I ragazzi della Nickel: sguardo sul razzismo sistemico statunitense

Greta Luciani

Dalla fine di febbraio 2025 è disponibile anche al pubblico italiano I ragazzi della Nickel (Nickel Boys, in originale, 2024), film candidato agli Oscar 2025.

Sotto la regia di RaMell Ross, all’esordio nel lungometraggio narrativo, I ragazzi della Nickel è l’adattamento dell'omonimo romanzo di Colson Whitehead – due volte premio Pulitzer, nel 2017 con La ferrovia sotterranea (2016) e nel 2020 con, appunto, I ragazzi della Nickel (2019).

La pellicola indaga la questione del razzismo sistemico americano e le oscure conseguenze della sua pervasività nella società statunitense. Si tratta di un’opera immaginativa potente, le cui scelte di regia legano a doppio filo l’esperienza emotiva dello spettatore a quella dei protagonisti.

I ragazzi della Nickel si svolge in Florida, negli anni Sessanta. Sullo sfondo della vicenda c’è il Movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King. Proprio il suo volto appare sugli schermi di alcuni televisori esposti nella vetrina di un negozio. La rivoluzione passerà in TV? Non esattamente. 

Siamo nel profondo Sud statunitense, luogo che porta ancora con sé le scorie di un torbido passato. Lo sa bene il giovane Elwood Curtis, adolescente afroamericano che, per lo spettatore, fa da finestra sul suo tempo dalla nativa Tallahassee. Per un equivoco, Elwood viene arrestato dalla polizia. Nonostante la sua completa innocenza, non sfugge alle dinamiche essenzialiste dell’epoca e paga il prezzo del razzismo finendo alla Nickel Academy, un riformatorio per criminali minorenni. Qui, come in qualsiasi altra istituzione della Florida del tempo, vigono le cosiddette leggi “Jim Crow” sulla segregazione razziale, che vedono i neri separati dai bianchi. La divisione non si limita ai soli dormitori, né alle attività di recupero – che, pure, ricordano fin troppo i lavori forzati a cui erano costretti fino alla morte gli antenati dei ragazzi della Nickel. A sottolineare l’analogia, c’è anche un altro aspetto: i detenuti afroamericani che non si dimostrano ligi alle regole e disposti a lavorare senza aprir bocca, finiscono per essere frustati, come si faceva con gli schiavi nelle piantagioni. Nelle scene di tortura, la regia punta a generare una sinestesia sensoriale da incubo: l’orrore della fustigazione avviene nel cuore della notte, in un buio asfissiante, a cui fa da sottofondo il frastuono delle turbine di ventilazione, azionate per coprire il crimine.

Eppure, la violenza non è trattata in maniera esplicita. Sebbene l’argomento sia centrale e affrontato in maniera diretta, non vengono mai mostrate immagini cruente. Potrebbe sembrare una scelta volta a non urtare la sensibilità del pubblico ma, in verità, un utilizzo esplicito delle efferatezze non è necessario: quella rappresentata in I ragazzi della Nickel è una violenza psicologica, ancor prima che fisica. È la violenza di un mondo in cui il solo colore della pelle è sufficiente per accusare giovani ragazzi di reati, per giustificare maltrattamenti di ogni sorta e per soffocare sul nascere ogni possibile riscatto sociale.

Alla Nickel, quella società statunitense che all’inizio del film sembrava avviarsi verso l’emancipazione razziale viene riportata indietro nel tempo. O, almeno, questo è quello che si potrebbe pensare. La realtà è che certe pratiche non sono mai state davvero dimenticate e, come nello schiavismo, degenerano: le torture alla Nickel portano spesso alla morte dei ragazzi, messe a tacere dai guardiani del riformatorio, che liquidano i giovani scomparsi come fuggitivi.

