RuPaul: storia di una drag queen che ce l'ha fatta

Giorgia Bosco

L’8 giugno 1993 usciva negli Stati Uniti Supermodel of the World, il singolo d’esordio di uno dei miti della cultura pop americana: RuPaul. Autore di alcune delle pagine più importanti della storia del drag, a RuPaul vanno i meriti e i torti di aver reso il drag un fenomeno globale che partecipa attivamente alla cultura mainstream.

 

1. Introduzione
2. Gli inizi tra genderfuck e club kids
3. Supermodel of the World e il glamazon drag
4. RuPaul’s Drag Race e il controverso drag 3.0
5. Conclusione
6. Sitografia
7. Bibliografia

 

1. Introduzione

 

È la primavera del 1960 quando Ernestine Charles, creola originaria delle campagne della Louisiana del sud, decide di consultare una sensitiva dopo essere rimasta incinta del suo quarto figlio, l’unico maschio. Alla notizia che San Diego, dove lei lavora come impiegata pubblica, sarebbe diventata la città natale di una delle celebrità più affermate d’America, Ernestine si impegna immediatamente affinché la profezia si compia. Comincia subito dalla scelta del nome. Per incoraggiare la scalata al successo del figlio, Ernestine non si limita a chiamarlo Johnatan o Milton, nella speranza che cresca sotto la stella di due dei personaggi televisivi più famosi dell’epoca, Jonathan Winters e Milton Berle. Opta invece per “Ru”, un nome di sua stessa invenzione che riecheggia il roux, l’ingrediente base del gumbo e di altri piatti creoli. 

Sembra davvero che RuPaul, drag queen più famosa al mondo dagli anni ‘90, fosse destinato ad accedere allo stardom americano, ma soprattutto a portare una rivoluzione interna che ne cambiasse la fisionomia. A partire dal momento in cui il suo singolo d’esordio Supermodel of the World l’ha catapultato nell’olimpo delle celebrità americane, la televisione americana non è stata più la stessa 

Nei suoi trent’anni di carriera, RuPaul è stato in grado di dare visibilità a buona parte della comunità LGBT+ e di rimediare ai danni di una cattiva rappresentazione mediatica che durava da decenni. 

In tutte le vesti che ha ricoperto, cantante, scrittore, attore, conduttore televisivo, Ru ha saputo costruire degli spazi di riflessione su temi come il genere e la sessualità anche all’esterno di quei circoli di nicchia dove erano già oggetto di molti dibattiti. A fine anni ‘90 anche i territori più mainstream subirono l’invasione della RuPolitics, risultato dell’unione di “Ru” e “Politics”, un concentrato di idee progressiste che combattono ingiustizie sociali di ogni tipo promuovendo l’amore per il prossimo e per la diversità

Guida spirituale del piccolo schermo alla pari di Oprah Winfrey, RuPaul ha avuto un ruolo tale nell’educare l’opinione pubblica su queste tematiche, che nel 2017 il Time lo definisce una delle cento personalità più influenti al mondo.

Tuttavia, sembra che le recenti controversie legate al programma che l’ha consacrato al successo internazionale, RuPaul’s Drag Race, stiano mettendo in discussione quel posto nell’immaginario collettivo da cui qualche anno fa sarebbe stato impensabile spodestarlo. In 13 anni di messa in onda, il programma, un reality che segue i partecipanti in sfide volte a decretare chi sarà la drag queen dell’anno, è riuscito ad accumulare una nutrita serie di passi falsi costati a RuPaul, qui conduttore e giudice, accuse di transfobia e transmisoginia.

Negli ultimi anni, quell’energia rivoluzionaria con cui Ru era entrato a gamba tesa nello star system americano sembra essersi esaurita, e il fatto che questo sia accaduto proprio nel momento in cui il franchise RuPaul si sta diffondendo in tutto il mondo, forse non è un caso. Le vicende legate a RuPaul’s Drag Race sembrano dimostrare che perché un prodotto televisivo LGBT+ rimanga a galla nelle piatte acque del mainstream, è inevitabile che parte della sua intrinseca carica sovversiva venga ammortizzata e resa così meno minacciosa per l’ordine prestabilito.



