Giorgia Bosco
Jose Gutierez Xtravaganza è poco più che quindicenne quando una star del calibro di Madonna gli chiede di mostrarle quelle mosse di danza dalle linee rigide e angolari che negli anni ‘80 stanno prendendo il sopravvento delle periferie di New York. La regina del pop lo aspetta seduta a gambe incrociate su uno speaker del club più in voga dell’epoca, il Sound Factory, e senza indugiare in inutili convenevoli gli dice “Mostrami”. L’adolescente non si lascia intimorire, anzi, salta su quel treno che passa una volta nella vita con un visibile atteggiamento di sfida, quasi di supponenza. Come di fronte a un obiettivo fotografico, il suo corpo comincia a contorcersi in pose plastiche che ricordano le copertine di Vogue, braccia e gambe si muovono con un’energia e una fluidità tali da conquistare immediatamente la cantante di Like a Virgin.
Sono nati così i celebri versi di Vogue, il singolo di Madonna che nella primavera del 1990 scalò le classifiche di 30 paesi in tutto il mondo, catapultando il voguing sulla scena globale. Arruolato per insegnare il ballo alla cantante, Jose Xtravaganza diventò l’autore delle coreografie iconiche del video del singolo, diretto nientemeno che da David Fincher, e dell’indimenticabile esibizione agli MTV Music Awards del 1991 in stile Maria Antonietta. Queste mosse di danza si sono impresse con tale forza nell’immaginario collettivo che a più 30 anni di distanza è possibile trovarne ancora traccia nelle performance di pop star come FKA Twigs, Rihanna, Ariana Grande e Beyoncé. Tuttavia, il singolo di Madonna rappresenta solo una versione della storia del voguing. Le radici culturali di questa danza hanno piuttosto a che fare con una comunità attiva negli Stati Uniti dall’‘800 e tuttavia invisibile, almeno fino agli anni ‘90, quando l’espressione ball culture entra a far parte del vocabolario mainstream. È a questo periodo, infatti, che risale il documentario cult Paris is Burning (1990) di Jennie Livingston, il primo a portare sul grande schermo le vite dei membri afroamericani e latinoamericani della comunità LGBT+ negli anni ‘80.
Consacrata alla fama negli anni ‘90, la ball culture come la conosciamo oggi nasce vent’anni prima, quando la cultura queer comincia a frammentarsi su base etnica. Stanca delle discriminazioni subite all’interno della stessa comunità LGBT+, Crystal LaBeija, una delle poche drag queen afroamericane ad aver vinto concorsi drag organizzati da bianchi negli anni ‘60, decide, insieme a Lottie LaBeija, di dare un ballo nel 1972 per sole drag queen nere. L’evento, che chiamarono "Crystal & Lottie LaBeija presents the first annual House of Labeija Ball at Up the Downstairs Case on West 115th Street & 5th Avenue in Harlem, NY", otterrà un grande successo e rappresenterà un momento storico per la comunità queer. Questo ballo, infatti, non fu semplicemente una prova di resistenza al sistema discriminatorio dei concorsi di bellezza drag, ma il tentativo di restaurare un senso di comunità a cui avevano accesso solo i bianchi.
Harlem, quartiere di New York che ha già assistito negli anni ‘20 all'esplosione di vitalità della cultura afroamericana, comincia così a ospitare competizioni in cui i partecipanti si sfidano in performance quali voguing, lip-sync (mimare il canto su una base pre-registrata) e sfilate davanti agli occhi dell’intera comunità, elettrizzata ed esaltata dallo spettacolo. L’obiettivo è conquistare il favore della giuria nelle categorie per le quali si concorre, principalmente progettate per emulare e parodiare le identità di genere e le classi sociali. Per accaparrarsi un trofeo è necessario dimostrare di possedere la capacità di confondersi con i ruoli sociali a cui i membri della ball culture non hanno accesso per questioni di genere, etnia e classe. Il titolo di Femme Queen Realness, ad esempio, è assegnato ai partecipanti in grado di passare per donne cisgender nel mondo esterno, così come quello di Executive Realness è conferito a coloro che fanno una rappresentazione convincente della figura del dirigente. Ecco la categoria in un estratto del film di Livingston:
È così che la black mecca newyorkese diventa il teatro di una riconfigurazione totale del frammento non bianco della comunità LGBT+ statunitense. Crystal LaBeija, diventata già personalità di spicco della storia LGBT+, diventa la prima “madre” di una “casa”, ossia la figura di riferimento di un nucleo famigliare i cui membri non sono legati da relazioni di sangue, ma sono spesso giovani senzatetto rigettati dalla loro famiglia biologica perché non conformi ai dettami della società eteronormata. Ben presto questa struttura famigliare alternativa prende piede, fino a che, negli anni ‘80, la House of LaBeijia diventa solo una delle tante case che mensilmente si sfida nei balli organizzati ora dalla House Pendavis, ora dalla House of Ninja, ora da quella St. Laurent, ora da quella Xtravaganza, le stesse che compariranno nel documentario di Jennie Livingston.
