Giorgia Bosco
Con oltre 10 milioni di copie vendute in 40 paesi, Elena Ferrante è oggi “l’emblema della letteratura italiana nel mondo” (de Rogatis 2016:288). Sebbene attiva dal 1992, anno del suo romanzo d'esordio L’amore molesto, l’autrice acquista notorietà con la saga bestseller de L’amica geniale.
Pubblicati in Italia da e/o Edizioni tra il 2011 e il 2014 a distanza di un anno l’uno dall’altro, i volumi che compongono la tetralogia napoletana, L’amica geniale, Storia del nuovo cognome, Storia di chi fugge e di chi resta e Storia della bambina perduta, ottengono una buona ricezione di pubblico in patria, ma è negli Stati Uniti che, a partire dal 2014, anno di uscita oltreoceano del terzo volume, scoppia la cosiddetta Ferrante Fever.
Vera e propria patologia letteraria al pari della Werther-Fieber e del fenomeno degli Janeites (de Rogatis 2018:28), l’ossessione suscitata dai libri di Ferrante ha mietuto numerose vittime in area statunitense, tra cui spiccano anche nomi celebri: da scrittori come Elizabeth Strout, Jonathan Franzen e Jhumpa Lahiri, a star hollywoodiane del calibro di Gwyneth Paltrow e James Franco, fino ad arrivare a Michelle Obama e Hillary Clinton.
Insieme a questa schiera di lettori d’eccezione e a un pubblico sempre più vasto, il successo planetario della Ferrante è stato definitivamente riconosciuto anche dalle principali testate giornalistiche internazionali: nel 2013 il The Economist la definisce “the best contemporary novelist you have never heard of”, il Foreign Policy la inserisce tra i pensatori globali del 2014 e il Times la elegge tra le 100 personalità più influenti al mondo nel 2016.
Nonostante la scelta dell’anonimato da parte dell’autrice sia al centro dell’interesse di molta critica (soprattutto italiana), il vero mistero non è tanto legato all’identità della Ferrante quanto alla forza del suo racconto: come, infatti, una storia ambientata nella povera periferia napoletana del secondo Novecento è riuscita a circolare così vivacemente in un luogo simbolo per eccellenza di innovazione e ultramodernità come gli Stati Uniti?
L’enigma si infittisce se consideriamo poi la novità del soggetto stesso della tetralogia, ossia l’evoluzione dell’intensa e controversa amicizia tra due donne, Lina ed Elena, che, come tutte le figure femminili ferrantiane, di convenzionale hanno ben poco.
Per far luce sul fenomeno Ferrante senza cadere in facili pregiudizi, è necessario ripercorrere la pluriventennale carriera di un’autrice che, pur nell’ombra, è riuscita, testo dopo testo, a sottoporre la tradizione editoriale e letteraria statunitense e italiana a un urto innovativo al quale non è più possibile rimanere indifferenti.
Contrariamente a quanto si è soliti pensare, il nome della Ferrante era già noto oltreoceano quando la quadrilogia de L’amica geniale ha cominciato a scalare la vetta delle classifiche mondiali. Con il suo primo ciclo di romanzi, Cronache del mal d’amore (2012), l’autrice ha catturato immediatamente l’attenzione della critica e di una certa stampa culturale in area statunitense. A essere lodata principalmente è quella onestà tanto disarmante da rivelarsi violenta che negli anni si confermerà come vera e propria cifra stilistica dell’autrice. Negli Stati Uniti si percepisce immediatamente il contenuto sovversivo dei testi della Ferrante, la cui “forte determinazione a sparigliare le carte, a smentire gli orizzonti d’attesa prestabiliti” (de Rogatis 2018:20) eserciterà un fascino ancora più diffuso con l’uscita della tetralogia napoletana.
Il testo con cui l’autrice si fa conoscere a livello internazionale, I giorni dell’abbandono (2002), propone una narrazione del dolore femminile così lucida e spoglia di pregiudizi da indurre l’editore svedese Bromberg, una volta letta la traduzione, a non pubblicarlo perché troppo scabroso e diseducativo. Come tutte le protagoniste delle Cronache del mal d’amore, Olga, la protagonista, è una donna di mezz’età costretta a fare i conti con le sue vulnerabilità più grandi, nel suo caso scoperchiate dall’abbandono del marito, Mario, che la lascia con due figli a carico perché innamorato di una donna più giovane. Di The Days of Abandonment (2005), primo romanzo di Ferrante tradotto in inglese, il Financial Times loda le capacità di un’autrice che "puts hammer to flesh and invites her reader to penetrate the page" , così come la celebre critica Janet Maslin chiosa la sua entusiasta recensione sul New York Times sull’“emotional and carnal candor” della scrittura.