2. Gli inizi tra genderfuck e club kids

 

Come racconta nella sua prima autobiografia, Lettin' It All Hang Out (1996), fin dall’adolsecenza RuPaul è un personaggio eccentrico, conosciuto da tutti per i suoi modi stravaganti e sopra le righe. Non sopporta l’ipocrisia della società che lo circonda e non perde occasione per combatterla a colpi di risate e irriverenza.

Versione aggiornata e rivista del terribile Franti deamicisiano, il quindicenne RuPaul mette a punto un progetto di stravolgimento dei dettami sociali a cui resterà fedele per il resto della vita. In diverse interviste ha infatti dichiarato che dal momento in cui ha realizzato che la fissità dei ruoli di generi era un’illusione e non un dato naturale, ha deciso che sarebbe stato lui a prendersi la responsabilità di tracciare il proprio perimetro identitario, non la società.

Proprio come Dorothy catapultata a Oz, RuPaul smette così di vedere il mondo in bianco e nero e comincia a usare indistintamente tutti i colori della palette. Confonde tutti quelli che gli stanno intorno mescolando canoni di mascolinità e femminilità, aiutato in questo anche da un nome andorgino, e si avvicina così al mondo del drag. 

Sono gli anni ‘70, un momento fondamentale nella storia del drag. Nonostante la rappresentazione mainstream di queste performer sia ancora volta a ridicolizzarle o a demonizzarle, iniziano ad avere sempre più successo prodotti culturali che sfidano e smontano questa narrazione. Del 1972 è il celebre film Pink Flamingos, dove per la prima volta una drag queen, la celebre Divine, appare sul grande schermo. Del 1975 invece l’iconico Rocky Horror Picture Show, un vero e proprio inno alla libertà sessuale e apoteosi dell’estetica camp.

Per RuPaul, da sempre grande appassionato ed esperto di cultura pop, la visione di questi cult ha rappresentato un momento fondativo nella sua formazione. Così come lo è stata la messa in onda negli Stati Uniti del Monty Python’s Flying Circus. Gli sketch del gruppo comico inglese, irriverenti al punto da essere spesso controversi, hanno rappresentato per RuPaul l’occasione di congiungersi con quella che lui stesso ha definito più volte la sua “tribe”, la sua tribù. Come lui, anche i Monty Python avevano creato dei personaggi caricaturali con cui farsi beffe di tutte le norme e convenzioni sociali, comprese quelle di genere. 

La profezia della madre Ernestine sta prendendo finalmente una forma. RuPaul capisce presto che le placide spiagge di San Diego non potranno far parte della sua vita se non sotto forma di ricordo d’infanzia. Si trasferisce così ad Atlanta, uno dei centri artistici più attivi degli Stati Uniti, dove studierà performing arts e svilupperà la sua prima drag persona. In quegli anni, RuPaul incorpora lo spirito ribelle e anticonformista del punk nel confenzionamento del suo primo personaggio, il frontman di una band in abiti nuziali distrutti, anfibi, catene e rossetto sbavato. La carica sovversiva di questa prima fase della sua carriera è tale che egli stesso la definisce emblematicamente genderfuck, niente di più e niente di meno di un convinto dito medio sbattuto in faccia alla società e ai suoi dettami.

Ad Atlanta però RuPaul non resterà a lungo. La futura supermodel of the world si trasferirà presto a New York a caccia di successo. Quale altro posto, del resto, avrebbe potuto accogliere la sua voglia di rompere gli schemi con lo stesso entusiasmo della grande mela? A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, infatti, New York assistette all’invasione dei cosiddetti club kids, un gruppo subculturale di giovani che combattevano il grigiore e la grettezza ereditati dell’era Reagan a colpi di feste esagerate e mode stravaganti

La forza trasgressiva di questo movimento fu tale che anche il pubbico statunitense ne fu catturato. Gruppi di ragazzi entusiasti dagli outfit appariscenti cominciarono ad apparire nel daytime televisivo tra sguardi sconcertati e indignati. Il primo a ospitarli fu il celebre talk show Gerardo, dove una giovane drag queen con parrucca afro e tacchi vertiginosi canalizza l’attenzione di tutti i presenti grazie al suo carisma e alla sua arguzia. Lo stile di RuPaul è cambiato, è più curato, più femminile, ma la forza sovversiva del suo drag è rimasta intatta. È in queste circostanze, infatti, che pronuncia la famosa frase We’re all born naked and the rest is drag, siamo tutti nati nudi e il resto è drag.

