“I Fucili”: il delirio artico di William T. Vollman

Roberto Andrés Lantadilla

William T. Vollmann torna a far parlare di sé in Italia, grazie alla prossima pubblicazione di quattro suoi romanzi nella collana Sotterranei della casa editrice Minimum fax. La serie di pubblicazioni si è inaugurata a novembre con l’uscita di I Fucili, romanzo ancora inedito in Italia, nella splendida traduzione di Cristiana Mennella. Delirante, brutalmente onesto e camaleontico, questo volume ci costringe a fare i conti con uno degli autori più geniali di tutta la letteratura americana. Che rapporto c’è fra l’autore e il suo romanzo? In un certo senso, quando imbraccia la penna l’autore sta compiendo una metamorfosi, annullando una parte di sé e diventando “altro”. Per un certo tipo di scrittore è del tutto inutile cercare la linea di demarcazione che divide la realtà dalla finzione; tant’è che la scrittura diventa essa stesso lo strumento mitopoietico di creazione del sé. 

Da questa stirpe discende la strabordante prosa di William T. Vollmann, autore che ha dedicato la maggior parte della sua immensa produzione letteraria al tema dell’alterità. Smosso da un forte desiderio dell’esotico, a monte di ogni suo progetto letterario c’è un estensivo periodo di ricerca che lo porta spesso in luoghi estranei, marginali o di conflitto, dove si espone a rischi smisurati per cercare di imprimere sulla propria pelle il soggetto della sua indagine. Autentico avventuriero postmoderno, quel che i suoi romanzi spesso ci restituiscono  invece è un senso di impossibilità nel cogliere la realtà in toto

Il primo dei suoi tentativi falliti fu nel 1982, quando a soli ventidue anni decise di partire per l’Afghanistan a combattere a fianco dei mujaheddin. Pochi anni dopo ridimensionò il suo raggio di azione per i racconti di The Rainbow Stories (1989), immergendosi nei bassifondi di San Francisco, nel tenderloin, mimetizzandosi tra la fauna locale di skinheads, alcolizzati, e prostitute, soggetto particolarmente caro all’autore, che a questo ha dedicato un’intera trilogia. 

In una intervista del 1993 con il critico letterario Larry McCaferry, Vollman spiega che fu questa discesa negli inferi del territorio americano a portarlo a concepire il ciclo dei Sette Sogni, il progetto letterario più ambizioso di Vollmann, secondo solo a Rising Up and Down (2003), saggio di oltre 3000 pagine sul peso etico della violenza.

I romanzi che compongono il ciclo, di cui finora cinque sono stati dati alle stampe, raccontano i tragici scontri tra i nativi del territorio nordamericano e i primi esploratori europei, in un lasso temporale di un millennio che va dal primo sbarco nel nuovo mondo, quello di Erik Il Rosso a cui è dedicato il primo volume The Ice Shirt (1991), fino ai giorni nostri. La peculiarità di questo progetto sta nella sua intenzione di abbattere la barriera fra storia e mitologia, attraverso una narrativa altamente simbolica che testimonia la dolorosa serie di metamorfosi che ha portato alla nascita dell’America come la conosciamo oggi. 

Non sorprende che la principale fonte d’ispirazione letteraria siano proprio le Metamorfosi di Ovidio: partendo da un’ideale età dell’oro, ognuno dei Sette Sogni testimonia il passaggio da un’epoca all’altra, sempre più degradata da quella precedente. 

I Fucili, pubblicato originariamente nel 1994, è il sesto sogno, nonostante sia stato il terzo in ordine cronologico di pubblicazione, e forse il capitolo più insolito della saga. Il romanzo si compone di una duplice narrazione, in un complicato intreccio fra cause ed effetti. In una, il racconto segue l’ultima spedizione capitanata da John Franklin nell’artico in cui, in cerca del passaggio a Nordovest, perderà la vita insieme a tutto il suo equipaggio. Nell’altra seguiamo il Capitan Sottozero (alter ego di Vollmann) mentre assiste alle disperate condizioni del popolo Inuit, dopo il trasferimento forzato negli anni 50 per volere del governo canadese.

