Sapere 100 per insegnare 1...

Per noi, questo, è un lavoro intimamente politico. E continueremo a farlo.

Pubblicato il 11 maggio 2018

Abbiamo (tutti e tre) letto l’appello con attenzione. In primo luogo perché viene dal mondo della scuola (7 insegnanti di scuola superiore sono i primi firmatari) ed esprime un evidente malessere di fronte ai cambiamenti che stanno investendo la professionalità docente e l’educazione democratica. In secondo luogo perché contiene alcune critiche e proposte (finalmente!) ragionevoli, in mezzo ad attacchi pregiudiziali nei confronti di una riforma che evidentemente ha fallito (se la Buona Scuola, pur riversando sulle scuole attenzioni e finanziamenti invocati da tempo, ha finito per creare un conflitto insanabile tra insegnanti e governo di centro-sinistra), ma che nelle intenzioni di chi l’ha promossa e sostenuta voleva incidere sulla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, e che in alcuni dei suoi effetti (il ritorno della formazione in servizio, per esempio, o l’attenzione ai bisogni dell’apprendente: non solo sottoforma di “competenze” da sviluppare, ma anche di “curricolo verticale” da attuare) ha avuto il merito di scrollare (se non scuotere) un “corpo docente” spesso inerte (specie ai livelli più alti dell’insegnamento) e refrattario ai cambiamenti.

Siamo ben consapevoli delle derive negative del processo: la corsa ai corsi di aggiornamento (che spesso si limitano a fornire ricette comportamentiste e kit di formule psicopedagogiche), le misurazioni incaute e le certificazioni facili, l’entusiasmo incauto per le nuove tecnologie e l’aggravio della burocrazia, certe proposte discutibili di distribuzione dei contenuti lungo il percorso scolastico, l’alternanza scuola-lavoro come forma di sfruttamento.

Siamo consapevoli anche del modello economicista che sostiene molte scelte governative. Neppure noi vogliamo una scuola delle skills e del “sapere fare” come ricetta facile contro la crisi del mercato del lavoro, ma – attenzione – non vogliamo neppure la scuola di classe che desiderano il famoso imprenditore di Cuneo e, ahinoi, anche molti dirigenti scolastici di licei. Perché – diciamoci la verità – il problema della scuola di oggi non è solo la crisi dei contenuti, ma anche il rifugio in una tradizione che ha già mostrato di aver fallito nel formare parlanti e scriventi competenti che siano anche cittadini consapevoli (i dati sull’abbandono scolastico e sull’analfabetismo di ritorno parlano chiaro). Il risultato è che oggi chi non conosce a fondo la propria disciplina si rifugia in fantomatici percorsi educativi psicopedagogici privi di contenuti; chi conosce solo la propria disciplina (magari come gli è stata insegnata svariati decenni prima) si rifugia in un «mastrocolismo» chiuso e classista.

Noi vorremmo rivolgere la nostra riflessione (che non è un appello), a tutti gli altri (che esistono, per fortuna): gli insegnanti (futuri, attuali, a riposo) che cercano di fare del proprio meglio, con fatica e perseveranza, per trasmettere in modo critico e aggiornato i contenuti della propria disciplina. Parleremo degli insegnanti di lettere, in particolare. Figure essenziali (non meno degli altri) per gli studenti e per la comunità nel suo complesso. Non solo perché la nostra comunità fa ancora della cultura classicista (e della sua presunta sopravvivenza a rischio) il perno del dibattito pubblico, ma perché l’insegnamento della lingua è al cuore dell’educazione democratica e della trasmissione di tutti i saperi, umanistici e scientifici.

Non risponderemo all’appello (che non abbiamo firmato, perché rifiutiamo la strategia argomentativa dell’amalgama – fare di tutt’erba un fascio – come leva identitaria), ma a un recente articolo di Salvatore Settis (Scuola, la catena del sapere spezzata) che, indirettamente e a distanza di alcuni mesi, riprende dalle colonne di un quotidiano nazionale (“Il Fatto quotidiano”) alcuni termini della questione, e più in particolare il dibattito “competenze” versus “contenuti” e “conoscenze”.