Con queste parole iconiche RuPaul è stato in grado di racchiudere quello spirito di sperimentazione libera e giocosa degli ambienti frequentati dai club kids. Accorgendosi che il mondo è davvero un palcoscenico, i giovani di New York decidono di creare scompiglio nei ruoli che la società ha assegnato loro sulla base del sesso biologico. Precursori di concetti come fluidità di genere e non binarismo, i club kids osannano David Bowie e sono grandi fan del drag.

In questo clima carnevalesco, anche il fenomeno drag comincia a essere apprezzato. Dopo anni di discriminazioni interne, la comunità  LGBT+ solleva finalmente i performer drag dallo stigma che li aveva costretti a rifugiarsi ai margini della stessa comunità di cui facevano parte. Niente a che vedere col ruolo di primo piano che occupano nella scena underground newyorkese, dove le drag sono delle vere e proprie star. Nei famosi club dell’East Village di Manhattan non era difficile trovare drag queen che di lì a poco avrebbero intrapreso carriere di successo, e non solo come performer.

La vetta della fama non era mai sembrata tanto vicina a RuPaul. Insieme alla sua collega di lunga data, Lady Bunny, l’ideatrice del famoso Wigstock, un festival di drag performance tenuto con religiosa regolarità dal 1984, guidò una rivoluzione storica nel mondo del drag. Se i performer tradizionali si distinguevano per l’attenzione alla bellezza e a una mimesi femminile quasi perfetta, dagli anni ‘90 “drag” diventa sinonimo di espressione anarchica del sé. La trasgressività comica del nuovo drag è così rinfrescante che il termine “female impersonator” cade in disuso e al suo posto “drag” torna a essere usato, questa volta però senza nessuna nota di disprezzo. 

L’esplosione del drag 2.0 attirerà nei club newyorkesi personaggi del calibro di Andy Warhol e Madonna, che cercheranno di far confluire la novità sferzante di queste performance stravaganti nelle loro opere. Non solo, anche l’accademia non poté restarne indifferente. Il fenomeno drag ha infatti costituito la base su cui poggiano le riflessioni di Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (1990), il testo di Judith Butler che ha contribuito a fondare i Queer Studies, la corrente teorica più radicale del movimento gay e lesbico. Nel definire la sua teoria sulla performance e la performatività di genere, l’autrice, vera e propria celebrità accademica, esalta le enormi potenzialità eversive del drag. Secondo Butler, partecipare a uno spettacolo drag nei club newyorkesi significava assistere alla messa in discussione del sistema eteronormativo alla base della società e delle sue istituzioni. Attraverso l’imitazione iperbolica e la parodia esagerata, le drag queen giungerebbero al cuore di dettami sociali plurisecolari per distruggerli con un potente detonatore: il riso. 

 

3. Supermodel of the World e il glamazon drag

 

Proprio grazie a un sapiente dosaggio di umorismo e sovversione RuPaul riesce a emergere dalla scena underground e a prendersi un suo posto in quel mainstream che ancora oggi lo ama e lo celebra.  

Nel momento di massima affermazione di generi musicali come il grunge o il gangsta rap, entrambi specchio di una crisi che attanagliava la società statunitense dagli anni ‘80, il leggero e spensierato Supermodel of the World di RuPaul aveva poche chance di sopravvivere. Eppure, a partire dalla sua uscita l’8 giugno del 1993, il singolo schizzò in vetta alle classifiche internazionali e divenne un vero e proprio inno dance. Attraverso una melodia che riecheggia Fashion di David Bowie, suo idolo eterno, RuPaul racconta con i suoi tipici toni ironici e beffardi la scalata al successo di una giovane drag queen nel mondo della moda.

