le voci più influenti del ventesimo secolo.
Tra i lavori da lei intrapresi per conto della War Relocation Authority, tra i più controversi c’è quello relativo all’internamento dei giapponesi durante il secondo conflitto mondiale. La volontà di denuncia che mosse la fotografa venne resa vana durante la guerra dall’attività di filtraggio operata dal governo federale e, benché nel dopoguerra vennero rese disponibili, la questione è stata spesso passata sotto silenzio.
Per dare maggior respiro all’opera della Lange, tutte le foto in bianco e nero incluse in questo articolo sono quelle scattate dalla grande fotografa.
Nata nel 1895 a Hoboken, New Jersey, Dorothea Nutzhorn dovette sin da piccola confrontarsi con alcuni aspetti brutali che la vita può riservare.
All’età di 7 anni, a seguito di complicazioni legate all’aver contratto la poliomielite, iniziò ad avere problemi di deambulazione che la seguirono per l’intero arco vitale fino a rendere, in tarda età, estremamente difficile lo svolgimento del suo lavoro. Durante la prima adolescenza, suo padre lasciò il nucleo familiare. La madre, a questo punto, riprese il cognome da nubile, Lange, e così decise poi di fare anche Dorothea.
Lange, in particolare dai primi anni ‘30, si dimostrò cosciente della potenza dell’immagine come immortale testimonianza dell’attualità e della presa emotiva come componente cruciale nella mobilitazione a una causa.
Il mezzo d’espressione che è la fotografia non era più vista come forma d’arte o, quantomeno, non interessava a Dorothea concepirla come tale. La sua funzione vitale era la spinta al cambiamento. La drastica trasformazione di Lange da fotografa ritrattista di benestanti clienti a San Francisco a portavoce dell’essere umano nella sua intrinseca vulnerabilità (portata all’estremo dagli avvenimenti storici del periodo 1929-1950), ben si adatta allo scopo per cui la sua esecutrice l’aveva pensata.
Le persone tendono ad agire con maggiore prontezza e risolutezza quando si sentono vulnerabili, soprattutto davanti a una immagine. Le emozioni, dunque, assicurano un alto tasso di partecipazione attiva e la componente visiva, nell’epoca dell’homo videns, rinforza la tendenza. La potenza dell’immagine sta nel racchiudere in un singolo fotogramma quello che solo tramite un elevato numero di parole si potrebbe esprimere. Le immagini sono mezzi piuttosto democratici, altamente simbolici e riconoscibili, e spesso di facile comprensione. I fatti sono in commistione con la componente emotiva.
Secondo una ricerca di Maier, Slovic and Mayorga, ci sono fattori specifici che possono raffinare la qualità del contenuto volto a smuovere le coscienze. Tra questi, la personificazione della storia. Bisognerebbe, infatti, darle un volto umano. Immagini del genere dal Vietnam, come quella della bambina pesantemente deturpata dall’uso di Napalm nel conflitto in corso all’epoca, sono state riconosciute dagli studiosi come efficaci catalizzatori emotivi che contribuirono largamente alla fine della guerra.
Anche la familiarità con ciò che viene mostrato aiuta a sortire l’effetto desiderato. Pur scegliendo fenomeni estesi e d’impatto globale, questi potrebbero risultare di difficile comprensione per persone meno istruite che non hanno vissuto il fenomeno stesso in prima persona. Scegliendo, invece, eventi su scala più ristretta, ci si assicurerebbe maggior presa a tutti i livelli della piramide sociale.
La cultura nativista alla base degli Stati Uniti, mista a forze economiche, sociali e pregiudizi di matrice razzista, portarono il governo a limitare il numero e la provenienza di migranti sul suolo nazionale.
A partire dalla fine del ‘800, infatti, la storia registra una serie di provvedimenti che circoscrissero drasticamente il panorama demografico e geografico statunitense. Come osservato da Kevin R. Johnson, il graduale miglioramento delle condizioni degli afroamericani coincise con il peggioramento delle condizioni per altri undesirables in quanto vi si cominciò a prestare più attenzione.