C’è da chiedersi infatti, leggendo questo intervento autorevole, se abbia ancora senso occuparsi di didattica dell’italiano (ma riflessioni analoghe sono state fatte da Antonio Brusa per la didattica della storia): spendere cioè tempo ed energie per studiare le forme di trasmissione della cultura e delle discipline a scuola.                           

Premettiamo che anche Settis tende in alcuni punti all’amalgama: la pedagogia e la didattica sono due cose diverse; la didattica generale (la metodica, come si chiamava nell’Ottocento) non va confusa con le didattiche disciplinari. Quanto alla «didattica del pilotaggio», beh, di questa nessuno di noi è un esperto. Da un po’ di tempo però, e da percorsi diversi (quello di uno studente, quello di una docente in servizio e quello di una ricercatrice che si occupa di formazione dei docenti), ci siamo interessati alla didattica dell’italiano: della lingua italiana e della sua letteratura. Per noi, la riflessione sulla didattica non è un mero esercizio da burocrati (e tantomeno un modo per occupare posti e far cassa), ma un modo per ripensare profondamente una disciplina che ci appassiona; in alcuni casi, anche una forma etica di impegno per rivedere un modello di insegnamento che, da troppi anni, è uguale a sé stesso. Di certo non una «moda» che ha preso piede negli ultimi decenni.

Pensare alla didattica può, infatti, diventare un modo per riflettere sulla lingua e sulla letteratura come forme della canonizzazione (e dunque della trasmissione, non sempre critica, di un insieme di conoscenze), per rivedere categorie fondanti del nostro sapere o addirittura per sovvertire il canone letterario.

Facciamo subito due esempi: la riflessione scientifica sulla grammatica, avviata a partire dalla denuncia delle lacune e aporie cristallizzatesi nel suo insegnamento scolastico, ha portato oggi allo sviluppo di un modo nuovo di guardare alla nostra tradizione grammaticale, non per rifiutarla in blocco, ma per snellirla, correggendone lo strabismo (le nostre grammatiche, nel descrivere l’italiano, continuano a guardare al latino) e integrandone i punti deboli alla luce di alcune nozioni fondamentali della linguistica moderna. Solo una conoscenza approfondita e critica, di livello universitario, della grammatica italiana (conoscenza che manca nella maggior parte degli insegnanti) può contribuire a rinnovare pratiche scolastiche che ormai trasmettono solo “nozioni” (che è cosa diversa dai contenuti) grammaticali sterili se non nocive (gli insegnamenti troppo precoci – la grammatica si comincia a imparare a 6-7 anni, quando ancora il pensiero astratto è in formazione – e basati su misconcezioni precludono i futuri apprendimenti). Ben venga allora il concetto di “competenza” se ci aiuta (come insegnanti) a capire che saper riconoscere un nome o un verbo è più importante di sapere che cos’è un nome e un verbo: solo, tra l’altro, ci renderemo conto dell’inadeguatezza delle definizioni tradizionali. Se capiamo perché è opportuno insegnare la grammatica partendo da nome e verbo, anziché dall’articolo, e perché è necessario tagliare la lista dei complementi (iniziando a distinguere tra quelli necessari e quelli facoltativi): solo così, infatti, potremo avviare un proficuo cambiamento delle pratiche e creeremo un presupposto per il ridimensionamento di un’editoria scolastica che continua a proporre manuali di grammatica ipertrofici, con indici uguali dalla primaria al biennio superiore.

Un altro esempio: proviamo a mettere da parte per un po’ La cavallina storna e le donne idealizzate della poesia stilnovista (incautamente presentate alla scuola media: l’età dei primi amori e dolori…) e iniziamo a dire agli studenti che sono esistite anche donne scrittrici: Compiuta Donzella e Gaspara Stampa, Elsa Morante e Amelia Rosselli. Sono solo quattro esempi, potremmo farne altri cento. In quante aule, nel corso di quest’anno scolastico, risuonerà la voce infantile di Useppe de La Storia o quella, unica, di Amelia Rosselli che legge Impromptu? In poche, purtroppo. Ed è il segno evidente di una tendenza da invertire.

