"La memoria è l'inizio": postmemoria della Shoah in Esther e Jonathan Safran Foer

Valeria Pezzini

Al giorno d’oggi la Shoah è lo sfondo o il focus di innumerevoli prodotti culturali e artistici, fruibili da un pubblico sempre più ampio. Le sue rappresentazioni sono oggi incredibilmente varie e diversificate e infrangono tabù un tempo impensabili.

Le evoluzioni di quello che oggi è un vero e proprio genere letterario e artistico sono frutto anche della distanza temporale, geografica e culturale che oggi ci separa dalla tragedia dell’Olocausto.

Un esempio delle innumerevoli prospettive che la memoria, o meglio, la “postmemoria” della Shoah può offrire, è rappresentato da Esther e Jonathan Safran Foer, madre e figlio, due diverse generazioni, segnati dallo stesso trauma familiare e bisognosi di raccontarlo ai lettori con modalità diverse, ma con un obiettivo in comune: sottolineare quanto è importante ricordare.

 

1. La letteratura dopo Auschwitz

2. La postmemoria
3. Everything is Illuminated di Jonathan Safran Foer
4. I Want You To Know We’re Still Here di Esther Safran Foer
5. Conclusioni
6. Bibliografia / Sitografia

 

1. La letteratura dopo Auschwitz

Nel 1949 il filosofo Theodor Adorno aveva dichiarato: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Questa sentenza lapidaria, d’impatto ma spesso erroneamente interpretata, esprime chiaramente il senso di smarrimento e incertezza della classe intellettuale di fronte alla tragedia della Shoah e alle sue conseguenze. Adorno nella sua Dialettica negativa (1966) ha infatti precisato:

 

“Forse dire che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia è falso: il dolore incessante ha tanto il diritto ad esprimersi quanto il martirizzato ad urlare. Invece non è falsa la questione, meno culturale, se dopo Auschwitz si possa ancora vivere”.

 

La Shoah costituisce inevitabilmente uno spartiacque nella Storia mondiale e così nella storia della letteratura. La letteratura dopo l’Olocausto andava necessariamente ripensata, adattata alla situazione drammatica in cui si trovavano i sopravvissuti, i testimoni e chi solo molto più tardi è venuto a conoscenza dell’orrore che si consumava in Europa. Il dopo Auschwitz, tuttavia, aveva la responsabilità di portare alla luce l’orrore e la verità di quegli eventi e dare voce ai tanti che avevano dovuto tacere. Dagli anni Sessanta appaiono in tutto il mondo opere memorialistiche, autobiografie e testimonianze di sopravvissuti alla Shoah, tra di loro i celeberrimi Primo Levi, Elie Wiesel e Anne Frank, confermando che scrivere e leggere dopo Auschwitz non solo era possibile, ma era addirittura necessario.

Tuttora la Shoah è un tema costantemente presente non solo nella letteratura, ma anche nel cinema e nelle arti figurative. Ciò che è radicalmente diverso oggi, però, è la modalità di rappresentazione della tragedia, non solo film documentari o opere memorialistiche, ma per la maggior parte fiction. Libri, film e arte in generale oggi valicano i limiti in maniera un tempo impensabile, dando vita a rappresentazioni della Shoah anticonvenzionali e controverse, surreali, irriverenti e addirittura comiche. Si pensi a La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, ai film La caduta (2004) di Oliver Hirschbiegel e Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi, che offrono un’immagine di Hitler rispettivamente umana e satirica, o a Inglourious Basterds (2009) di Quentin Tarantino, che immagina una vendetta ebraica nei confronti dei nazisti.

La svolta avviene a partire dagli anni Settanta, quando sul panorama letterario si affaccia la cosiddetta generazione della postmemoria”, ossia i figli di sopravvissuti o sfuggiti all’Olocausto. Questa seconda generazione, nata dopo la guerra, non serba ricordi diretti di quegli eventi, ma sembra avere un rapporto molto profondo con l’esperienza dei propri genitori, che la studiosa Marianne Hirsch definisce “postmemoria” (Hirsch, 2012:5).

2. La postmemoria

I figli di sopravvissuti, secondo Hirsch, sono spesso segnati in prima persona dall’esperienza dolorosa dei loro genitori e, pur non avendo vissuto l’orrore del lager, manifestano un trauma simile a quello dei sopravvissuti, che sembra essere trasmesso come patrimonio ereditario da madri e padri. Tra questi autori spiccano i nomi di Melvin Jules Bukiet, Thane Rosenbaum e Art Spiegelman, autore di Maus, famoso graphic novel autobiografico che narra le vicende di Artie, un giovane americano di seconda generazione, intrecciate ai ricordi di suo padre Vladek, sopravvissuto ai campi di concentramento di Majdanek e Auschwitz.

