Oltre i classici: Miti e cosmogonie nelle culture dei Nativi americani

Rassegna: CLASSICI ANTICHI E NUOVI: I SAPERI DELL’ALMA MATER

 

20 novembre | Complesso e Teatro del Baraccano

In occasione della Giornata mondiale dei diritti dei bambini

Evento a cura dei Dipartimenti: LILEC, DAR, DISI

Presentazione

Questo progetto trae origine dal dialogo con tradizioni che nascono orali e diventano letterate non per scelta, ma per necessità, ovvero come conseguenza del processo di colonizzazione: le tradizioni indigene.

Si tratta di tradizioni a lungo negate oggi al centro di una vera e propria risorgenza indigena, termine coniato da autor*, artist* e attivist* per indicare il rifiorire consapevole di discorsi culturali che, attraverso un dialogo costruttivo e non nostalgico col passato, propongono immaginari tesi a ripensare il modo stesso di considerarsi comunità.

L’evento mette in scena una serie di passaggi laboratoriali che coinvolgono studiosi dell’Alma Mater e la società civile.

L’attenzione rivolta verso i classici e le tradizioni Native nel teatro mette in luce come i miti e le favole forniscano simboli capaci di far progredire lo spirito umano, fungendo da contromisure a quelle forze che vorrebbero arrestarne lo sviluppo. La messa in scena teatrale intende aprire una riflessione sulle origini orali dei miti, ricordando che essi non sono fissi, bensì fluidi, rispondono all’ hic et nunc del narratore, dell’ascoltatore e del luogo in cui vengono rievocati. Il mito non è soltanto un testo, ma un atto linguistico, dotato di un valore pragmatico: situato nel passato, esso deve parlare al presente e al futuro.

Programma

Ore 16.00 – 18.00: Sala "Prof.Marco Biagi" - Quartiere Santo StefanoComplesso del Baraccano, via S.Stefano 119, 40125 Bologna;

“Oltre i classici: miti e cosmogonie nelle culture dei nativi americani”. Tavola rotonda. Partecipano: Mattia Arioli, Martina Basciani, Nicola Bonazzi, Roberto Farné, Federico Gabriele Ferretti, Pietro Floridia, Sara Pour, Pierluigi Musarò. Coordina: Elena Lamberti.

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Ore 19.00: Teatro del Baraccano, Via del Baraccano 2, Bologna

“La favola di Th’owxiya. Storia di topi, lune, corvi e bambini rubati”. (circa un’ora, senza intervallo)

Regia: Pietro Floridia, Compagnia dei Cantieri Meticci.   Scenografie, pupazzi, videodisegni live: Sara Pour

 

 

Approfondimento

Il progetto ripensa i “classici” a partire da tradizioni indigene, come campi sonori porosi capaci di risuonare in contesti altri e di rinnovarsi nel dialogo con narrazioni non egemoni. Al centro del percorso laboratoriale e teatrale qui proposto, vi è la lettura condivisa e partecipata di Th’owxiya: The Hungry Feast Dish di Joseph A. Dandurand, un testo teatrale ispirato alla tradizione orale della Kwantlen First Nation che rielabora un mito cosmogonico indigeno con protagonista uno spirito ambivalente – Th’owxiya – capace di nutrire e distruggere, custodire e divorare.

A partire da questo archetipo potente e dalla sua drammaturgia corale, con la collaborazione di Cantieri Meticci è stato avviato un percorso di arte partecipata che coinvolge bambini, adolescenti, studios*, student*, artist* e adulti provenienti da diverse tradizioni culturali, invitandoli a dialogare con il mito e con le proprie genealogie orali. Attraverso laboratori di narrazione, movimento, illustrazione e costruzione scenica, il progetto vuole generare testi, oggetti, corpi e gesti che mettono in relazione il mito originario con i vissuti e le immaginazioni contemporanee.

Il progetto si interroga così su cosa significhi, oggi, riscrivere i classici, soprattutto quando il mito non è solo una favola da interpretare simbolicamente, ma un atto linguistico e performativo, come ci insegnano tanto gli studiosi occidentali che le cosmogonie native. È un mito che parla al presente attraverso una commistione di linguaggi (la favola, le cosmogonie, le mitopoiesi) e si riscrive nel corpo di chi lo racconta. Nei laboratori, le protagoniste e i protagonisti non sono semplici fruitori, ma autori collettivi, tessitori di alleanze tra memoria e futuro.

L’incontro del 20 novembre è un primo momento di restituzione di un progetto che continuerà anche nei mesi successivi. In questa prima fase, in scena andranno i bambini: è prima di tutto a loro, portatori di futuro, che parlano le cosmogonie indigene, concepite per tramandare storie della creazione, di volta in volta adattandole alle nuove sfide poste dal mondo che continua a cambiare. Non è un caso che la metamorfosi sia al centro del racconto: non è però legata all’azione divina tesa a compensare, punire, ingannare o proteggere gli umani; al contrario, è qui un fenomeno olistico che mette in relazione ogni forma vivente in un processo di contaminazione empatica che porta ad accogliere e ad accogliersi nel cambiamento. È un grande insegnamento, che induce tanto il singolo che la comunità ad interrogarsi sul proprio ruolo, sulle proprie responsabilità e sul valore di una cultura che cresce e si salva solo se coltiva l’idea di reciprocità. Antonimo di estrattivismo, concetto che nel linguaggio indigeno oggi risorgente traduce l’idea di colonizzazione (una cultura dominante che prende – estrae – senza restituire, lasciando un vuoto nel tempo e nello spazio), reciprocità è il termine che guida questa “favola mitica” che, con una semantica alterNativa solo all’apparenza semplice, vuole ricordarci il senso di essere per davvero una comunità.