In particolare, a suscitare l’interesse dei critici statunitensi è la tematica che la Ferrante sottopone ai suoi sforzi di verità: l’esperienza femminile. I personaggi femminili, al centro della produzione ferrantiana, si sottraggono sempre alle logiche di pensiero convenzionali, nonostante la scrittura li catturi immersi in dinamiche piuttosto comuni al vissuto di molte donne: il rapporto madre-figlia, il matrimonio, il divorzio, la maternità e l’amicizia femminile. La Ferrante non percorre le strade narrative più battute, quelle che per lei, interrogata dai suoi editori in merito alla sua idea di “sincerità” in letteratura, corrispondono a un “addomesticamento della verità”, ossia “imboccare vie espressive abusate. [...] Tradire il nostro racconto per pigrizia, per acquiescenza, per convenienza, per paura, perché ci viene facile ridurlo a rappresentazioni collaudate, di largo consumo e quindi di sicuro effetto.” (Ferrante 2016:251). Infatti sottolinea Maslin:
“Many a female novelist has let her fronds vibrate through this kind of domestic meltdown. Popular American writers have a way of reducing this situation to its most banal, self-pitying components. (...) Ms. Ferrante offers a kind of extraterrestrial take on these same developments. (...) The writer is immensely self-aware and her frankness is stunning.”
Secondo il celebre critico statunitense James Wood l’autrice non solo si distanzierebbe da una tradizione letteraria pregna di retorica e luoghi comuni, ma addirittura la demistificherebbe. Sempre a proposito di The Days of Abandonment (2005), Wood scrive: “it rips the skin off the habitual”, sottolineando la capacità di Ferrante di “turn ordinary domestic misery into an expressionistic hell”. Olga è infatti portatrice di tutte quelle verità scomode e indicibili che circondano il culto della maternità. Raggiunto il picco della sua crisi esistenziale, la protagonista confessa con spietata lucidità il suo atteggiamento ambiguo ai limiti dell’ostilità nei confronti del materno:
Scrivevo anche, a tratti, tra le cifre, come mi sentivo: un grumo di cibo che i miei figli masticavano in continuazione; un bolo fatto di materia viva che amalgamava e ammorbidiva continuamente la sua sostanza vivente per permettere a due sanguisughe voraci di nutrirsi lasciandomi addosso l'odore e il sapore dei loro succhi gastrici. Allattare, che disgusto, una funzione animale. E poi gli aliti tiepidi e dolciastri delle pappe. Per quanto mi lavassi, quel malodore di mamma non se ne andava. A volte Mario mi si incollava addosso, mi prendeva stringendomi assonnata, stanco anche lui per il lavoro, senza emozioni. Lo faceva accanendosi sulla mia carne quasi assente che sapeva di latte, biscotti, semolini, con una sua personale disperazione che lambiva la mia senza accorgersene. Ero il corpo di un incesto, pensavo stordita dall'odore del vomito di Gianni, ero la madre da violare, non un'amante. (Ferrante 2002:101-102)
La scrittura della Ferrante problematizza lo stereotipo mariano della maternità, una delle strutture portanti dell’immaginario collettivo (Wehling-Giorgi 2019), portando al centro della narrazione una realtà disturbante, inopportuna che si tende a ignorare. L’obiettivo dell’autrice è infatti spingere il lettore a “fare i conti con se stesso e con il mondo” (Ferrante 2016:320) attraverso una strategia narrativa che disorienta, che gioca con i luoghi comuni per smontarli: “Una buona storia – o, per dir meglio, il tipo di storia che preferisco – da un lato narra un’esperienza [...] secondo le convenzioni, rendendola quindi riconoscibile e appassionante; dall’altro mostra il magma che scorre sotto i pilastri convenzionali.” (Ferrante 2016:321).
La resa del personaggio di Olga è così vivida da suscitare reazioni emotive e fisiche da parte del pubblico statunitense. In un’intervista a James Wood e Ann Goldstein, stimata traduttrice di Elena Ferrante, la culture editor del The New York Times, Sasha Weiss, confessa di aver trovato piuttosto ardua la lettura di The Days of Abandonment: “I had some sort of vertiginous feeling whenever I opened it that I actually had to close it often.”.
Anche David Lipsky, giornalista noto soprattutto per la sua raccolta di interviste a David Foster Wallace, Although Of Course You End Up Becoming Yourself: A Road Trip with David Foster Wallace (2010), lamenta “sintomi” simili. Riguardo a Troubling Love, traduzione inglese de L’amore molesto, lo scrittore statunitense afferma sulle pagine del New York Times: “It’s the first time a novel ever made me get physical”.
Pubblicato in area anglofona nel 2006 in seguito al successo di The Days of Abandonment, il romanzo d’esordio della Ferrante ha spiazzato ancora una volta i lettori statunitensi. Venuta a conoscenza della morte della madre, Delia, la protagonista, decide di indagare su quello che lei presume sia stato un omicidio. Le sue ricerche la costringono a riesumare un passato costellato di episodi di violenza di cui lei è stata vittima e testimone. Delia, come Olga, è così sottoposta a un processo di riscoperta di sé talmente sofferto da indurre Wood a definire Troubling Love una profonda ferita. Secondo l’autorevole critica teatrale Misha Barton, l’opera prima della Ferrante supera per intensità il secondo volume delle Cronache del mal d’amore: “Troubling Love is more chaotic and less controlled than Ferrante's The Days of the Abandonment. And it's easy to get lost in its narrative tide”.