Partiamo però, com’è giusto, dall’emblematico titolo: in ogni episodio della serie, l’equilibrio di un popolo viene scombussolato dall’introduzione repentina di una nuova tecnologia. In questo caso, il fucile a ripetizione stravolge l’ecosistema dell’artico, portando sull’orlo dell’estinzione il caribù e il bue muschiato, da cui dipendeva in larga misura la sopravvivenza del popolo Inuit. Perciò, all’interno del racconto onirico il fucile viene elevato ad uno status totemico, feticcio di una forza soprannaturale. La riflessione sulla tecnologia è un altro dei temi cari all’autore, sul quale torna con insistenza. Addirittura, Vollmann stesso racconta che, per via delle sue vedute non del tutto simpatizzanti verso il progresso tecnico-scientifico, l’FBI indagò su di lui in segreto durante le ricerche su Unabomber ritenendolo un possibile sospettato degli attentati che terrorizzarono un'intera nazione. D’altronde, basti pensare che il suo romanzo d’esordio, You Bright and Risen Angels (1987), metteva in scena una battaglia lisergica tra forze reazionarie tecnochauviniste e un’armata di insetti insurrezionalisti, il tutto raccontato dal punto di vista di un programmatore che, dalla sua scrivania al computer, dava vita ai suoi personaggi.

Ma tornando a I Fucili: la matrice metafinzionale fa sì, come accennato prima, che le due narrazioni si fondano. Le peripezie di Vollmann nell’artico diventano anche quelle di John Franklin e viceversa. Peraltro per scrivere della desolazione artica, l’autore, come a suo solito, ha voluto provare in prima persona l’esperienza, rischiando di morire di ipotermia in una spedizione in solitario al polo magnetico, come descritto all’interno del libro.  

Il Capitano Sottozero diventa così il vero e proprio alter ego di John Franklin. L'escamotage narrativo che permette questa fusione è tratto da uno scabroso dettaglio: secondo alcune fonti, l’alta quantità di piombo nelle provviste in scatola causò il deterioramento psichico e fisico dei membri dell’equipaggio. Man mano che procede la narrazione della spedizione, gli effetti dell’avvelenamento da piombo infittiscono la prosa di deliri onirici e visioni in cui lo stesso Franklin viene infestato, anacronisticamente, dai pensieri di Sottozero. 

Al centro del romanzo, e al centro del desiderio dei due uomini, c’è Reepah, una giovane Inuit con problemi di alcolismo con cui Sottozero ha una travagliata relazione. La torbida demarcazione tra realtà e finzione nel racconto fa si che questo personaggio giochi un ruolo cruciale sia sul piano simbolico che sul piano autobiografico. La sua presenza nel romanzo si può leggere come una reincarnazione postmoderna e degradata di Sedna, la dea dell’abbondanza per il popolo Inuit, ridotta a sniffare solventi per alleviare il dolore dell’esistenza. 

 

Ma in fondo che cosa accomuna John Franklin a Capitan Sottozero, ossia Vollmann stesso? “In tutti questi Sette Sogni”, commenta il narratore, “tutti vogliono sempre essere o avere qualcun altro;” (p. 224). Il desiderio di conoscere l’altro, di divorarlo e di conseguenza di diventare l’altro è la malattia di cui i personaggi di questo libro sono portatori sani. Le riflessioni metanarrative, lungi dal limitarsi all’autoindulgenza, portano l’autore a riconoscere in se stesso i sintomi di quell’epidemia che è stata capace di spazzare via popoli interi: la bramosia dell’esoterico, di ciò che è ignoto. La quarta spedizione di Franklin diventa così un ammonimento, la caduta dell’eroe faustiano che finisce per dissolversi nell’oggetto del suo desiderio senza mai raggiungerlo veramente.