In Maus Artie descrive le sensazioni di un esponente di questa seconda generazione e il suo sentimento di colpa nei confronti di ciò che i suoi genitori hanno vissuto, rendendo evidente quanto la postmemoria non sia semplice conoscenza della Storia istituzionale ed empatia nei confronti di chi ha sofferto, ma una vera e propria ferita profonda e lacerante, che spesso conduce a disturbi simili a quelli provati dai sopravvissuti.

 

[Artie:] I did have nightmares about S.S. men coming into my class and dragging all us Jewish kids away. Don’t get me wrong. I wasn’t obsessed with this stuff … It’s just that sometimes I’d fantasize Zyklon B coming out of our shower instead of water. I know this is insane, but I somehow wish I had been in Auschwitz with my parents so I could really know what they lived through! (Spiegelman, 2008:16)

 

La generazione della postmemoria ricerca evidentemente nuove modalità di espressione e rappresentazione del trauma. Le memorie e i resoconti non sono adatti a descrivere vicende mai realmente vissute da parte loro, se non in maniera indiretta, e per questo vengono abbandonate, lasciando spazio al romanzo e al racconto.

A partire dagli anni Novanta, però, si assiste all’esordio di una nuova generazione di scrittori della Shoah, la cosiddetta terza generazione”. Ad essa appartengono i nipoti di sopravvissuti o sfuggiti allo sterminio e non solo: anche i nipoti di uomini e donne vissuti contemporaneamente all’Olocausto. Secondo Joost Krijnen, infatti, nel caso della terza generazione, l’ereditarietà diretta del trauma non è così fondamentale. Krijnen individua l’autore di terza generazione come un americano figlio o nipote di immigrati ebrei europei, completamente assimilato e legato alla cultura e alle tradizioni ebraiche più che alla religione stessa. Ciò che connette questi autori all’ebraismo sarebbe proprio l’Olocausto, percepito come distante geograficamente e temporalmente, ma ancora vicino da un punto di vista strettamente emotivo.

Infatti, pur essendosi consumato in Europa, l’Olocausto è rapidamente entrato nel canone americano, dando vita a una vera e propria americanizzazione della Shoah. Gli Stati Uniti hanno accolto, prima, durante e dopo la Guerra mondiale, migliaia di profughi e rifugiati ebrei europei, che costituiscono oggi una delle più diffuse minoranze del Paese. Il loro apporto alla cultura americana è decisivo per portare avanti la trasmissione della memoria e coinvolgere così le generazioni future. Tra i più famosi scrittori ebrei-americani spiccano i nomi di Michael Chabon, Nathan Englander, Nicole Krauss e Jonathan Safran Foer.

Questi autori riflettono in maniera particolare sulla propria identità ebraico-americana e non hanno scritto specificatamente di Shoah, ma essa resta sullo sfondo, ricoprendo una parte indiretta della narrazione, ma comunque presente e ricca di stimoli e suggestioni.

Uno dei più interessanti esempi di letteratura ebraico-americana contemporanea è il caso della famiglia Foer, di origini ebraiche e discendenti di vittime e sopravvissuti alla Shoah. I tre fratelli Foer si dedicano tutti alla scrittura: Franklin e Joshua sono giornalisti, mentre Jonathan è un autore di fiction. La madre, Esther Safran Foer, nata in Polonia e figlia di sopravvissuti all’Olocausto, ha scritto il suo primo libro nel 2020, un volume autobiografico sulla storia della propria famiglia.

Le memorie di Esther e il romanzo Everything is Illuminated (2002) di Jonathan raccontano la stessa storia: quella della famiglia di Esther, sopravvissuta in parte alla Shoah. Le due opere, però, presentano molte differenze. La modalità di rappresentazione delle vicende legate alla Shoah, così come la scelta del genere letterario, sottolineano un differente rapporto dell’autore con il dramma dell’Olocausto, motivato dal distacco generazionale che separa i due scrittori. Alla luce delle riflessioni sulle generazioni della postmemoria, è interessante indagare gli effetti che le differenze di rappresentazione provocano  sul lettore che si approccia alla stessa storia secondo due diversi punti di vista.

 

 3. Everything is Illuminated di Jonathan Safran Foer

Everything is Illuminated (2002) è il primo, famosissimo romanzo di Jonathan Safran Foer, da cui tre anni dopo è stato tratto un omonimo film. Il romanzo si basa su un viaggio realmente compiuto dall’autore nel 1999, quando si era recato in Ucraina sulle tracce della storia del nonno materno, emigrato durante la guerra.