A essere prese di mira sono le supermodelle degli anni ‘90, una categoria appena nata ma già iconica. Con i loro modi sopra le righe e la loro aria di inarrivabilità, Naomi, Iman, Linda e Cindy hanno costruito un modello di femminilità così esagerato da costituire terreno fertile per una parodia in pieno stile RuPaul. Nel video, mandato a rotazione continua su MTV, una drag queen scorrazza tra un set fotografico e l’altro per le strade di New York, prima piena di sorrisi smaglianti, poi in preda a una crisi di nervi crescente che culmina nella celebre frase di chiusura: You better work!”.

Le top model non sono le uniche figure femminili a essere omaggiate da RuPaul. L’abito rosso e i gioielli scintillanti, così come la famosa scena della fontana, sono chiari riferimenti a Mahogany, il film del 1975 con protagonista Diana Ross, altro idolo d’infanzia di Ru. Insieme a Dolly Parton e Cher, l’ex cantante delle Ronettes è stata fondamentale nella costruzione della nuova identità drag di RuPaul. Per essere appetibile a un pubblico più vasto, la nuova supermodel of the world aveva bisogno di un look più riconoscibile, più accattivante e più glam. È così che è nato il glamazon drag, un look iperfemminile al punto da essere spesso una caricatura ironica di modelli femminili già di per sé molto esagerati.

Tutti quegli anni passati a studiare la cultura popolare si erano rivelati fondamentali per mettere a punto la formula del successo perfetta. Tuttavia, non è solo grazie a look favolosamente eccentrici che RuPaul riuscì a ottenere un consenso pubblico su così larga scala. Secondo RuPaul, il suo grande debutto sarebbe arrivato con la sua partecipazione a tutti quei programmi che si affannavano per ospitarlo nel loro salotto televisivo. La sua apparizione più memorabile è forse quella all’Arsenio Hall Show, dove la sua figura statuaria è resa ancora più magnetica dal suo entusiasmo contagioso e dal suo notevole senso dell’umorismo. La sua capacità di interagire col pubblico è tale che lo stesso Arsenio, conduttore di uno dei talk show più popolari del tempo, soprattutto tra i giovani, sembra sbiadire.

Da qui è tutto in salita. Nel 1995 RuPaul diventa la prima drag a fare da testimonial per il celebre marchio di cosmetici MAC, e l’anno successivo è il conduttore del RuPaul Show, un talk che si distingueva nel tradizionale daytime televisivo per il suo mix di sketch anticonvenzionali e interviste a personaggi iconici su temi caldi come omofobia e AIDS, razzismo e celebrazione della cultura afroamericana, ma soprattutto sessismo e empowerment femminile. Al fianco di Cher, Diana Ross, Mary J. Blige, Cindy Lauper e della sua amica di lunga data, Michelle Visage, RuPaul riuscì a creare degli spazi di riflessione alternativi su questioni urgenti all’interno dello stesso mainstream che di solito le liquidava o le sminuiva. Grazie ai suoi toni sempre ironici e mai perentori, RuPaul riuscì a cambiare radicalmente l’opinione pubblica anche sul drag stesso.

Se fino all’avvento dell’era RuPaul nessuno sapeva cosa fosse veramente il drag, addirittura spesso era ancora confuso con la transessualità, negli anni ‘90 l’immagine dei drag performer fu definita da contorni più netti e precisi. Per decenni le drag queen sono state associate a film come A qualcuno piace caldo, Tootsie o Psycho, che hanno proposto una rappresentazione ridicolizzata del travestimento maschile, talvolta addirittura sinonimo di devianza e pericolo

Supermodel of the World contribuì a smantellare dall’immaginario collettivo questa costruzione stereotipata e il drag fu riabilitato. Percepite finalmente come professioniste del mondo dell’intrattenimento e dell’arte, le drag queen riuscirono a lanciare la loro carriera nel mondo televisivo e sul grande schermo. A questo periodo risalgono infatti il il controverso documentario Paris is Burning (1990), ma anche film cult come Priscilla - La regina del deserto (1994) e A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995), in cui appare lo stesso RuPaul.