In questo primo laboratorio d’indagine sul rapporto madre-figlia, l’autrice si confronta con un uno dei grandi rimossi del nostro immaginario: il matricidio. In una recensione del secondo romanzo della scrittrice statunitense Alice Sebold, The Almost Moon (2007), la Ferrante lamenta non solo l’assenza di questa tematica dalla tradizione letteraria, ma anche la retorica edulcorata e idealizzata a cui è solitamente ridotta la relazione madre-figlia. L’impalcatura teorica che regge Troubling Love, infatti, non è di matrice letteraria, ma psicanalitica. Avida lettrice di Sigmund Freud e Melanie Klein, l’autrice mette in scena senza apparente programmaticità l’accanimento femminile furioso nei confronti del corpo della madre. Fin da bambina, Delia manifesta un attaccamento possessivo e ossessivo nei confronti del corpo della madre Amalia, percepito come sfuggente e inarrivabile. Il desiderio di ricongiungimento con la figura materna è infatti costantemente frustrato da Amalia che si sottrae da qualsiasi forma di intimità richiesta da Delia, suscitando così nella figlia pulsioni di mutilazione e assassinio (Wehling-Giorgi 2018):
Quel dito ferito di mia madre, forato dall'ago quando non aveva nemmeno dieci anni, mi era noto più delle mie dita proprio grazie a quel dettaglio. Era viola e alla lunetta l'unghia pareva sprofondare. Avevo desiderato a lungo di leccarlo e succhiarlo, più dei suoi capezzoli. […]
Progettavo di bucarmi anch'io l'unghia, per farle capire che era rischioso negarmi quello che non avevo. Erano troppe le storie delle sue infinite, minuscole diversità che la rendevano irraggiungibile, e che tutte insieme la facevano diventare un essere desiderato, nel mondo esterno, almeno quanto la desideravo io. C'era stato un tempo in cui mi ero immaginata di staccarle quel dito eccezionale con un morso, perché non riuscivo a trovare il coraggio di offrire il mio alla bocca della Singer. Ciò che di lei non mi era stato concesso volevo cancellarglielo dal corpo. Così niente più si sarebbe perso o disperso lontano da me, perché finalmente tutto era già stato perduto. (Ferrante 1992: 75-76)
Troubling Love è la raccolta dei sentimenti contrastanti che dall’infanzia alla maturità hanno alimentato l’amore tormentato di Delia per Amalia, è l’evoluzione di quel movimento animale non addomesticabile che regola il rapporto madre-figlia secondo una logica molto lontana da quella delle narrazioni convenzionali. La stessa Ferrante ha dichiarato: “Il racconto del matricidio è raro perché [...] porta il sapere su noi stesse fino al disgusto e obbliga di per sé al deragliamento dalla gradevolezza dei modelli che da sempre ci rassicurano.”. Ancora più di Olga, il racconto che Delia fa di Amalia mette in crisi l’ideale materno tramite un repertorio di immagini violente e disturbanti che non lasciano il lettore indifferente.
Il New Yorker elogia la scrittura plastica dell’autrice, mettendone in evidenza la “rawness of her imagery which conveys perversity, violence, and bodily functions in ripe detail”, mentre la rivista statunitense per bibliotecari Library Journal punta l’attenzione sull’impatto che questa ha sul pubblico: “As the title indicates, Ferrante's vivid and powerful descriptions can be somewhat troubling at times, leaving the reader with a memorable sense of unease”.
L’effetto di autenticità che l’autrice riesce a produrre affacciandosi sulle esperienze femminili, con particolare attenzione al rapporto madre-figlia, è tale da suscitare reazioni forti e contrastanti nei lettori, dall’ostilità all’affinità. Il turbamento che la sua scrittura induce nel pubblico è accolto dall’autrice come la conseguenza inevitabile della sua poetica di onestà: “meglio sbagliare con la lava incandescente che abbiamo dentro, meglio disgustare per questo, piuttosto che assicurarsi una buona riuscita ricorrendo a reperti scuri e freddi” (Ferrante 2016:118). Emblematica la risposta di Wood alla domanda di Sasha Weiss: «“ So should we read Ferrante even though she may hurt us? Because she may hurt us.”».
Seppur di nicchia, il consenso cresciuto oltreoceano attorno alla figura dell’autrice è significativo. Nel 2008 esce la traduzione in inglese dell’ultimo volume delle Cronache del mal d’amore, La figlia oscura (2006), “another intense meditation on womanhood and motherhood”, secondo la rivista statunitense World Literature Today. Dopo il picco di 13.000 copie registrato con The Days of Abandonment, le vendite di Troubling Love e The Lost Daughter scendono a 3.000 ciascuno. Sostiene il fondatore di e/o Edizioni Sandro Ferri: “non sono numeri enormi, ma sono cifre importanti, segnano un’inversione di tendenza generale nel mercato editoriale statunitense”.
