In quanto funzione essenziali della vita, il cibo e il nutrirsi sono da sempre legati ad aspetti fondativi dell’identità di una comunità, come bene ci indicano l’antropologia, la storia materiale, la storia dell’immaginario e della letteratura, il folklore. Si pensi del resto all’attenzione che fin dalle più remote origini le religioni hanno riservato al cibo e alla sua modalità d’assunzione, costruendo sistemi peculiari di norme e divieti, più o meno vincolanti, che hanno spesso assunto importanti significati identitari. Ciò vale per le società primitive studiate dagli etnologi, ma anche per le grandi religioni storiche del Mediterraneo: si pensi al Ramadam dei musulmani (durante il quale è vietata l’assunzione di cibi e bevande dall’alba al tramonto); all’indicazione per i cristiani di astenersi dalla carne il venerdì; ai tanti divieti e regole che normano nel mondo ebraico l’assunzione del cibo.
Cibo e nutrimento non potevano dunque non fornire, lungo tutto il corso della cultura occidentale, uno straordinario serbatoio di metafore di cui letteratura, filosofia e cultura religiosa si sono impadroniti.
Si pensi ad esempio alla metafora della lettura come banchetto, in cui le parole e il libro stesso che le contiene diventano cibo e nutrimento spirituale. Una metafora che il Medioevo europeo eredita da uno dei suoi testi fondativi, l’Apocalisse, capostipite delle tante opere profetiche e millenaristiche che hanno costellato la cultura dei secoli di mezzo. Proprio al centro dell’Apocalisse, il senso ultimo della ‘rivelazione’ (esattamente questo significa il termine greco ‘apocalisse’: rendere visibile ciò che è nascosto) è espresso attraverso l’atto del mangiare il libro in cui sono scritte «le cose che devono avvenire», che un angelo reca a Giovanni, perché trascriva la ‘rivelazione’ e la diffonda tra gli uomini. Si riportano i versetti 1-2 e 8-10 del 10° capitolo dell’Apocalisse, in traduzione italiana (e, a seguire, secondo il testo latino della Vulgata):
Poi vidi un altro angelo forte, che discendeva dal cielo avvolto in una nube; l’arcobaleno era sul suo capo, e il volto era come il sole e i suoi piedi erano come colonne di fuoco. E aveva nella mano un libretto aperto, e pose il suo piede destro sopra il mare e quello sinistro sopra la terra.
[…]
Poi udii la voce del cielo che di nuovo mi parlava, dicendomi: ‘Va’, e prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo che sta ritto sul mare e sulla terra’. Allora andai dall’angelo, dicendogli di darmi il libro. E lui mi disse: ‘Prendi il libro, e mangialo, esso renderà amaro il tuo ventre, ma nella tua bocca sarà dolce come miele’. E presi il libro dalla mano dell’angelo, e lo divorai.
[1] Et vidi alium angelum fortem descendentem de caelo amictum nube, et iris in capite eius, et facies eius erat ut sol, et pedes eius tamquam columnae ignis : [2] et habebat in manu sua libellum apertum : et posuit pedem suum dextrum super mare, sinistrum autem super terram.
Et audivi vocem de caelo iterum loquentem mecum, et dicentem : «Vade, et accipe librum apertum de manu angeli stantis super mare, et super terram». [9] Et abii ad angelum, dicens ei, ut daret mihi librum. Et dixit mihi : «Accipe librum, et devora illum : et faciet amaricari ventrem tuum, sed in ore tuo erit dulce tamquam mel». [10] Et accepi librum de manu angeli, et devoravi illum.
Divorare il libro rappresenta qui con grande forza visiva la forma più compiuta di appropriazione del suo contenuto. L’immagine comunissima della lettura come nutrimento si lega – simmetricamente – a quella dello scrivere e pubblicare come allestimento di un banchetto. Un’immagine che è contenuta nel titolo stesso del principale trattato di Dante, il Convivio, opera incompiuta, in cui la trattazione dei vari argomenti filosofici affrontati è presentata nel primo capitolo del testo come un cibo imbandito sulla tavola, reso disponibile (‘digeribile’) a quanti non sono intellettuali di professione, ma sono ‘affamati’ di cultura.