Nel 1942 l’area venne occupata dai nazisti che, con la collaborazione della polizia ausiliaria ucraina, sterminarono l’intera popolazione dello shtetl, stimata attorno alle 4000 persone. Il protagonista del romanzo, che coincide con l’autore, si reca a Trachimbrod, in Ucraina, per cercare informazioni su Augustine, la donna che sessant’anni prima avrebbe salvato suo nonno dalla morte, permettendogli di fuggire in America. Il ragazzo porta con sé solo una fotografia della donna che gli è stata consegnata da sua madre. Ad accompagnarlo nel viaggio ci sono Alex, un ragazzo ucraino della sua stessa età, e suo nonno, che crede di essere non vedente e per questo si fa guidare da un cane.

Le vicende si intrecciano su tre diversi filoni narrativi: uno raccontato da Alex in un inglese sgrammaticato e scorretto, al cui centro vi è il viaggio a Trachimbrod; il secondo, costituito dalle lettere che Alex scrive a Jonathan dopo il suo ritorno in America e che esplorano il legame di amicizia che gradualmente nasce tra i due; il terzo narrato da Jonathan e basato sulla storia, mitica e romanzata, del villaggio di Trachimbrod e dei suoi abitanti dal 1791 al 1942. In questo filone sono fondamentali le vicende di Safran, il nonno di Jonathan, che dopo una giovinezza piena di avventure sentimentali convola a nozze con Zosha, dalla quale avrà una figlia. Zosha e la neonata cadono vittime dei nazisti, mentre Safran si salva miracolosamente.

Il romanzo si focalizza sulla ricerca della verità e sulla necessità da parte di Jonathan di riempire i vuoti nella memoria familiare con il suo viaggio. Il lettore immagina, infatti, che alla fine del romanzo il protagonista giunga a una conoscenza soddisfacente riguardo a ciò che sua madre non sa, ma le pagine finali dell’opera tradiscono tali aspettative, proponendo una risoluzione degli eventi inattesa.

Il gruppo crede di aver finalmente ritrovato Augustine, ma si tratta di Lista, un’anziana donna e ultima abitante di Trachimbrod, che racconta loro la tragica occupazione nazista. Lista, confusa e annebbiata, è la personificazione della memoria dello stesso shtetl: possiede numerose fotografie degli abitanti assassinati durante la guerra ed è l’unica a custodire la memoria delle loro storie. Una di esse turba profondamente il nonno di Alex e riguarda due amici Eli e Herschel. Il nonno confessa di essere Eli, il ragazzo della foto, e di aver nascosto per molti anni un oscuro segreto: su richiesta dei nazisti ha segnalato il suo migliore amico Herschel come ebreo e ne ha provocato la morte. Il silenzio che ha mantenuto per tutta la vita ha aumentato il suo senso di colpa, simboleggiato dalla sua cecità psicosomatica, che scompare non appena la verità viene (come dal titolo dell’opera) “illuminata” al nipote, a Jonathan e al lettore.

L’epilogo del romanzo rafforza quest’ultima idea: tornato in America, Jonathan riceve una lettera da nonno Eli, in cui l’anziano prende commiato da lui, avendo deciso di togliersi la vita. L’anziano intende il suo ultimo gesto come una liberazione e conclude la lettera affermando di essere finalmente felice e in pace.

Quella offerta nel romanzo è una rappresentazione della Shoah sorprendentemente anticonvenzionale. Innanzitutto, le vicende sono ambientate nell’Europa dell’est, dove si consumò una parte poco conosciuta e tematizzata dello sterminio ebraico: l’assassinio degli ebrei non avvenne  solo nei campi di sterminio, ma fu compiuto  dai reparti speciali delle milizie naziste, le Einsatzgruppen, incaricate di “ripulire” le zone orientali occupate dalle comunità ebraiche. Il cosiddetto “Olocausto dimenticato” è stato raramente menzionato nella letteratura ebraico-americana e Everything is illuminated contribuisce ad ampliare le conoscenze del lettore medio proprio su questo aspetto della Shoah. 

Inoltre, nonostante il finale commovente e l’impossibilità da parte di Jonathan di raggiungere il suo obiettivo, il libro non ha un tono drammatico, è anzi ricco di passaggi comici avventurosi, suspence e colpi di scena. Lo stesso linguaggio è sperimentale: l’inglese strampalato, a volte incomprensibile, delle lettere di Alex contrasta con la narrazione della storia del villaggio, a tratti cruda e violenta.