Respinti ai margini della società dall’omofobia dilagante e dal razzismo che serpeggia nella stessa cultura queer, la ball culture è la risposta all’esigenza di creare un safe space in cui senso profondo di appartenenza, libera espressione del sé e fuga dalla realtà non trovino mai ostacolo.
È proprio questo atteggiamento di sfida alle istituzioni sociali, di sperimentazione consapevole e giocosa, di espressione di fantasie e desideri, che il documentario di Jennie Livingston, Paris is Burning (1990), immortala in un mix di filmati e interviste subito diventati cult. L’opera prima della regista ottiene immediatamente un grande consenso di pubblico e di critica, riscuotendo diversi premi nel circuito dei festival cinematografici. Un successo piuttosto anomalo per un documentario, specie se a esserne il soggetto è la comunità queer afroamericana e latina.
Filmato negli anni ‘80, durante la piena affermazione della ball culture, ma prima che il singolo Vogue portasse i suoi membri sotto le luci della ribalta, Paris is Burning è il frutto di un lavoro lungo sei anni, il tempo impiegato da Livingston per trovare i fondi necessari al suo progetto. In molti rinunciarono a scommettere su un soggetto ritenuto così poco appetibile al grande pubblico, fino a quando nel 1987 Madison Davis Lacy, un produttore afroamericano, e Nigel Finch, regista e produttore inglese omosessuale, decidono di sostenere la causa di Livingston.
La possibilità di realizzare Paris is Burning ha significato aprire finalmente uno squarcio su un aspetto della vita della comunità LGBT+ da sempre in ombra e di preservare così un pezzo fondamentale di storia della cultura queer. Tuttavia, la narrazione della ball culture proposta da Livingston, una donna bianca queer, non ha convinto tutti, in particolar modo la stessa comunità rappresentata e più generalmente il pubblico afroamericano. Le critiche e i dubbi diffusi in questa fetta di pubblico sono state sapientemente raccolte in un famoso saggio di bell hook, “Is Paris Burning?”. Inserito nella raccolta Reel to real: race, sex, and class at the movies (1996). Questo scritto è un attacco alle implicazioni politiche legate alla scelta di rendere visibile una minoranza da sempre invisibile tramite lo sguardo di un outsider privilegiato.
Passando in rassegna alcune dichiarazioni di Livingston, la critica femminista si rende conto che la regista è piuttosto ignara delle dinamiche di potere inevitabilmente coinvolte. Livingston prende sempre le distanze dalle accuse di appropriazione culturale, più adatte, secondo lei, al caso di Madonna. Giocando spesso la carta del suo essere un soggetto emarginato a sua volta, Livingston dà prova di non comprendere come la sua whiteness penetri e plasmi il suo sguardo sul mondo.
L’obiettivo di bell hooks diventa allora quello di svelare l’esistenza dello scarto tra l’immagine della ball culture presentata in Paris is Burning e quella che i membri di quella stessa comunità hanno di loro stessi. Secondo la critica, le scelte registiche che tradiscono la presenza di un “imperial white gaze” (hooks, 1996:283), uno sguardo bianco imperialista, sono molteplici, a partire dalla struttura stessa del documentario. La predominanza delle scene del ballo è tale da interrompere bruscamente quasi tutte le interviste nei momenti a più alta tensione drammatica. Il conflitto tra queste due linee narrative suggerirebbe che nel momento in cui i soggetti ripresi non dimostrano di essere carismatici, teatrali e innovativi possono essere espulsi dalla macchina narrativa perché incapaci di suscitare interesse. Il pubblico che Livingston immagina (perché ne fa parte), lo stesso che sancirà il successo della pellicola, deve essere costantemente intrattenuto e divertito da individui sempre performativi. Nel corso del film, Pepper LaBeijia, Octavia St. Laurent, Venus Xtravaganza e gli altri si avviano progressivamente verso una trasformazione da soggetti dotati di un’identità a beni di consumo pensati appositamente per un pubblico bianco. Persino la tradizione del ballo è spettacolarizzata a tal punto da perdere quella dimensione rituale che le è propria per appiattirsi su quella di uno spettacolo escapista.
A sostegno di questa tesi, è possibile consultare le scene inedite contenute nell’edizione speciale di Paris is Burning, uscita in occasione del trentesimo anniversario della pellicola, e chiedersi come altro sarebbe stato possibile realizzarla. Si scopre così che a essere state scartate dal final cut sono scene di vita quotidiana che non contengono quella spettacolarità e teatralità della narrazione scelta da Livingston. Carmen Xtravaganza e Octavia St. Laurent che uccidono la noia passeggiando per Times Square in un’afosa serata estiva parlando di capelli e vestiti. Oppure un gruppo di ragazzi che giocano all’intricato “Let’s play lawyer” per passare il tempo al West Side Piers, uno dei luoghi di ritrovo più frequentati dai membri della ball culture. Delle 75 ore di riprese, sono stati scelti i 78 minuti più extra-ordinari.