Che gli Stati Uniti traducano poco non è un luogo comune: uno studio del 2005 a cui diede avvio The PEN World Voices Festival of International Literature conferma che meno del 3% dei libri pubblicati in inglese sono tradotti e che di questi solo lo 0.7% è di narrativa e poesia. Negli anni l’export di titoli è aumentato fino a raggiungere il 7% nel 2016 per poi scendere nuovamente negli ultimi anni. Pubblicare letteratura straniera, insomma, rimane un’operazione editoriale di nicchia di cui le case editrici indipendenti, piccole o di medie dimensioni, rimangono foriere.
In un contesto simile, il successo clamoroso riscosso della Ferrante con la pubblicazione della quadrilogia de L’amica geniale sembrerebbe avere dell’incredibile. Solo nel 2014, anno in cui scoppia la Ferrante Fever, negli Stati Uniti vengono vendute 140.000 copie dei primi tre volumi della tetralogia, mentre in Italia, dove il quarto volume è già stato pubblicato, le vendite complessive raggiungono le 230.000 copie. L’impatto che la saga bestseller ha avuto sull’export dei titoli italiani negli Stati Uniti sembra essere confermato dai dati di un’inchiesta di Repubblica intitolata “I libri italiani alla conquista del mondo”. Nel periodo preso in analisi, tra il 2014 e il 2015, le vendite di libri in lingua italiana all’estero sono aumentate dell’11,7%, in particolare, in area statunitense, si è registrato un incremento pari al 14,3% su cui il “grande caso letterario” della quadrilogia avrebbe avuto un impatto determinante.
Addirittura, a generare il fenomeno Ferrante sarebbe stato l’enorme successo di pubblico che L’amica geniale ha raccolto negli Stati Uniti, permettendo all’autrice di uscire dalla sua cerchia di estimatori tanto fedele quanto ristretta, e raggiungere così i ranghi della grande distribuzione su scala planetaria. Come mette bene in evidenza il documentario Ferrante Fever (2016), l’epicentro della “ferrantinite” è New York, città emblema di americanità nel mondo. Sfondo di questo docufilm sul caso Ferrante, la grande mela accoglie uno dei luoghi più significativa della fortuna dell’autrice oltreoceano: la libreria indipendente McNally Jackson. È qui che fu coniato il termine “Ferrante Fever” con evidente riferimento a uno dei film cult statunitensi più conosciuti, Saturday Night Fever (1977).
Rispetto agli Stati Uniti, il successo de L’amica geniale in patria e in Europa scoppia con un sensibile ritardo e perdipiù sulla scia della clamorosa risonanza statunitense. Nella sua celebre recensione apparsa sul New Yorker il 14 gennaio 2013, Women on the verge, Wood esordisce infatti definendo Ferrante “one of Italy’s best-known least-known contemporary writers”. In Italia, della saga ci si accorge quando ormai negli Stati Uniti è già diventata un bestseller. Sempre in Ferrante Fever, la sceneggiatrice e scrittrice Francesca Marciano afferma di aver scoperto dell’esistenza de L’amica geniale grazie al consiglio di un appassionato amico statunitense, e il suo non sarebbe un caso isolato. Michael Reynolds, direttore della casa editrice Europe Editions, controparte d’oltreoceano di e/o Edizioni, dichiara che nel 2015, in piena ferrantite globale, i dati di vendita della quadrilogia in Italia raggiungono le 600.000 copie. Negli anni successivi, L’amica geniale avrebbe raggiunto in patria livelli di popolarità tali non solo da pareggiare, ma addirittura da superare quelli statunitensi. Durante un panel del Salone Internazionale del Libro di Torino dal titolo “Lo straordinario successo di Elena Ferrante nel mondo”, Mattia Carratiello sostiene:
“io sono un editor di [narrativa] italiana e di straniera, nel mio ambiente si sente dire in giro che in America [Ferrante] ha avuto più successo che in Italia, ma il successo italiano di Elena Ferrante è insuperabile, non c’è un paese in cui abbia avuto più successo che in Italia”.
Complice del silenzio che ha accompagnato l’uscita de L’amica geniale in Italia è stato probabilmente lo scarso consenso di critica. Alla Ferrante, scrittrice italiana più popolare al mondo, i suoi testi non sono ancora valsi nessun riconoscimento in patria, celebre la controversia generata dalla candidatura al premio Strega dell’ultimo volume della saga, Storia della bambina perduta, promossa da Roberto Saviano. Anche l’accademia italiana è ancora restia ad accogliere l’autrice tra i suoi ranghi, mentre all’estero e soprattutto in area anglofona è da anni oggetto di seminari, giornate di studio e veri e propri corsi universitari.