Occuparsi di didattica può essere anche un modo per riconfigurare il rapporto dello studente con la lettura e la scrittura (in Italia si legge troppo poco, come sappiamo), oltre che con le altre forme d’arte. Pensiamo, banalmente, al cinema: salvo rare eccezioni (come il progetto bolognese «Un film nello zaino»), i film – una delle componenti essenziali della cultura contemporanea – sono quasi del tutto assenti dall’orizzonte dell’insegnamento. Un insegnamento che, del resto, continua a proporre una narratologia basata sull’analisi delle fiabe tradizionali a ragazzini che dominano narrazioni (nel fantasy, nei videogiochi, nelle serie televisive) basate sull’intreccio di decine di plot e ruoli non riducibili a quelli catalogati da Propp.

Anche per questo crediamo sia necessario investire ancora più risorse nella formazione dei docenti: nella formazione relativa alle didattiche disciplinari e non solo alle metodologie didattiche à la page. Coerentemente bisognerebbe aumentare le cattedre di didattica della lingua e della letteratura (insegnamenti fondamentali per chi aspira, in futuro, a diventare docente) specie nelle Facoltà di Lettere. Se c’è infatti un ciclo di scuola in cui l’insegnamento della letteratura e della lingua italiana andrebbe ripensato è proprio alle superiori, in cui spesso arrivano ottimi filologi e amanti appassionati della letteratura (anche in proprio) che liquidano molti contenuti fondamentali come «roba da scuolette» e indugiano sui minori dei secoli scorsi senza arrivare mai ai giorni nostri. 

Se chiediamo di potenziare questi insegnamenti non è per creare nuovi posti (l’interesse per le didattiche disciplinari non è certo premiante nella carriera accademica italiana), né per promuovere una «super-disciplina» che inglobi tutte le altre, ma per dotare i futuri insegnanti di più strumenti critici e di più consapevolezza: perché la passione e le conoscenze sono, certo, il cuore della trasmissione della cultura – e, oggi più di ieri, “bisogna sapere 100 per insegnare 1” – ma non bastano a sé stesse. Perché a insegnare si impara, e per trasmettere passione non basta il carisma (come per scrivere poesie non basta l’ispirazione): occorrono contenuti e metodo. 

Chiudersi in un disciplinarismo passatista (ed elitista) può solo contribuire ad alimentare il fumo che circonda un veicolo in panne. Riprendendo la metafora di Settis: nessuno di noi (inclusivo) salirebbe su un areo pilotato da un teorico della navigazione aerea anziché da un vero pilota, ma nessuno di noi (esclusivo) non salirebbe su un aereo non revisionato guidato da un pilota che non abbia passato i regolari controlli.

Per concludere, nel condividere alcune delle preoccupazioni espresse da Salvatore Settis e nel ribadire la centralità delle didattiche disciplinari (che non possono e non devono essere sostituite, ma semmai affiancate dalla didattica generale), vorremmo ricordare l’importanza di non confondere i piani del discorso, e la necessità di ripensare profondamente le forme e i modi della trasmissione e della didattica: non per il gusto di indulgere in esercizi autoreferenziali, ma, al contrario, per rivitalizzare quei «contenuti» evocati da Settis. Senza rinunciare però al cammino intrapreso negli anni Settanta verso una scuola inclusiva, che non svilisca la professionalità dell’insegnante (trasformandolo in qualcosa di diverso: assistente sociale, motivatore, agente di collocamento), ma neppure respinga i ragazzi come “alieni”. Una scuola capace di far crescere lo «spirito critico» e la creatività: ingredienti fondamentali, oggi più di ieri, delle «virtù essenziali del buon cittadino».

Per noi, questo, è un lavoro intimamente politico. E continueremo a farlo.