Tuttavia, dopo questa fase di boom, l’interesse verso il drag iniziò a scemare. Le ragioni furono varie. Da un lato una tendenza piuttosto comune ai media, ossia quella di puntare la luce dei riflettori su un fenomeno subculturale o per demonizzarlo o, com’era appena successo con Paris is Burning, per trovare una forma di intrattenimento nuova e più esotica. Dall’altro perché l’identità della città di New York stava per essere totalmente ridisegnata. Nel giro di pochi anni quella che un tempo era nota come “fun city” passò dall’essere il centro della vita notturna più stravagante ed eccentrica di tutti gli Stati Uniti, a fare da sfondo all’utopia glamour di Sex and the City. Questo processo di gentrificazione faceva parte di quel progetto politico avviato dall'allora sindaco Rudolph Giuliani, il celebre avvocato di Donald Trump, e che passò alla storia come zero tolerance policy, la politica della tolleranza zero. Se è vero che a Giuliani andò il merito di aver diminuito il tasso di criminalità nella città di New York, è vero anche che punendo i cosiddetti “atti devianti”, violazioni di norme sociali conservatrici, la grande mela perse ciò che l’aveva resa unica. I continui raid della polizia costrinsero molti club a chiudere, privando così le drag queen di uno spazio in cui esibirsi e di un pubblico che le acclamasse. Presto anche RuPaul sparì dalle luci dei riflettori: nel 1998 il suo talk show fu cancellato e i suoi album cominciarono a ricevere sempre meno attenzione dai media.

 

4. RuPaul’s Drag Race e il controverso drag 3.0

Ci vollero diversi anni prima che RuPaul riuscì a ottenere ancora una volta il titolo di drag queen più famosa al mondo. È il 2009, l’anno dell’insediamento di Obama, quando approda sulla televisione americana un programma tanto insolito quanto irriverente. Trasmesso da Logo TV, canale televisivo statunitense di orientamento LGBT+, RuPaul’s Drag Race (RPDR) è una competizione tra tredici drag queen che si sfidano a suon di lip-synch e look eccentrici per diventare “America’s Next Drag Queen”. La scelta di questo titolo, ovviamente, non è casuale. In perfetto stile RuPaul, il programma è allo stesso tempo una riproduzione e una parodia di America’s Next Top Model, il celebre reality di Tyra Banks noto per i suoi toni controversi e sopra le righe. 

Nonostante un periodo iniziale di successo traballante, il mma, unico nel suo genere, ha saputo sopravvivere con tenacia nel palinsesto mainstream, raggiungendo nei tredici anni di messa in onda un successo da oltre 800.000 mila spettatori, solo negli Stati Uniti. Per misurare la popolarità di RPDR nel resto del mondo basta pensare alle numerose varianti internazionali proliferate direttamente dall’originale statunitense. Quello che oggi prende il nome di “Drag Race Franchise” vanta numerose versioni, americane e non: accanto a quella cilena e tailandese, di più vecchia data, a partire dal 2019 sono nate anche quella australiana, spagnola e inglese, per citarne solo alcune.

Con l'ufficializzazione di questo successo da parte della Academy of Television Arts and Sciences, RuPaul riesce a piazzarsi definitivamente sulle vette dello stardom americano. A partire dal 2015, RPDR accumula 39 nominations per gli Emmy Awards, vincendone 19, di cui 5, per 5 anni di fila, per il miglior conduttore, e 3 per il miglior reality televisivo

Ancora una volta a RuPaul va riconosciuto il merito di aver portato un fenomeno subculturale sotto le luci della ribalta, contribuendo così a scoppiare quella bolla di pregiudizi e stereotipi a cui il mondo drag è stato particolarmente esposto. RPDR è stato infatti più volte nominato come miglior reality ai GLAAD Media Awards, premi assegnati a prodotti o personaggi dell’intrattenimento che hanno aumentato la visibilità e la comprensione della comunità LGBT+

Grazie a uno stile inconfondibile nato dall’incrocio di una comicità mai banale e di una sensibilità acutissima, il secondo programma di RuPaul ha risvegliato nuovamente l’interesse dell’opinione pubblica per il drag, inaugurando così una nuova stagione nella storia di questo fenomeno. Oltre a mostrare al pubblico la dimensione di professionalità insita al drag, il reality è riuscito anche a promuovere gli show drag come prodotti di alto intrattenimento. Supportate dalla crescente popolarità di RPDG, le drag queen statunitensi hanno potuto rivendicare nuovamente una cittadinanza economica all’interno dell’industria dello spettacolo.