Le polemiche legate al caso Ferrante gravitano principalmente attorno a una presunta mancanza di qualità letteraria nella quadrilogia, il cui successo sarebbe stato determinato da una serie di operazioni di marketing ben orchestrate dall’autrice in collaborazione con la casa editrice. I critici più ostili dal considerare L’amica geniale degna di un posto tra le file della letteratura “alta”, puntano il dito contro l’uso di tecniche e strategie della letteratura di consumo. Tra i commenti raccolti dal Messaggero nell’articolo “Il fenomeno Ferrante visto dai critici” si legge infatti “Ferrante è una narratrice potente, ma non una scrittrice”, la sua scrittura altri non sarebbe che una “cascata di aggettivi scontati e accostamenti prevedibilissimi” che farebbero del suo romanzo un “feuilleton stilisticamente molto esile”.
L’intreccio accattivante della quadrilogia, però, non ha fatto storcere il naso ai detrattori italiani della Ferrante tanto quanto la natura popolare del suo successo. L’essere un caso commerciale avrebbe perciò reso L’amica geniale meno meritevole di dignità letteraria. Sostiene de Rogatis: “In certe aree della cultura italiana sembra agire un nesso tra successo e tradimento, una sorta di equivalenza moralistica per cui alle vendite di un’opera deve necessariamente corrispondere la svendita sul mercato dei valori letterari e il conseguente degrado consumistico.” (de Rogatis 2018:23).
Col clamore suscitato della saga bestseller, la Ferrante avrebbe perso la stima raccolta in patria con i suoi primi romanzi, i cui dati di vendita, promettenti seppure ancora piuttosto bassi, la rendevano un’autrice di nicchia per palati letterari fini. Già all’uscita della sua opera prima, i giornali esaltano “l’inedita forza espressiva e l’originalità” (Ferri 2017), mentre de I giorni dell’abbandono viene elogiata “l’autenticità priva di falsi pudori e paure”.
La ricezione troppo entusiasta da parte del pubblico statunitense, poi, non avrebbe fatto altro che inasprire le posizioni già severe della critica italiana sulla quadrilogia napoletana:
“Tanto fervore oltreoceanico non ha mancato di suscitare qualche perplessità nei critici italiani. È proprio a partire dal successo americano, infatti, che hanno trovato espressione le maggiori riserve verso la tetralogia. [...] L’approvazione di un pubblico che si presume ingenuo, superficiale e facile vittima di sofisticatissime macchine editoriali non ha fatto che aumentare i sospetti verso un’autrice già colpevole di piacere a molti, a troppi.” (Benedetti 2016:112)
L’affinità al gusto statunitense sembrerebbe supportare quei paragoni avventurosi che etichettano i testi della tetralogia come prodotti commerciali al pari di “una marca di scarpe o di dentifricio” e “testi che sembrano creati a tavolino per agganciare i lettori e le lettrici stranieri”.
Tuttavia, la storia del progetto editoriale alla base del sodalizio tra la Ferrante e la casa editrice Edizioni e/o smentirebbe le accuse di marketing mosse dai detrattori italiani.
A far parlare Sandro Ferri di un successo unico nella storia dell’editoria in merito al caso Ferrante è la forza di una scrittura che è riuscita a imporsi su un pubblico di scala planetaria senza il supporto di quelle operazioni editoriali che solitamente contribuiscono a confezionare un bestseller: nessuno dei testi della quadrilogia è stato accompagnato da pubblicità, lanci marketing o tour promozionali, la pubblicazione è stata affidata a una casa editrice (allora) piccola e indipendente, e la Ferrante non ha rilasciato foto o interviste.
L’autrice è infatti rimasta rigorosamente fedele a un progetto di pseudoanonimato che aveva inaugurato con l’uscita del suo primo romanzo, L’amore molesto (1992). Riporta la data 21 settembre 1991 la lettera in cui la Ferrante, interrogata dall’editrice Sandra Ozzola sul destino promozionale del testo, risponde:
“Non intendo fare niente per L’amore molesto, niente che comporti l’impegno pubblico della mia persona. Ho già fatto abbastanza per questo lungo racconto: l’ho scritto; se il libro vale qualcosa, dovrebbe essere sufficiente. Non parteciperò a dibattiti e convegni, se mi inviteranno. Non andrò a ritirare premi, se me ne vorranno dare. Non promuoverò il libro mai, soprattutto in televisione, né in Italia né eventualmente all’estero. Interverrò solo attraverso la scrittura, ma tenderei a limitare al minimo indispensabile anche questo.” (Ferrante 2016:11)
Con la sua totale assenza dalla scena pubblica, la Ferrante ha voluto sottrarre sé e la totalità dei suoi testi ai meccanismi di quell’industria culturale di cui la critica italiana la ritiene invece complice. Lo pseudoanonimato sarebbe quindi una “strategia di autoprotezione” (de Rogatis 2018:22) da circuiti editoriali che tendono sempre più ad appiattire l’opera di un autore sulla sua biografia, merce al pari della carta stampata: “Se si cede, almeno in teoria si accetta che l’intera persona, con tutte le sue esperienze e i suoi affetti, sia posta in vendita insieme al libro” (Ferrante 2016:57).