Furono le stesse leggi utilizzate nel periodo antecedente alla Guerra Civile che fornirono la base giuridica per i provvedimenti a seguire. Nel 1882, dunque, venne promulgato il Chinese Exclusion Act, punto di svolta storico nelle relazioni con gli immigrati asiatici e i loro discendenti, che iniziarono a raggiungere il continente americano scappando dalla precaria situazione dettata dall’imperialismo occidentale nelle loro terre. In particolare, per la popolazione cinese, la prospettiva di semi-colonialismo indotta dalle guerre dell’oppio, spinsero alla fuga verso luoghi ricchi d’oro, in cerca di manodopera per l’economia triangolare legata all’esportazione di guano verso le coste britanniche e per l’infrastrutturazione del west.
L’idea dell’impossibilità di assimilare certe etnie lontane per lingua e credenze da quelle dei principali gruppi della first migration (nord-europei, soprattutto tedeschi e irlandesi - protestanti, ndr) si andò sempre più solidificando tanto che, nel 1907, venne firmato un accordo informale (che non richiese approvazione da parte del Congresso, ndr.) tra il governo giapponese e la controparte statunitense volta alla restrizione dell’immigrazione verso est in cambio della fine alla pratica di segregazione a danno degli studenti giapponesi nelle scuole pubbliche di San Francisco.
Questa pratica era stata perpetrata in risposta al crescente sentimento anti-giapponese (e asiatico più in generale) che permeava gli stati della costa occidentale. Tuttavia, come spiegato da Shiho Imai della State University of New York at Postdam, data la sentita influenza politica e militare dello stato asiatico, il governo Roosevelt preferì arrivare a un accordo che la controparte accettò per evitare di giungere a un equivalente giapponese del Chinese Exclusion Act. Si tratta del cosiddetto Gentlemen’s Agreement. Nel 1917, ulteriori limitazioni vennero portate dall’Immigration Act che allargò la zona di influenza del precursore del 1882 (Chinese Exclusion Act) a tutto l'Oriente fino ad arrivare ai famosi Quota Act del 1924 misti con provvedimenti che proibivano la naturalizzazione per coloro già presenti sul territorio in quanto non-bianchi.
La situazione si complicò ulteriormente allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. A seguito dell’attacco di Pearl Harbor, il governo americano che già nutriva sospetti e stava controllando cittadini delle potenze dell’Asse (Germania, Italia, Giappone, ndr.) in quanto sospette spie, agì immediatamente. Il clima che portò all’arresto di figure locali prominenti giapponesi venne esasperato dalla stampa, come riportato dalle parole del giornalista Westbrook Pegler:
The Japanese in California should be under armed guard to the last man and woman right now and to hell with habeas corpus until the danger is over.
Due elementi fanno notare l’intolleranza verso la popolazione asiatica, giapponese in questo caso, che caratterizzò il periodo. In primo luogo, né italiani né tedeschi furono soggetti a incarcerazioni di massa. Oltretutto, il governo statunitense trattò i cosiddetti enemy aliens (nemici stranieri, ndt) come un unico gruppo omogeneo in termini di origini, cultura e integrazione. Issei e nissei, immigrati e coloro che nacquero su suolo americano divennero l’obiettivo degli ordini presidenziali a seguire, in quanto univocamente considerati stranieri. Quando arrivò l’Executive Order 9066, venne autorizzata l'esclusione del monolitico blocco giapponese da determinate aree geografiche degli Stati Uniti per essere rilocalizzati in aree interne, isolate e solitamente desertiche.
Venne creata l’Exclusion zone, un’area da cui i nemici giapponesi (stranieri e non) sarebbero stati rimossi per motivi di sicurezza nazionale. La decisione venne presa dai quadri militari che avevano ricevuto carta bianca dal presidente Roosevelt.