Ma le protagoniste di questo rinascimento drag recano quasi tutte il marchio Drag Race. È un sentimento fortemente condiviso dalla comunità drag statunitense e non che, nonostante al programma vadano riconosciuti meriti e conquiste importanti, l’immagine del drag che propone sia pericolosamente riduttiva. Se è vero, come afferma trionfalisticamente RuPaul, che lo show ha lanciato la carriera delle quasi 200 concorrenti, è innegabile però che ha contribuito a creare un prototipo di drag che ha generato divisioni ed esclusioni.

Le pretese di rappresentatività del programma sono sistematicamente disattese durante la competizione. Nonostante ogni anno partecipino drag queen di tutti i generi, da quelle più creative e politiche di San Francisco, a quelle più comiche e irriverenti di New York, a essere coronata America’s Next Drag Queen è colei che dimostra di essere in grado di seguire le orme di “Mama Ru”. A tutti quelli che insinuano che RuPaul favorisca i concorrenti che producono look sensazionali alle personalità più spiccate, il conduttore risponde che il suo vero criterio da giudice è la spendibilità nel mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento.

Lungi dal supportare un’idea di drag come espressione libera del sé, RPDR è la promozione di un modello che il conduttore ha plasmato a sua immagine e somiglianza. Dopo tanti anni passati a corteggiare lo showbusiness americano, RuPaul si è reso conto che per rendere il drag un fenomeno pop doveva smussarne le punte più eversive e destabilizzanti. È per questo che è difficile riconoscere nello stesso giudice che storce il naso di fronte a un vestito mal cucito o a una barba in lieve ricrescita, quel ragazzino che negli anni ‘70 aveva sfidato lo status quo mescolando e confondendo i concetti socialmente codificati di mascolinità e femminilità. 

Che si tratti di un elemento di estetica personale o di una semplice svista, la non conformità all’iperfemminilità glamazon è quasi sempre sinonimo di eliminazione. Almeno fino alla sesta edizione del programma, calcare la prestigiosa passerella dello show in abiti androgini o maschili era fortemente penalizzante. In più occasioni i giudici si sono dichiarati addirittura offesi nel vedere i concorrenti in male drag.

Una sorte ancora peggiore spetta invece a chi non soddisfa precisi requisiti di genere. In una controversa intervista rilasciata al Guardian nel 2018, RuPaul ha affermato che il drag è al massimo delle sue capacità rivoluzionarie se a farlo sono uomini, preferibilmente cisgender. Dichiarazioni simili hanno fatto piovere sul programma accuse di transfobia e transmisoginia, incrinando così i rapporti tra RuPaul e la comunità LGBT+.

Le più deluse sono state probabilmente le stesse drag queen. L’indignazione di ex concorrenti che hanno partecipato in quanto persone non binarie o donne transgender, si è sommata a quella di tutta la comunità drag esclusa dal circuito mediatico del programma. Soprattutto in paesi lontani dagli Stati Uniti e dalla presenza ormai ingombrante di RuPaul, infatti, il drag è rimasto un fenomeno subculturale ancora assetato di anticonformismo e stravolgimento. Contrariamente a quanto accade nello show, donne, persone transgender e non binary sono accolti come membri a pieno titolo delle comunità drag locali proprio in vista delle nuove possibilità di sperimentazione e sovversione insite alle loro identità. 

Il franchise Drag Race dunque non sarebbe rappresentativo dell’evoluzione del drag avvenuta in questi anni fuori dagli scintillanti studi televisivi dello show. Anzi, nonostante cerchi di mantenersi in vita spostandosi in centri drag nuovi e avanguardisti come l’Inghilterra, il reality si rivela fermo a un’immagine di drag conservatrice che ha perso il polso del tempo. 