Il progetto è un’iniziativa del cantiere “Terra, corpo, cura: percorsi e pratiche di semantiche alterNative”, in collaborazione con il progetto sulle Semantiche AlterNative (Bando Strutture 2024), realizzata nell’ambito del progetto “TrasformAzioni: Osservatorio delle Lingue, Letterature e Culture in Transito del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne dell’Università di Bologna.

Scritto nel 2019, sebbene concepito oltre venti anni prima, Th’owxiya: The Hungry Feast Dish è un’opera teatrale di Joseph A. Dandurand, autore della  Kwantlen First Nation, (British Columbia, Canada). La trama originale racconta la storia di Th’owxiya,* una sorta di enorme orchessa, già spirito della foresta ora spirito del mondo, dai gusti un po’ strani: le piace mangiare di tutto, anche le persone e, soprattutto, i bambini. È una orca cannibale, che può anche prestare cibo poiché nella sua pancia conserva pietanze provenienti da tutto il mondo. Occorre però saper comunicare con lei, sapere come prenderlo a prestito. Kw’at’el, il topo, non ne è capace e irrita Th’owxiya facendosi sorprendere mentre le ruba un pezzetto di formaggio dalla bocca. Arrabbiata, l’orca minaccia di vendicarsi mangiando tutta la famiglia del povero Kw’at’el, che negozia una via d’uscita: la sua famiglia sarà salva se porterà a Th’owxiya due bambini prima che la seconda luna si alzi sopra la grande montagna. Inizia così il viaggio del topo alla ricerca dei bambini da offrire a Th’owxiya ed inizia anche il viaggio degli spettatori nella cosmogonia indigena: alberi che si metamorfizzano in bambini, un corvo che li proteggerà e che riuscirà a fermare il tempo, la montagna che offre un arcobaleno per Th’owxiya e altro ancora, fino al canto finale, momento che sancisce una armonia ritrovata, una comunità appagata e di nuovo unita.

Attraverso i laboratori curati dalla compagnia Cantieri Meticci, la storia di Th’owxiya è stata riletta alla luce della triste esperienza delle scuole residenziali, raccontata ai bambini protagonisti a Bologna per riflettere con loro sul potenziale, a sua volta metamorfico, del racconto orale. Nella rilettura collettiva qui proposta, il racconto si muove tra un prima e un dopo, tra un’orca spaventosa ma giusta e un’orca che, invece, fagocita senza restituire: è una metamorfosi negativa, che porta lo spirito di Th’owxiya da una cultura di reciprocità (quella indigena delle origini del mito) all’estrattivismo coloniale (una cultura dominante che tutto ingloba e poco o nulla restituisce). I bambini rubati alle famiglie e portati nelle scuole residenziali gestite spesso da enti religiosi sono stati costretti a dimenticare la lingua dei loro avi, ad imparare quella dei colonizzatori, a mangiare e a vestire in modo diverso. In breve: a questi bambini sono state tolte identità e dignità in un processo attraverso un vero e proprio sistema di assimilazione terribile e lungo (l’ultima scuola residenziale è stata chiusa in Canada a metà degli anni Novanta del Novecento). Il trauma è ancora tangibile, anche se il recupero di racconti, miti e archetipi della tradizione sta pian piano contribuendo alla risorgenza indigena, ovvero al recupero di una ‘intelligenza alterNativa’ che si fonda su tre concetti chiave: terra, corpo, cura, tre parole che, insieme, danno senso all’idea di reciprocità. Il racconto della Compagnia Cantieri Meticci trasforma il testo teatrale iniziale – a sua volta crogiolo di tanti altri racconti, miti e cosmogonie – in una storia nuova, diversa, capace di portare anche a Bologna un’esperienza di rigenerazione sociale capace di contaminare e dare valore agente agli universali che pure si ritrovano in tradizioni diverse per luogo e per tempi.

 

* “Th’owxiya è uno spirito spaventoso. Qualcuno dice che sia una gigante. Ha grandi poteri. Gli anziani dicono ai bambini che se non danno retta e non si comportano bene, Th’owxiya viene a prenderseli, li porta nella foresta e se li mangia. Però, sebbene spaventi, Th’owxiya ha anche il potere di portare fortuna a chi la vede. Poiché non ci vede molto bene, è facile schivarla. Si dice anche che sia piuttosto assonnata e intorpidita. Per il popolo Kwantlen, Th’owxiya è un essere mitologico che serve per insegnare ai bambini a dare retta e a non allontanarsi da soli, pena il rischio di essere da lei catturati.” (“Le origini della storia”, in Th’owxiya – The Hungry Feast Dish, di Joseph A. Dandurand, Playwright Canada Press, 2019).