L’incontro con l’alterità auspicato dalla stessa Livingston è assente nella pellicola secondo hooks, anzi, l’altro si cristallizza con ancora più forza in un essere lontano ed esotico. Gli stessi membri della ball culture sono di questo avviso. Che il documentario si concentri con attenzione quasi morbosa su quegli elementi che il pubblico bianco avrebbe percepito come “devianza”, è stato immediatamente chiaro ai soggetti ripresi.
Infatti, in How Do I Look, documentario realizzato nel 2006 dalla stessa comunità in risposta a Paris is Burning, Marcel Christian LaBeijia denuncia l’indelicatezza delle costanti domande di Livingston e della sua crew, tutta bianca, sulle condizioni di estrema povertà della comunità. Più volte nel film i protagonisti sembrano restii a rispondere a questo tipo di quesiti e cercano di sviare le continue sollecitazioni della regista. Questo accade in particolare nella sezione del film dedicata al “mopping”, il furto di abiti da indossare ai balli, e in tutti quei momenti in cui viene suggerito, mai esplicitato, che spesso le donne transgender della comunità si mantengano come sex workers.
L’accusa di spettacolarizzazione, tuttavia, non è l’unica raccolta dalla crew incaricata di filmare How Do I Look, che invece è composta da membri della stessa ball culture. Oltre a essersi sentiti rappresentati come delle anomalie sociali, i protagonisti di Paris is Burning si sono unanimemente sentiti sfruttati. Il film di Livingston non ha creato nessuna possibilità per loro, che nonostante i grandi incassi del film hanno ricevuto solo qualche migliaio di dollari a testa dopo lunghe battaglie legali. Mentre la regista lanciava la sua carriera su scala globale, Octavia St. Laurent non era diventata la grande star che sognava di essere grazie a Paris is Burning, ma era tornata a ballare dietro i vetri dello stesso nightclub per cui lavorava prima delle riprese. Allo stesso modo, Pepper LaBeija è tornato a vivere con sua madre nel Bronx senza poter mandare i figli al college. L’unico che è riuscito ad affermarsi è Willi Ninja con una carriera nella danza, nella moda e nella musica, che gli è valsa vari riconoscimenti globali.
Squattrinati e decimati: è così che una celebre inchiesta del New York Times ritrova i protagonisti di Paris is Burning qualche anno dopo l’uscita del film. In occasione della recente scomparsa di Angie Xtravaganza, una delle figure di spicco della comunità, il quotidiano statunitense si mette sulle loro tracce, illuminando uno spazio tornato nuovamente in ombra dopo essere stato usato e abbandonato dalla luce dei riflettori. Sovraesposti all’attenzione dei media, la ball culture di Harlem è stata lasciata da sola a fronteggiare una serie di minacce che mettono in serio pericolo la sua esistenza. Oltre a essere vittime di pregiudizi e dello stigma associato all’allora dilagante AIDS, i membri della comunità si sono trovati a combattere contro la criminalità, l’abuso di sostanze e il virus stesso, che ne aveva colpito oltre il 60%.
In quel periodo i giornali avevano iniziato a utilizzare il tempo passato per parlare della ball culture, tuttavia la comunità mostrò resilienza. La House of Latex venne appositamente creata per far fronte comune contro l’epidemia dando vita a una serie di progetti che si rivelarono così efficaci da essere stati portati avanti fino a oggi. Primo su tutti l’annuale Latex Ball che, insieme al Project VOGUE, è stato pensato per sensibilizzare e raccogliere fondi da stanziare per le cure e la prevenzione dell’AIDS. Anche il Love Ball creato con lo stesso intento da Susanne Bartsch si rivelò piuttosto efficace. Nel 2019 la pioniera dei diritti LGBT+, infatti, organizzò il Love Ball III, a cui parteciparono, oltre ai membri attuali delle case più in vista, anche diverse star queer come Billy Porter e Indya Moore, protagonisti di Pose, la serie di Ryan Murphy che nel 2018 ha portato la ball culture sul piccolo schermo di Netflix.
Se la ball culture oggi è ancora viva ed è riuscita a raggiungere degli spazi di visibilità mediatica di cui i membri stessi ne sono gli autori, è grazie alla tenuta del sistema sociale inaugurato dal ballo dato da Crystal LaBeijia nel 1972. La rete di protezione che le case e i balli hanno rappresentato per soggetti così vulnerabili all’emarginazione, allo sfruttamento e alla spettacolarizzazione, ha permesso alla ball culture di sopravvivere a quei pericoli che spesso per le comunità sono sinonimo di estinzione: un’epidemia e una sola narrazione distorta.
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How Do I Look, Wolfgang Busch (2006) (data ultima consultazione: 06/08/2021)
Paris is Burning, Jennie Livingston (1990) (data ultima consultazione: 06/08/2021)
The Queen: NYC Drag Pageant Scene Before House LaBeija, Matt Baume, (data ultima consultazione: 06/08/2021)
The Hidden History of Paris is Burning, Matt Baume, (data ultima consultazione: 06/08/2021)
Foto 2 britannica.com (data ultima consultazione: 06/08/2021)
Foto 3 theguardian.com (data ultima consultazione: 06/08/2021)