The Japanese race is an enemy race and while many second and third generation Japanese born on American soil, possessed of American citizenship, have be come ‘Americanized,’ the racial strains are undiluted. […] It, therefore, follows that along the vital Pacific Coast over 112,000 potential enemies, of Japanese extraction, are at large today. There are indications that these are organized and ready for concerted action at a favorable opportunity.
The very fact that no sabotage has taken place to date is a disturbing and confirming indication that such action will be taken.
(Generale John L. DeWitt, capo del U.S. Army’s Western Defense Command)
I centri in cui i giapponesi vennero ricollocati erano dieci, senza contare una lunga lista di altre tipologie di strutture volte ad accogliere questi nel processo di evacuazione forzata a cui furono sottoposti. Topaz in Utah, Minidoka nell’ Idaho, Gila River e Poston in Arizona, Heart Mountain in Wyoming, Amache in Colorado, Rohwer e Jerome in Arkansas, Tule Lake e Manzanar in California.
Il viaggio non fu semplice, come descritto da Miné Okubo in Citizen 13660 :
Il viaggio fu un incubo che durò due notti e un giorno, il treno cigolava a causa dell’età. Era pieno di polvere e, poiché le lampade a gas non funzionavano a dovere, passavamo gran parte della notte in completa oscurità. [...] La prima notte fu una novità dopo quattro mesi e mezzo di internamento. In ogni caso non riuscivo a dormire e passai tutta la notte a sistemarmi il sedile. A molti venne il mal di treno e vomitarono. I bambini piangevano dall’agitazione. Ad un certo punto durante il viaggio un mattone fu gettato dentro una della carrozze. [...] Nel tardo pomeriggio il treno si fermò da qualche parte nel deserto del Nevada settentrionale e per mezz’ora ci fu permesso di scendere e camminare. Una recinzione di filo spinato delimitava il tratto di strada da entrambi i lati con la polizia militare a fare la guardia ogni quindici piedi.
L’oggettività delle difficoltà fisiche che gli occupanti di questi campi dovettero affrontare è indubbia. Manzanar, California, è un luogo arido e isolato derivante dalla deviazione dei bacini idrografici verso Los Angeles da inizio ‘900, tanto da rendere estremamente difficile la coltivazione nella zona. Il lago prosciugato crea anche problemi di tipo respiratorio: il termine Keller fog indica banchi di polvere, estremamente fini e di natura alcalina, che resero la zona il principale produttore di particolato aerodisperso PM10. Secondo uno studio dell’Istituto Geologico degli Stati Uniti, la polvere è in quantità così significative che abbassa il livello del letto asciutto del lago Owens di 0.2 - 1.5cm l’anno. Il PM10, per natura, può essere inalato e andare a compromettere gravemente il sistema respiratorio umano.
Gli alloggi in cui dovettero vivere erano perlopiù baracche, come nel caso di San Bruno, in California, riadattate da stalle per cavalli da corsa. A ogni famiglia veniva assegnata un’unità composta da due stanze anguste, una delle quali senza porte né finestre. Se si prende in considerazione il senso di pudore e riservatezza, in commistione con quello dell’onore, che caratterizza la società giapponese, si può iniziare a delineare lo stress psicologico a cui vennero sottoposti tutti gli internati.
Lo scrittore Wakatsuki (2012: 18) racconta:
Mia madre era una persona riservata e per lei fu un’ agonia usare le latrine in pubblico, tra persone che non conosceva. Un’anziana aveva già risolto il problema trascinando un grosso pezzo di cartone. Lo sistemò attorno alla latrina, come se fosse uno schermo a tre lati. [...] La mamma era in testa alla coda e si stava avvicinando alla latrina libera [...] e l’anziana disse gentilmente in giapponese: “Vorresti usarlo?”. Con gratitudine la mamma si chinò e disse: “Arigato. Arigato gozaimasu" (grazie molte).
