Sicuro di non sapere?” (Notte europea dei ricercatori)

laboratori, metodologie didattiche, antropologia dell'educazione, public engagement

Incertezza come fonte di creatività

testo di Roberta Bonetti


Fin dai primi anni di scuola siamo stati ossessionati dalle risposte giuste. Ricordiamo tutti il classico momento in cui – e ciò succede anche con gli studenti universitari –, l’ansia sale, e vi è la speranza che la/il maestra/o ci chieda proprio quello che sappiamo, e lo sconforto di ricevere una domanda alla quale non sappiamo  rispondere.
Impariamo che tutto ha una risposta corretta e tante risposte errate. In occasione della notte dei ricercatori abbiamo fatto una semplice esperienza di ricerca delle tante e possibili risposte giuste  della sola errata, non perché quest’ultima sia sbagliata di per sé, ma lo è nella misura in cui pretende di essere l’unica giusta.

Educare alla complessità

 

I metodi per affrontare situazioni e problemi complicati sono molto diversi da quelli adatti alle situazioni complesse. La nostra realtà è sempre più interconnessa (e quindi ci pone problemi complessi).
Nonostante questo noi continuiamo ad ‘addestrare’ le persone a dare le risposte corrette.Invece di favorire l’apertura, l’emergere di diverse alternative, riduciamo gran parte del nostro apprendimento a logiche binarie on-off, giusto-sbagliato.
È un training alle alternative che ci permette di non essere sorpresi da eventi totalmente inaspettati e di stare a contatto con l’incertezza come fonte di creatività. Al contrario, l’ossessione della risposta giusta può essere molto pericolosa: anziché insegnarci a stare a contatto con l’incertezza essa può creare false certezze, irrigidendo le nostre posizioni e decisioni e generando intolleranza verso possibili alternative. 
Se la nostra educazione ci porta a concepire la realtà come lineare, i problemi come complicati, e le risposte come “giuste o sbagliate”, certamente non preparerà i giovani a convivere con l’incertezza e a comprendere le dinamiche di un mondo globalizzato e interconnesso. Educare alla complessità significa allenare questa capacità di generare molteplici alternative di mondo.

La mano mille dita

 

Abbiamo provato a chiedere a un bambino (dagli 8 ai 12 anni) come è fatta una mano.
Quasi ovvio che la risposta corretta fosse stata “una mano è rosa”, “una mano ha cinque dita”…Ma un problema complesso non ha una soluzione valida a priori e in senso assoluto. Esso ha una valenza contestuale, ovvero funziona solo “qui e ora”. E di questo abbiamo voluto fare esperienza.
Nella performance ognuno ha avuto a disposizione un proprio cerchio di carta, espressione del proprio spazio vitale e personale. Si tratta di un elemento per nulla scontato. Se non abbiamo un nostro spazio non possiamo nemmeno condividerlo con gli altri. Se non abbiamo percezione di ciò che significa avere un proprio spazio non possiamo divenire consapevoli di quella linea di confine che permette il contatto e la relazione costruttiva con l’altro. È stata data quindi ampia libertà ai modi di presa di possesso e di azione del proprio spazio di carta. Qualcuno si è avvicinato ad esso con reverenza e timore, qualcun altro con una tempistica molto soggettiva, altri ancora si sono ben guardati dal tenere le distanze dai confini e dai possibili punti di contatto con altri cerchi/spazi. Si è trattato di piccoli gesti che hanno evidenziato una preziosa comunicazione corporea dei partecipanti. È nello spazio personale, che è anche luogo della creatività e dell’immaginazione, che è stato chiesto di rispondere… “stiamo bene attenti” e “in modo corretto” alla domanda sopra descritta (esperienza che ha portato alcuni ragazzi ad esternare una serie di interessanti punti di vista e opinioni relative ai contesti educativi quotidiani).
Prima di rispondere alla domanda che implicava una ricerca delle possibili alternative all’unica risposta giusta è stata suggerita una esperienza di gruppo: i bambini sono stati invitati ad uscire dal proprio cerchio/spazio per incontrare ad occhi chiusi le mani di tutti gli altri partecipanti. Abbiamo immaginato che questo potesse essere un modo diverso di apprendere cosa è una mano. È stato quindi chiesto di stare in ascolto per qualche minuto delle sensazioni e di accogliere le immagini provocate dall’incontro e dal groviglio di mani, dallo stringere e dal rilasciare mani sconosciute.



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Educare alle alternative

 

L’esperienza non è stata facile, molti hanno espresso sensazioni contrastanti; benché si fosse tutti con gli occhi chiusi, non è mancato chi pur tenendo una mano aggrappata al gruppo con l’altra cercasse di svincolarsi quasi a voler fuggire da una esperienza provocante disagio, e per qualcuno addirittura paura e dolore.
Dopo l’esperienza ognuno è rientrato nel proprio spazio, in ascolto dei pensieri, delle emozioni, dei suoni, e delle immagini provocati dal contatto con altre mani.
Ne sono emersi disegni, parole, posture, gesti, espressioni ovviamente tutte giuste e foriere di apprendimento, soprattutto per noi adulti. Il cognitivo si è integrato all’esperienziale-corporeo-emo-zionale. La mano a cinque dita è divenuta la mano a mille dita, è divenuta il senso di sporco, di paura, di stress, di stranezza, di fatica, di disagio, per qualcuno espressione di dolore che non essendo riconosciuta come legittima emozione dal soggetto che l’aveva provata, secondo quest’ultima non poteva nemmeno essere scritta sul foglio di carta poiché considerata cosa brutta, negativa e non degna di essere resa pubblica.
È emersa tutta la valenza di una educazione che seppur in buona fede diviene spesso valutante in senso giudicante, confondendo la vicinanza di banco con l’esperienza di contatto con la realtà dell’altro, quell’educazione che a dire di una  bambina di otto anni “ci chiede di essere perfetti ma è impossibile essere perfetti”, la stessa bambina che aveva evitato di rappresentare quel senso di dolore provato perché giudicato brutto e non degno di essere comunicato. Si è trattato di una esperienza breve che, come abbiamo detto, richiede di essere sviluppata e approfondita in un tempo e spazio adeguato.

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Di relazioni si fa esperienza

 

E poi? Una volta accettato il paradigma educativo della complessità, come si insegna a scegliere, con quale etica? Ci sembrava intanto utile porre in evidenza l’importanza di sviluppare il maggior numero di alternative, educando a pensare e ad apprendere dalle proprie azioni ed emozioni. 
L’agire è quindi imprescindibile, dato che una decisione è adeguata ed etica se nel momento dell’azione è stato possibile immaginare e fare esperienza del più ampio numero di retroazioni.
Tutto ciò ha a che fare con la sostenibilità e con l’epistemologia: si tratta di altri temi complessi che si possono apprendere, senza la necessità di verbalizzarli ma facendo, per l’appunto, esperienza di complessità.
Le relazioni non si accumulano come fossero cose, come fossero una somma di entità, come la somma delle cinque dita di una mano.
Di relazioni si fa esperienza.

Immagini: Momenti dell'esperienza in Sala Borsa. Bologna. Foto di Roberta Bonetti