5. Conclusione

È innegabile che il modello RuPaul sia in grado di far presa sul pubblico mainstream oggi come negli anni ‘90. Un buon indicatore della potenza mediatica del brand inaugurato da Supermodel of the World è la forza con cui si è imposto nell’immaginario collettivo internazionale come il drag per eccellenza.

Come lamentano molte drag queen estranee alla realtà del programma, molti dei fan di RuPaul, soprattutto quelli più lontani dal mondo del drag, rimangono sistematicamente delusi di fronte alle loro performance. Contrariamente a quello che sopravvive nei club di periferia, il drag promosso da RPDR è pensato apposta per soddisfare le esigenze del grande pubblico.

Sembra che la nuova era del drag inaugurata da RuPaul abbia cancellato totalmente dalla memoria culturale statunitense quella parentesi storica in cui lo stesso RuPaul ha formato la sua identità drag. Più impegnato a seguire pedissequamente le logiche mainstream, il suo drag ha neutralizzato sensibilmente quella forza eversiva che circolava nei club tra gli anni ‘80 e ‘90 per diventare più simile nei toni e nei modi a quei dettami sociali che tanto criticava e che fin dall’adolescenza aveva cercato di smontare.

È vero che negli anni il drag è passato dal fare timide e denigranti comparse nella televisione americana, all’essere accolto con entusiasmo dai media di tutto il mondo. Viene da chiedersi, però, se nella seconda era RuPaul questo fenomeno non sia stato cooptato dal mainstream, spogliandosi così di una serie di pregiudizi datati per diventare vittima di una stilizzazione scintillante e nuova di pacca. Ridotto a passerelle strabilianti e azzuffate clamorose, il drag ha smesso di essere sinonimo di rivoluzione del genere e dell’identità per diventare puro intrattenimento. 

RuPaul è riuscito a far avverare la profezia della madre Ernestine: è diventato una star e il drag con lui, forse, però, il prezzo da pagare è stato troppo alto.



6. Sitografia

 

Aitkenhead, Decca. RuPaul: ‘Drag is a big f-you to male-dominated culture, 03/03/2018.

Al-Kadhi, Amrou. The UK drag scene is too diverse for RuPaul to turn into a race for ratings, 06/12/2018.

Baume, Matt, RuPaul Teaches LL Cool J the Rules of Drag on "In the House",  23/04/2019

Billboard IT. Chi erano i Club Kids, i clubber che inventarono gli influencer, 19/08/2020.

Bromwich, Kathryn. Fierce competition: how a Brit makeover saved RuPaul's Drag Race, 22/11/2019.

Brumfitt, Stuart. Rupaul talks gender fuck and drag genre, 29/05/2015.

Buchanan, Kyle. RuPaul on Drag Race, Hannah Montana, and ‘Those Bitches’ Who Stole Annette Bening’s Oscar, 04/04/2011.

Hall, Jake. Why RuPaul was a cultural icon long before Drag Race, 25/10/2016.

Herold, Lauren. How RuPaul Became a Leading Icon in the Gay Community, 29/05/2013.

Jung, Alex. Real Talk With RuPaul, 23/03/2016.

Montgomery, Hugh. Is RuPaul’s Drag Race good for drag?, 02/10/2019.

Musto, Michael. How Mayor Giuliani Decimated New York City Nightlife, 06/03/2017.

Sloan, Brian M. 'Drag Explosion': The 'fabulousness and defiance' of '90s drag, 28/12/2020.

RuPaul Answers Increasingly Personal Questions, Vanity Fair, 20/09/2020.

 

7. Bibliografia

 

Butler, J. (1990), Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, New York: Routledge.

Charles, R. Lettin’ It All Hang Out: An Autobiography, New York: Hyperion

 

Foto 2 montypython.com (data di ultima consultazione: 08/08/2021)

Foto 3 albumism.com (data di ultima consultazione: 08/08/2021)

Foto 4 biccy.it (data di ultima consultazione: 08/08/2021)