Continua dicendo che chi voleva la privacy, decideva di recarsi negli spazi aperti. Questo concetto ossimorico ben fornisce uno spiraglio sul sentimento di estraneazione e straniamento che li avvolse quasi all’improvviso. La grave mancanza di momenti privati finì per creare un profondo strappo nel tessuto familiare tradizionale giapponese. Il momento del pasto venne desacralizzato: le famiglie incominciarono a non raccogliersi più intorno alla tavola e, soprattutto i giovani, passavano più tempo con gli amici.
Anche la questione religiosa divenne problematica in quanto considerata forma di lealtà verso l’impero giapponese.
Nel 1942, Dorothea Lange accettò il lavoro che prevedeva la documentazione della rilocazione offertole dalla WRA (War Relocation Authority) per riuscire a documentare una politica a cui si opponeva strenuamente e, allo stesso tempo come aveva già fatto con i progetti precedenti, rappresentare un mondo imperfetto, ma non per questo indegno di essere rappresentato. Nel suo progetto non v’è mai stata volontà di idealizzare ed edulcorare spaccati di vita, non importa quanto umili o di difficile digestione.
Solamente alcuni decenni più tardi, grazie ai movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, al redress movement (la campagna di riparazione diretta dalle principali associazioni nippo-americane) e al tramonto della Guerra Fredda, gli ex internati furono finalmente in grado di ottenere giustizia e un risarcimento di 20,000 dollari a testa, insieme alle scuse ufficiali del Presidente Ronald Reagan, inserite nel Civil Liberties Act del 1988.
Un ruolo decisivo nella campagna di riparazione fu riconosciuto alla Commission on Wartime Relocation and Internment of Civilians che, nel 1981, evidenziò gli errori commessi dal governo americano e certificò la lealtà dei giapponesi-americani agli Stati Uniti nel periodo successivo all'attacco di Pearl Harbor. La Commission on Wartime Relocation and Internment of Civilians nel 1981 condannò l'evacuazione forzata dei giapponesi-americani durante la Seconda guerra mondiale, definendola "una grave ingiustizia".
Recentemente, alla questione è stato dato ancor più rilievo mediatico in quanto viene citato nella seconda stagione del teen-comedy Never Have I Ever (Non ho mai …, ndt) di Netflix.
La serie, totalmente incentrata sulle difficoltà di scelta della propria identità da parte di un gruppo di giovani teenager, molti dei quali di origine asiatica, dedica parte di un episodio alla riscoperta delle radici giapponesi del giovane Paxton Hall-Yoshida. Questo riuscirà, finalmente, ad abbracciare in modo sereno la propria origine parlando di ciò che i famigliari subirono a causa della rilocazione e internamento nel campo di Manzanar in California, nella Owens Valley.
Diversi libri hanno ormai trovato spazio sul mercato e molti si focalizzano sul profondo e delicato lavoro in campo emotivo e psicologico richiesto per metabolizzare le esperienze legate all’internamento in queste strutture. Un esempio di tali lavori è Obasan (1981), di Joy Kogawa.
Alcuni campi hanno, inoltre, ricevuto un riconoscimento. Manzanar è stato, nel 1998, designato National Historic Site. Rohwer nel 1992, Amache e Tule Lake nel 2006 e Topaz nel 2007, invece, sono diventati National Historic Landmarks. Tule Lake, nel 2008, è stato riconosciuto anche come monumento nazionale.
L’impatto del lavoro di Lange non venne pienamente percepito fino al 1972, quando il Whitney Museum of American Art di New York organizzò un’esposizione dal titolo "Executive Order 9066" con 27 fotografie relative a questa parentesi storica. Prima di questo momento, le fotografie rimasero prettamente relegate all’archivio nazionale. Il suo lavoro, di tipo documentaristico, venne notevolmente intralciato dalla WRA che passava in rassegna ogni foto scattata.
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