Il libro infrange anche altri tabù tipici della letteratura della Shoah, come quello dell’irrappresentabilità di scene di amore o, addirittura, di sesso, che sono invece molto presenti ed esplicite nella narrazione della vita di nonno Safran.

La verosimiglianza e lo stile memorialistico che contraddistinguono molti romanzi sull’Olocausto vengono totalmente a mancare in quest’opera: alcune vicende sono evidentemente fantastiche e percepite come normali da narratore e personaggi, fatto che conferisce al libro caratteristiche tipiche del “realismo magico”.

Nonostante ciò, Foer porta avanti un discorso sulla memoria e sulla sua importanza, che è la vera chiave di lettura della sua opera. Pur essendo un ebreo non osservante e appartenente alla terza generazione, Jonathan considera l’Olocausto una parte fondamentale della sua identità, tanto da provare ad avvicinarvisi in ogni modo volando lontano da casa e dalla famiglia. In un passaggio fondamentale, il narratore rivendica la propria identità ebraica la connette profondamente all’aspetto della memoria, affermando che il dolore è inestricabilmente connesso all’identità ebraica.

 

“JEWS HAVE SIX SENSES

Touch, taste, sight, smell, hearing … memory. The Jew is pricked by a pin and remembers other pins. It is only by tracing the pinprick back to other pinpricks [...] When a Jew encounters a pin, he asks: What does it remember like?”  (Foer, 2002:198-99)

 

4. I Want You To Know We’re Still Here di Esther Safran Foer

Nel 2020 Esther Safran Foer pubblica il suo libro di memorie I Want You To Know We’re Still Here, ispirata dal lavoro di suo figlio Jonathan e desiderosa di fare i conti a suo modo con il doloroso passato della sua famiglia.

Anche il volume di Esther si basa su un viaggio da lei compiuto nel 2009, sempre in Ucraina, terra di origine dei genitori. A differenza di quello di Jonathan, però, il libro è una raccolta di ricordi dell’autrice, di stralci di racconti di sua madre e di informazioni reperite sia online sia grazie ad archivi specializzati nella ricerca sulla Shoah.

Esther ha un approccio molto più tradizionale alla tematica, motivato anche dalla sua minore distanza temporale, generazionale ed emotiva da quel trauma. Esther, infatti, è nata in Polonia e ha trascorso i primi anni della sua vita in un campo profughi. Sua madre Ethel, una donna taciturna e profondamente addolorata, le ha nascosto fino all’età adulta i tragici segreti che ha custodito per anni. Ethel è stata l’unica sopravvissuta della famiglia al massacro nazista: giovanissima, era fuggita a piedi verso l’Asia e si era messa in salvo, mentre le sorelle e la madre erano rimaste al villaggio, dove poco dopo sarebbero state uccise.

I racconti di Jonathan sull’occupazione di Trachimbrod riflettono in parte le memorie della madre di Esther. La corrispondenza più evidente si trova però negli eventi biograficche riguardano il nonno materno, uno dei personaggi centrali nel romanzo di Jonathan. Louis Safran, questo il vero nome del padre di Esther, si era salvato dalla morte grazie al coraggio di un uomo e della sua famiglia, che lo avevano nascosto nel loro fienile. Di loro, Esther possiede una fotografia, dietro cui c’è una scritta sbiadita e poco chiara, che lei interpreta come “Augustine”. Proprio da questa fotografia deriva l’idea della misteriosa Augustine che salva nonno Safran nel romanzo di Jonathan. In realtà Esther chiarisce al lettore di non sapere esattamente cosa significhi quella scritta, né che cosa indichi, dal momento che suo padre, proprio come il personaggio di Everything is illuminated, si è tolto la vita quando lei aveva solo otto anni.

Nemmeno la madre Ethel vuole parlare alla figlia del marito e degli anni precedenti all’emigrazione negli Stati Uniti, ritenendo che nessuno debba sapere la verità. Con l’aiuto del figlio maggiore Franklin, Esther prova a intervistare la madre quando è già molto anziana e viene a conoscenza di una verità molto difficile da accettare: prima di conoscere sua madre, suo padre era sposato con una donna di nome Tsipora, da cui ebbe una figlia, entrambe assassinate dai nazisti. La notizia sconvolge Esther, che non vuole accettare di far scendere l’oblio sulle vittime e quindi decide di compiere lo stesso viaggio di suo figlio. 

Visitando quello che rimane, constatando che niente è più come allora e riflettendo di fronte alle lapidi che commemorano le stragi, Esther sente che sta finalmente facendo i conti con il passato, lo stesso che le ha reso tanto difficile vivere il presente. Intervistando un’anziana donna viene a sapere anche il nome della sua sorellastra, Asya, e può finalmente renderle omaggio recitando il khaddish per lei e sua madre.