Non solo, la battaglia della Ferrante per preservare la sua integrità artistica assume la valenza di una dichiarazione di poetica che valuta l’autore come “l’insieme delle strategie espressive che danno forma a un mondo di invenzione, mondo concretissimo, popolato di persone e accadimenti” (Ferrante 2016:352). Secondo Roberto Saviano, scrittore di fama internazionale che invece ha fatto del proprio volto il punto d’essere delle sua produzione, Ferrante è riuscita a realizzare un vero e proprio “miracolo”, ossia a far parlare semplicemente dei contenuti della sua opera, perché l’autrice è la sua opera (Durzi 2016). Negli Stati Uniti, perlomeno. In patria, la scelta dell’anonimato è stata accolta con molte riserve, come l’ennesima trovata commerciale che ha brillantemente sopperito alla mancanza di qualità letteraria della quadrilogia. Il dibattito critico italiano è però vittima di un malinteso ancora più grave: in molti si sono concentrati sul vuoto esistenziale da questa lasciato piuttosto che sui suoi meriti (o demeriti) letterari. Emblematico il caso di Marco Santagata che, abbandonati i panni dell’accademico per vestire quelli dell’investigatore privato, si è messo sulle tracce dell’autrice in un’inchiesta pubblicata sul Corriere della sera.
Se in Italia l’assenza dalla scena pubblica della Ferrante ha suscitato un’“irritazione talvolta vagamente paranoica” (de Rogatis 2018:22), in area statunitense il potenziale artistico di questa scelta è stato colto immediatamente.
Oltreoceano, molte recensioni sottolineano la ricaduta benefica che la scomparsa dell’autrice ha avuto sui suoi testi, come se, svincolata dalle costrizioni della performance mediatica, la Ferrante avesse acquistato un margine di manovra tale da valorizzare appieno la verità della finzione.
Per James Wood, il modo in cui il vissuto viene rielaborato e raccontato nei testi di Ferrante ha un effetto di autenticità tale che la scelta dell’anonimato diventa immediatamente comprensibile:
“As soon as you read her fiction, Ferrante’s restraint seems wisely self-protective. Her novels are intensely, violently personal, and because of this they seem to dangle bristling key chains of confession before the unsuspecting reader.”.
Alle domande sulle ragioni dell’anonimato postele da Goffredo Fofi, uno dei maggiori critici letterari e cinematografici italiani contemporanei, Ferrante replica infatti: “scrivere sapendo di non dover apparire genera uno spazio di libertà creativa assoluta” (Ferrante 2016:57).
È probabilmente questa la ragione per cui l’autrice riesce nel tentativo apparentemente paradossale di realizzare una “scrittura di verità” (Ferrante 2016:229) all’interno di perimetri scivolosi come quello della finzione letteraria e identitaria. È sempre Wood che a proposito delle Cronache del mal d’amore sottolinea la capacità di Ferrante di spingersi oltre ogni limite, scavando così in profondità da sondare zone inesplorate.
Secondo l’autrice, le bugie possono essere l’alleato migliore di una scrittura autentica:
“Non basta, come si usa sempre più oggi, dire: sono fatti realmente accaduti (...). Una scrittura inadeguata può rendere costituzionalmente falsa la più onesta delle verità biografiche. La verità letteraria non è fondata su nessun patto autobiografico o giornalistico o giuridico. (...) La verità letteraria è la verità sprigionata esclusivamente dalla parola ben utilizzata, e si esaurisce in tutto e per tutto nelle parole che la formulano. Essa è direttamente proporzionale all’energia che si riesce a imprimere alla frase. E quando funziona non c’è stereotipo, luogo comune, bagaglio consunto della letteratura popolare che le resista.” (Ferrante 2016:251)
Più che una strategia di marketing ben strutturata, determinante per il successo planetario de L’amica geniale sarebbe stata la novità di una scrittura plastica che con la sua “honest ferocity” non è semplicemente riuscita a parlare di noi, ma a noi, lettrici e lettori di tutto il mondo. A fare della tetralogia uno dei “testi più apprezzati dell’attuale World Literature” (de Rogatis 2018:24) ha contribuito soprattutto la singolarità di un racconto sulla millenaria subalternità femminile capace di smarcarsi da pregiudizi e luoghi comuni.
Quella tracciata dalle protagoniste, Lina ed Elena, cresciute tra la miseria e la violenza di un rione napoletano del dopoguerra, è una vera propria “parabola di sopravvivenza” (de Rogatis 2018:17). Analogamente alle protagoniste del primo ciclo ferrantiano, Lila e Lenù rendono impossibile ogni forma di vittimismo o patetismo perché rispondono a profili femminili “estremamente intensi e vivi proprio perché problematici, portatori a diverso titolo di ambiguità e contraddizioni”. I loro sforzi per non soccombere alla sopraffazione maschile, sebbene inefficaci talvolta, sono una delle strutture portanti dell’intenso e controverso legame che le terrà unite per tutta una vita. Alleate e rivali, le protagoniste della quadrilogia sono al centro di un rapporto rimasto finora privo di cittadinanza letteraria, “la sregolatissima amicizia femminile” (Ferrante 2016:283). Seppur tormentoso nella sua continua oscillazione tra amore e odio, il rapporto tra Lina ed Elena, costituirà l’unico scudo contro gli attacchi del potere maschile che, come sempre in Ferrante, rischia di annientarle.
