Roberto Andrés Lantadilla
“YOU will be gradually replaced by LOVE”.
Così George Saunders esclamava nel famoso commencement speech per i laureati della Syracuse University del 2013, dove tuttora insegna. L’acclamato autore di racconti brevi, osannato dalla critica per la sua satira compassionevole, è ormai diventato il santo patrono della gentilezza.
Lincoln in the Bardo, il suo debutto da romanziere, nonché vincitore del Man Booker Prize 2017, ne è la prova: già nelle prime pagine è capace di portarti sull’orlo della commozione, per poi rompere l’incantesimo scaraventando una trave in testa ad uno dei protagonisti. Da questo incipit grottesco si definisce il tono del romanzo, in costante bilico tra il tragico e il comico, che accompagna il lettore in un insolito percorso verso la più totale empatia con i suoi innumerevoli personaggi.
Febbraio 1862, Oak Hill Cemetery. Ci troviamo nel bardo, stato di transizione che secondo la tradizione tibetana segue la morte e precede, nelle parole dell’autore, “qualsiasi cosa accada dopo”. Tre spiriti passano oziosamente il loro tempo raccontandosi a vicenda le sfortune che li hanno portati in quel luogo. La loro routine viene interrotta dall’arrivo di Lincoln, non Abraham, ma Willie, il figlio deceduto prematuramente nel bel mezzo della guerra civile americana.
Lo spunto del romanzo nasce proprio da un aneddoto secondo il quale, dopo la morte del figlio, Abraham Lincoln si recò più volte nella sua cripta per stringerne il corpo. Se allarghiamo la concezione del bardo, come fa Saunders, a qualsiasi zona di transizione, il Lincoln nel bardo è anche il padre, intrappolato in una guerra più sanguinaria del previsto, e alla guida di una nazione sull’orlo della rottura. La trama si snoda intorno al fatto che i bambini, di solito, non si trattengono per molto nel bardo, e chi lo fa ne patisce amare conseguenze, nelle cui descrizioni la prosa sfiora l’horror lovercraftiano. L’arrivo di Willie, e soprattutto le insolite visite del padre alle sue spoglie, catturano l’attenzione della disparata comunità degli spiriti intrappolati nel bardo.
Si tratta per lo più di figure marginali, outsiders, che in coro intonano la voce di un’America dimenticata, fatta di sofferenza e sconfitta:
Faces thrusting into the doorway to blurt their sad
This or that None were content
All had been wronged
Neglected
Overlooked
Misunderstood
Many wore the old-time leggins nad wigs and willie lincoln
Come si può facilmente notare da questa citazione, uno degli aspetti chiave del romanzo è la forma: la narrazione consiste per lo più in brevi monologhi o dialoghi delle anime in pena del bardo, ai quali si alternano capitoli storici, in cui Saunders si cala nel ruolo del curatore, arrangiando una serie di citazioni tratte da fonti primarie e secondarie, fra le quali ne confonde di inventate. Nei capitoli ambientati nel cimitero, il lettore viene immerso nelle molteplici voci che popolano il bardo, e il fatto che il nome del personaggio che parla venga riportato sempre dopo la citazione permette a Saunders una maggiore flessibilità narrativa.
In alcuni momenti, ognuno dei personaggi esprime la propria personalità attraverso il linguaggio, risultando in un ventaglio di voci vernacolari che si sovrappongono e si contraddicono a vicenda. In altri momenti, invece, le voci si completano, risultando in un’unica voce collettiva, in cui il nome del personaggio narrante diventa un accessorio, letteralmente, tra le righe. Curioso è il fatto di come Saunders riesca a fare un’operazione simile con i capitoli storici. In alcuni punti le fonti storiche si contraddicono, mostrando l’inaffidabilità della narrazione storica. Brillante da questo punto di vista è un capitolo interamente incentrato sulle svariate descrizioni della luna in una determinata notte:
A common feature of these narratives is the golden moon, hanging quietly above the scene. In “White House Soirees: An Anthology,” by Bernadette Evon. There was no moon that night and the sky was heavy with clouds. Wickett, op. cit.
Il risultato di questa sperimentazione con le fonti storiche crea un’interessante sottotrama, consegnandoci spesso una realtà storica frammentata, in cui tutte le sfaccettature si rivelano. Attraverso questa operazione, e ad un’accurata scelta di fonti primarie, emerge per esempio l’impopolarità di Lincoln negli anni decisivi della guerra. Fino a qui, il lettore appassionato di postmoderno non può che non notare un’affinità alla metafinzione storiografica alla Thomas Pynchon, ma il risultato che raggiunge Saunders con questi mezzi non può esserne più distante.
Questa oscillazione formale tra una differenziazione e un’omologazione delle diversissime voci che compongono il romanzo rispecchia un aspetto chiave del suo contenuto. Senza stare a rivelare troppo al lettore, possiamo dire che la dissoluzione dell’ego è al centro di questo romanzo, che ruota tutto intorno al concetto di empatia. Ci troviamo agli opposti del consueto distacco ironico postmoderno, al centro di un romanzo che più che mostrarti la sua storia te la fa vivere, che ti avvolge in una vera e propria esperienza, come commenta Zadie Smith.
Lincoln in the Bardo è un romanzo sul senso di appartenenza, e dietro la personale vicenda di ogni personaggio c’è il dilemma di un presidente alle prese con l’instabile sorte dell’unione degli Stati Uniti d’America.
Saunders, George, Lincoln in the bardo, Penguin Random House, 2018
Foto 1 da journalofthecivilwarera.com (data di ultima consultazione 30/08/2021)
Foto 2 da personalreporter.it (data di ultima consultazione 30/08/2021)
Foto 3 da illibraio.it (data di ultima consultazione 30/08/2021)