In riformatorio, Elwood incontra Jack Turner, detto Turner. Fra i due si instaura un’amicizia profonda, cuore pulsante del film. Un amalgama omogeneo e ben calibrato, che genera una doppia prospettiva sui fatti narrati. Da una parte, Elwood. La sua ingenuità e fiducia nel mondo non vengono piegate dalle disumanità della Nickel: rimane convinto che, una volta fuori, la sua vita tornerà a correre sui binari prestabiliti. Turner, invece, è più cinico e duro. Consapevole degli orrori che lo circondano - dentro e fuori il riformatorio - pensa solo a salvare se stesso. Nonostante ciò, prende Elwood sotto la sua ala: lo istruisce, lo protegge e, a sua volta, trova riparo in lui. Elwood e Turner diventano l’uno per l’altro antidoto al terrore claustrofobico che permea i corridoi della Nickel: i due ragazzi si aiutano, si spalleggiano, tentano insieme di colmare i vuoti di un tempo che sembra dilatarsi. Se possibile, non si lasciano mai. Si innesta così un gioco di scambi che salda i destini dei due ragazzi: alla fine del film, Elwood viene ucciso mentre i due cercano di fuggire; sopravvissuto, Turner prende il nome dell’amico e ne tiene viva la memoria per tutta la vita.

La scelta di ancorare la macchina da presa allo sguardo di Elwood e Turner appare precisa, deliberata. I due sono incaricati di narrare la storia, fornendo allo spettatore un punto di vista privilegiato su fatti che rimarrebbero altrimenti oscuri, sfumati. Ma, ancora di più, l’identità fra gli occhi dei ragazzi e quelli dello spettatore evoca la nascita di una possibilità altrimenti irrealizzabile: Elwood e Turner diventano soggetti attivi. Non siamo di fronte a una soggettività che prende parola: la vicenda rimarrà taciuta per svariati decenni dopo il loro periodo di incarceramento e il film si chiude solo alludendo al fatto che Turner, una volta adulto, verrà allo scoperto e denuncerà quanto vissuto. L’assenza di parole lascia spazio a un tipo di testimonianza diversa, il cui apporto è saliente: la prospettiva di Elwood e Turner incarna lo sguardo della vittima, cioè l'unico possibile testimone di un trauma indicibile. Lo spettatore se lo ritrova nel suo spazio personale, incollato addosso, senza possibilità di prenderne le distanze e nascondersi dietro la barriera del privilegio. Lo sguardo dei ragazzi della Nickel si fa carico in maniera diretta e senza filtri di un’esperienza – quella della soggettività nera – che ancora oggi viene sminuita, inquinata e negata. 

I ragazzi della Nickel si pone come un documento che avvicina e problematizza un sistema di pensiero radicato a fondo nella società statunitense, per ricordarci che c’è ancora tanta strada da fare. Sebbene l’ambientazione iniziale della pellicola possa apparire relegata al passato e a un’America ben diversa dai nostri giorni, la linea temporale del racconto finisce per coinvolgere anche gli anni Dieci del Duemila, verso cui si viene catapultati senza preavviso. Nel presente-futuro, il sordido segreto della Nickel viene alla luce grazie alla scoperta delle decine di tombe in cui si nascondono i resti dei ragazzi uccisi. Lo stesso romanzo di Whitehead che è all’origine della pellicola si ispira a fatti realmente accaduti: la scoperta di 55 tombe nel territorio della Dozier School for Boys, nel 2012 in Florida. Un riformatorio, proprio come la Nickel, segregato fino alla metà degli anni ‘60, quando il Civil Rights Act mette fine all’apartheid statunitense.

Il motivo del passaggio a un qui e ora nella narrazione è evidente: sebbene si possa pensare che la questione del razzismo sistemico appartenga al passato, le sue conseguenze e le sue dinamiche sono ancora vive nel presente. Lo spettatore viene invitato a riflettere su una tematica che, al contrario degli innumerevoli giovani afroamericani sacrificati sull’altare del suprematismo bianco, è ancora dolorosamente viva

 

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