Anche le protagoniste de L’amica geniale, come Delia e Olga, sono infatti sottoposte a un incessante processo di destrutturazione identitaria. C’è un momento nella vita delle figure femminili ferrantiane in cui si spezzano improvvisamente i confini a cui la società patriarcale le ha relegate. La Ferrante sostiene: “L’io femminile, con la sua lunghissima storia di oppressione e repressione, tende, rivoltandosi, a frantumarsi e ricomporsi e ancora frantumarsi in modo sempre imprevisto” (Ferrante 2016:312). In tutti i romanzi dell’autrice, la soggettività femminile è ritratta con una tale complessità che, sottoposta alla coerenza obbediente con i canoni e i modelli patriarcali, scoppia in schegge.
Contrariamente a quanto accade nelle Cronache del mal d’amore, nella tetralogia questo processo di decomposizione trascina con sé non solo le protagoniste, ma si estende a tutta la realtà circostante: cose e persone escono dai margini. Lina usa infatti il termine “smarginatura” per definire questo fenomeno psico-fisico che, pur avendo le sembianze di una crisi epilettica, corrisponde a un’alterata percezione del reale. La prima occorrenza di questo fenomeno è la sera di Capodanno del 1985, durante una sparatoria tra gruppi rivali:
Diceva [Lila] che in quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose. [...] Le era sembrato che tutti gridassero troppo e che si muovessero troppo velocemente. Questa sensazione si era accompagnata a una nausea e lei aveva avuto l’impressione che qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a leie intorno a tutti e a tutto da sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stesse spezzando i contorni di persone e cose rivelandosi. (Ferrante 2011:85-86)
Tuttavia, confiderà poi Lila a Elena, che a spaventarla non furono gli spari, ma: “che i colori dei fuochi d’artificio fossero taglienti [...] che ci potessero squartare, che le scie dei razzi strusciassero su mio fratello Rino come lime, come raspe, e gli spaccassero la carne, che facessero sgocciolare fuori da lui un altro mio fratello disgustoso che o rimettevo subito dentro – dentro la sua forma di sempre–, oppure mi si sarebbe rivoltato contro per farmi male. (Ferrante 2014:163).
Proprio come Elena e Olga, Lila è testimone di episodi in cui la materia da inerte diventa pulsante, viva, rendendo i fatti irriducibili alle logiche di pensiero tradizionali. I plurisecolari schemi di lettura antropocentrici scricchiolano sotto il peso di una realtà che sembra avere una propria capacità autorganizzativa, come se “obbedisse a leggi nuove e sconosciute” (Ferrante 2011:85).
Per esplorare le dinamiche che muovono questo spaventoso magma informe torna particolarmente utile il nuovo approccio epistemologico al concetto di “umanità” e realtà introdotto dalla filosofia postumanista.
Nato sul finire del secolo scorso, il Postumanesimo vede nell’attuale rivoluzione tecnologica l’occasione per ripensare il soggetto e il suo posto nel mondo così da porre rimedio ai grandi problemi del nostro tempo: la sostenibilità ambientale e sociale. Secondo le teorie postumane, l’uomo e il mondo non corrispondono a entità distinte in uno schema dialettico che le vede addirittura contrapposte, ma parte di un continuum, per dirla con le parole di Rosi Braidotti, tra le principali esponenti del pensiero postumano, “matter is one” (Braidotti 2013:56).
Le visioni di smarginatura sarebbero quindi le manifestazioni di un nuovo modo di abitare il mondo in cui soggetti umani, animali e oggetti inanimati sono legati da un rapporto inscindibile. In “Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter” (2007), la filosofa statunitense Karen Barad sostiene infatti: “matter is substance in its intra-active becoming – not a thing, but a doing […] a stabilizing and destabilizing process of iterative intraactivity” (Barad 2007:822).
A un cambiamento di prospettiva tale corrisponde una radicale ridefinizione di soggetto, che mette in crisi i plurisecolari parametri identitari tracciati dall’umanesimo rinascimentale. Secondo Braidotti, in occidente, la pretesa universalistica che sottintende alla nozione di “umano” poggia in realtà su una “binary logic of identity and otherness” (Braidotti 2013:15) in cui a una polarità positiva ne è stata contrapposta una negativa, deficiente delle caratteristiche della prima e per questo inferiore. Il “sexualized, racialized and naturalized other” (Braidotti 2013:15) è stato infatti generato da una devianza dal modello autolegittimato del maschio bianco borghese, la cui soggettività è regolata da principi quali omogeneità, fissità ed egemonia. L’umanità come la conosciamo, insomma, è un costrutto sociale che il Postumanesimo si propone di ripensare accogliendo le forze centrifughe provenienti dai margini.