La metafora è ripresa da Niccolò Machiavelli, nella famosa lettera all’amico Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, ma in un contesto (non senza una venatura polemica) compiutamente laico, in cui al sapere filosofico-teologico delle sacre scritture si sostituisce il sapere secolare dell’arte della politica, desunto dagli antichi storici romani. Lo scrittore, dopo aver descritto all’amico la sua giornata vuota e inutile di disoccupato (il rientro a Firenze dei Medici, nel 1512, aveva comportato il suo licenziamento dall’incarico di funzionario statale), parla delle serate trascorse leggendo soprattutto le opere degli antichi storici, da cui egli trae quelle competenze di scienza della politica che sono il suo vero interesse, il solo ‘cibo’ da cui egli trae nutrimento:
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
Nel percorso di letture che qui proponiamo, ci soffermeremo su un aspetto particolare (tra i mille possibili) del rapporto tra Letteratura e cibo: quello per cui la rappresentazione dell’abbuffata, del mangiatore smodato e incontrollato, assume i caratteri della vera e propria parodia dell’eroico.
Il contrasto tra le due dimensioni, l’eroico da una parte, e l’espletamento delle funzioni corporali dall’altra, non potrebbe del resto essere più netto: secondo la rigorosa differenziazione degli stili, che caratterizza il mondo antico e che l’Europa medievale e moderna eredita dal modello dei classici greci e latini, la dimensione eroica dell’epica e della tragedia non sopporta contaminazioni con la sfera ‘bassa’ del corpo e delle sue funzioni, così come non accetta contaminazioni con la dimensione comica, riservata alla commedia (dove infatti molto di parla di cibo e di sesso).
È significativo il fatto che la cultura popolare medievale (come ci insegnano gli studi sul Folklore) non solo abbia riservato ampio spazio alla rappresentazione del corpo e delle sue funzioni, ma abbia apertamente connesso il Carnevale (il periodo in cui le restrizioni alimentari e sessuali si allentano, nella gioiosa affermazione del corpo e della sua sfera) con il ‘rovesciamento’ temporaneo della rigida struttura sociale vigente: durante il Carnevale il re può infatti essere deriso e i simboli stessi del potere e dell’ordine costituito (politico, religioso o sociale) possono diventare oggetto di parodia.
1) All’origine della parodia: l’eroico ‘figlio di Eurimedonte’ di Ipponatte
Tra i frammenti che ci sono pervenuti dell’antico poeta greco, di Efeso, Ipponatte (VI secolo a. C.), ce n’è uno di quattro versi che bene coniuga la parodia dell’eroico e la rappresentazione di una mangiata smodata. In esso il poeta invoca la Musa (secondo la formula comune dei poemi eroici) per celebrare le imprese di un non altrimenti noto ‘figlio di Eurimedonte’, probabilmente un avversario politico, che viene in questo modo deriso dal poeta.
Il carattere parodico del frammento è dato appunto dal contrasto tra la forma adottata (si imita apertamente lo stile omerico) e il contenuto della poesia, che non mette in scena le imprese eroiche dei poemi omerici, ma le azioni di un ghiottone: ad Achille, coraggioso e divino sterminatore di nemici, si sostituisce un ben diverso eroe, capace tutt’al più di sterminare polli e quaglie.
L’efficacia della parodia è appunto nel contrasto tra lo stile per eccellenza della poesia eroica, quello omerico, espressione della cultura militare aristocratica dei secoli della Grecia arcaica, e la dimensione ‘bassa’ e quotidiana delle funzioni corporali, collocata all’opposto di ogni idealizzazione eroica.
Link 1 – Ipponatte (vedi allegato)
2) La parodia del cavaliere: Luigi Pulci e il Morgante
Il Morgante (1482) - il romanzo cavalleresco in ottave del poeta fiorentino Luigi Pulci (1432-1484), attivo presso la corte dei Medici - riprende la tipica materia narrativa degli anonimi ‘cantari’ tre-quattrocenteschi, in cui Orlando e i paladini di Carlo Magno (già protagonisti della severa poesia epico-militare delle ‘Chansons de geste’ – come la famosa Chanson de Roland) diventano protagonisti di avventure mirabolanti e imprevedibili, in cui la magia e l’amore acquistano un ruolo fondamentale (come sarà nei due capolavori di Boiardo e di Ariosto, rispettivamente, l’Orlando innamorato e l’Orlando furioso). Nel Morgante la materia cavalleresca perde ogni connotato eroico e diventa oggetto di una parodia dissacrante e briosa, che trasforma i paladini in eroi iperbolici ed eccessivi, i cui comportamenti spesso sconfinano nel ridicolo.