La testimonianza di Esther e la sua ricerca di informazioni non cancellano il dolore per i traumi vissuti dalla famiglia ma le danno finalmente la forza di andare avanti, serbando sempre la memoria di chi è scomparso. È proprio questo lo scopo del libro e del percorso che lo ha ispirato: avere la consapevolezza di non aver dimenticato, come sottolinea Esther nel titolo. 

Per gli scrittori ebraico-americani il trauma della Shoah e la sua memoria sono tratti identitari che determinano non solo l’origine ma anche il futuro. Nella religione ebraica, spiega Esther, è tradizione chiamare i neonati come i familiari defunti, un atto di amore che assicura una sopravvivenza a chi non c’è più e allo stesso tempo stringe tra il bambino e chi lo ha preceduto un legame. Per questo, Esther ha scelto di dare ai suoi tre figli un secondo nome, quello di suo padre, perché egli viva in loro e possa avere una “discendenza numerosa come le stelle nel cielo” (E. Safran Foer, 2020:271). 

L’importanza della trasmissione dei nomi viene chiarita dal discorso di Josh, il figlio minore di Esther, in occasione della nascita di suo figlio. Tutta la famiglia Foer, infatti, ha trasmesso ai propri discendenti i nomi dei familiari defunti: l’ultimo caso quello della nipotina Bea Asya, che porta il nome della sorellastra di Esther.

Con questa riflessione Esther sceglie di chiudere la sua opera: la nascita è una prosecuzione della memoria che, come sottolinea spesso, è produttiva, può continuare a essere trasmessa, a mutare forma e, soprattutto, a estendersi verso il futuro con tutti i mezzi possibili. 

5. Conclusioni

Le opere di Esther e Jonathan Safran Foer, evidentemente tanto diverse, perseguono in realtà lo stesso obiettivo: trasmettere l’eredità del trauma al lettore e fare così in modo che esso non cada nell’oblio.

Il lavoro di Esther non è in alcun modo un tentativo di sminuire il romanzo di Jonathan e raccontare la verità storica, ma è una necessità di confrontarsi con la memoria a proprio modo, come il figlio anni prima aveva già provato a fare. Non esiste, infatti, secondo Esther un modo unico e corretto di approcciarsi al ricordo, ma le possibilità sono differenti e infinite:

 

“La memoria è al contempo tangibile e mutevole. I ricordi non sono statici; cambiano con il tempo, spesso fino al punto di conservare una vaga somiglianza con ciò che è accaduto”(E. Safran Foer, 2020:25)

 

L’importante è trovare il coraggio di sapere, di ascoltare e di raccontare anche ciò che sembra irrappresentabile, con l’obiettivo di farlo sopravvivere, di tenerlo vivo nelle giovani generazioni.

La quantità di storie legate all’Olocausto che tutt’oggi vengono narrate nella letteratura, nel cinema e nell’arte non basta: vale sempre la pena raccontare ciò che è stato taciuto, non riconosciuto o temporaneamente dimenticato, nelle modalità innumerevoli che sono possibili. 

L’impressionante varietà di rappresentazioni artistiche e culturali sulla Shoah a cui oggi si può accedere rafforza ogni giorno il nostro legame emotivo con una delle più grandi tragedie della storia umana e ci esorta a riflettere sul fatto che solo la memoria permette di avvicinarci al passato e renderlo ancora presente, attuale e vivo, proiettandoci verso un futuro che sta a noi scrivere.

 

“La storia è la fine di qualcosa, la memoria, l’inizio.” (E. Safran Foer, 2020: 12)

 

6Bibliografia / Sitografia 

Hirsch, Marianne, The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture After the Holocaust, New York, Columbia University Press, 2012

Ionescu Ambrosie, Stefan, Tattered Photograph: Challenges to Postmemory in Jonathan Safran Foer’s Everything is Illuminated in: [Inter]sections, Bucarest, 2018, pp. 114-118

Krijnen, Joost, Holocaust Impiety in Jewish American Literature, Brill, 2016

Safran Foer, Esther, Voglio sappiate che ci siamo ancora, Guanda, Milano, 2020

Safran Foer, Jonathan, Everything is illuminated, Penguin, London, 2005

 

“Dopo Auschwitz”: quale memoria è ancora possibile?, da pandorarivista.it (data di ultima consultazione: 13/01/2022)

I Want You to Know We’re Still Here: A Post-Holo­caust Memoirda jewishbookcouncil.org (data di ultima consultazione: 13/01/2022)

 

Immagini

Foto 1 da dreamstime.com (data di ultima consultazione 14/01/2022)

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