L’essere (post)umano delineato da Braidotti rinuncia all’unitarietà per abbracciare la complessità e il nomadismo identitario, agisce sulla base di un “eco-philosophy of multiple belongings” che lo rende “relational subject constituted in and by multiplicity, that is to say a subject that works across differences and is also internally differentiated, but still grounded and accountable [...] based on a strong sense of collectivity, relationality and hence communitary building.” (Braidotti 2013:49).
Nella Ferrante, questa dissoluzione del soggetto tradizionale prende il nome di “frantumaglia”, neologismo dialettale che Ferrante eredita da sua madre:
La frantumaglia è un paesaggio instabile, una massa aerea o acquatica di rottami all’infinito che si mostra all’io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità. (...) La frantumaglia è l’effetto del senso di perdita, quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo, un ancoraggio per la nostra vita, andrà a unirsi presto a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere. La frantumaglia è percepire con dolorosissima angoscia da quale folla di eterogenei leviamo, vivendo, la nostra voce e in quale folla di eterogenei essa è destinata a perdersi. (Ferrante 2016:95)
È in questo magma interiore che Lila sprofonda durante i suoi episodi di smarginatura. Il suo spaesamento ha radici così profonde da sfociare in una crisi esistenziale, addirittura ontologica, oltre che identitaria. Durante l’episodio del terremoto di Napoli del 23 Novembre 1980 presente in Storia della bambina perduta, Lila confessa a Elena che “avvertiva se stessa come una colata, e tutti i suoi sforzi erano, a conti fatti, rivolti soltanto a contenersi”. Persa nei frammenti suoi e della realtà circostante, Lila è terrorizzata dalla perdita di unità, di quel “filo di cotone” sottilissimo che impedisce al mondo di diventare quello “sciogliersi di materie eterogenee” che la ossessiona dall’infanzia (Ferrante 2014:162). Ancora una volta le parole di Braidotti aiutano a fare chiarezza: “What we humans truly yearn for is to disappear by merging into this generative flow of becoming, the precondition for which is the loss, disappearance and disruption of the atomized, individual self.” (Braidotti 2013:136).
L’amica geniale si rivela così una narrazione “geniale e popolare” insieme (de Rogatis 2018:27), in grado di sfruttare il potenziale ibrido del romanzo a tal punto da far convivere armonicamente tra loro le dimensioni più disparate, dal sensational novel al romanzo di formazione, dal feuilletton a un vero e proprio laboratorio d’indagine sulla soggettività postumana.
Barad, Karen (2007) “Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter”, Signs, University of Chicago Press
Benedetti, Laura (2016) “Elena Ferrante in America” in Allegoria n° 73
Braidotti, Rosi (2013) The Posthuman, Cambridge, Polity Press
de Rogatis, Tiziana (2016) “Elena Ferrante e il Made in Italy. La costruzione di un immaginario femminile e napoletano”. In (a cura di): D. Balicco, Made in Italy e cultura, Palermo, Palumbo
de Rogatis, Tiziana (2018) Elena Ferrante. Parole chiave, Roma , e/o
Ferrante, Elena (1992) L’amore molesto- e/o
Ferrante, Elena (2002) I giorni dell’abbandono- e/o
Ferrante, Elena (2011) L’amica geniale- e/o
Ferrante, Elena (2014) Storia della bambina perduta- e/o
Ferrante, Elena (2016) La frantumaglia- nuova edizione ampliata- e/o
Wheilin-Giorgi Katrin, Playing with the Maternal Body : Violence, Mutilation, and the Emergence of the Female Subject in Ferrante's Novels, California Italian studies, 7 (2018)
Wehling-Giorgi, Katrin (2019) Rethinking Constructs of Maternity in the Novels of Elena Ferrante and Alice Sebold, Women : a cultural review., 30 (1). 66-83 (2019)
“Troubling Love” Groping for Answers in a Forgotten Past, Seattletimes.com (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Se l’amore è furioso, da repubblica.it (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Will Translated Fiction Ever Really Break Through, da vulture.com (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Il fenomeno Ferrante visto dai critici, da ilmessaggero.it (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Women on the Verge, da newyorker.com (data di ultima consultazione: 28/08/21)
A Scorned Wife's Bumpy Road of Raging Self-Awareness, da https://www.nytimes.com/2005/08/25/books/a-scorned-wifes-bumpy-road-of-raging-selfawareness.html (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Lo straordinario successo di Elena Ferrante nel mondo - Salone Internazionale del Libro di Torino, Youtube.com (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Ferrante Fever (2016) - Giacomo Durzi, raiplay.it (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Foto 1 da Text Publishing (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Foto 2 da NapoliToday (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Foto 3 da Genova Today (data di ultima consultazione: 28/08/21)
Foto 4 da Controcampus (data di ultima consultazione: 28/08/21)