In questo contesto, il poeta (che senza essere un dotto umanista non fu però estraneo alla raffinata cultura fiorentina quattrocentesca) adopera con sapienza e reinventa le forme della cultura popolare: in ciò assume un ruolo importante il cibo e il mangiare. È rimasta celebre la figura di Margutte (uno dei personaggi più riusciti dell’opera), un gigante cresciuto solo a metà, protagonista (nei canti XVIII e XIX) assieme a Morgante (il gigante che dà il nome al poema) di mirabolanti avventure culinarie e imprese mangerecce. È Margutte, del resto, che in due citatissime ottave, espone un suo personalissimo ‘credo’ (in una evidente parodia del credo cristiano e del dogma della Trinità, che ha contribuito a costruire la fama di eretico che alonò lo scrittore), in cui la fede di Margutte è tutta nel cibo e nel buon vino, in una gioiosa affermazione del piacere del corpo. Riportiamo l’ottava 115 e parte dell’ottava 116 del canto XVIII:
Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch'a l'azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia [birra], e quando io n'ho, nel mosto,
e molto più nell'aspro che il mangurro [vino dolce, in contrapposizione ad ‘aspro’];
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;
e credo nella torta e nel tortello:
l'uno è la madre e l'altro è il suo figliuolo;
e 'l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
L’allusione esplicita ad alcuni dogmi del cristianesimo, come l’accenno alla Vergine (la «madre») e a Cristo (il «figliuolo»), alla Trinità («posson esser tre, due ed un solo») e alla più importante delle preghiere (il «paternostro») rientra nel gusto, abbastanza diffuso nel ‘400, della parodia della preghiera, che in genere ricorreva appunto all’impiego di termini culinari e legati al cibo, assunti come buffoneschi oggetti di fede. Sono forme di parodia che richiamano il Carnevale, che tradizionalmente associa il rovesciamento temporaneo dell’ordine vigente e dei divieti sociali (e la carica comica che investe i simboli del potere e i loro stessi detentori) con il sogno per eccellenza, tutto corporeo e concretissimo, che da sempre caratterizza i ceti popolari: quello del mangiare a crepapelle, una realtà che si dava rarissimamente, nella condizione di fame endemica di cui in genere soffrivano i ceti popolari.
Il richiamo alla dimensione del cibo e all’abbuffata è uno dei tratti che bene indicano il peculiare rapporto di Luigi Pulci con la cultura del popolo. Pulci non è affatto un poeta ‘popolare’ (come aveva voluto la critica romantica), ma ha utilizzato forme e lingua della cultura popolare fiorentina per confezionare una poesia destinata ad un ambiente culturalmente raffinato come la corte medicea, presso la quale i ‘cantari’ di Pulci (così egli amava chiamare i singoli canti che compongono il suo poema-romanzo) venivano letti mano a mano che venivano scritti.
È in alcune rappresentazioni degli eroici paladini mentre mangiano che il carattere diseroicizzante del cibo e della sua assunzione smodata appare evidente. Come avviene in tanti momenti del Morgante. Scegliamo due passi: il primo, tratto dal 2° cantare ha per protagonista Orlando e Morgante; il secondo, desunto dal 3° cantare, ha per protagonisti Rinaldo, Ulivieri e Dudone che, mossisi alla ricerca di Orlando (la cui prolungata assenza sta impensierendo Carlo Magno), arrivano in un convento situato in Oriente, nelle più estreme contrade della cristianità.
Link_2_Pulci (vedi allegato)
Soprattutto nel secondo brano di Pulci è evidente il rovesciamento comico e carnevalesco cui sono sottoposti gli eroici cavalieri di Carlo Magno. Presentandosi come cavalieri erranti, vengono scambiati per ladri e morti di fame. Ed è nel momento del mangiare che i tre perdono ogni residua dignità: l’infame brodaglia che viene loro offerta (un’accozzaglia di avanzi, carcasse di animali e legumi) li vede trasformarsi in animali: Dodone e Ulivieri sono come uccelli che ‘beccano’ (ott. 44, vv. 5-6); l’apparire del paiolo con la brodaglia per i tre cavalieri è associato all’arrivo del pastone del «porcello» (ott. 43, v. 6) o alla gioia che l’apparire del cibo genera nei cani (ott. 43, v. 7). Rispondendo alle attese di Brunoro - che si aspetta di vedere i tre scuffiare e comportarsi di fronte al cibo come un cane che ‘rode l’osso’ o come i ‘porci che pescano nel truogolo’ (ott. 42) Rinaldo si getta su quel cibo rivoltante mangiando come un «arlotto», termine che designava originariamente il pezzente o il mendicante, e che dal ‘400 designa anche il mangione: in un nesso facilmente spiegabile, in cui il cibo viene aggredito con la voracità animalesca di chi ha trascorso lunghi digiuni.
L’abbuffarsi dei paladini di Pulci ha un’evidenze funzione parodica e buffonesca: il loro comportamento contravviene quel decoro che da un individuo del suo ceto sarebbe lecito aspettarsi. A far scattare il meccanismo ridicolo è infatti l’evidente contravvenzione delle norme del banchetto aristocratico, che una ricca letteratura sulle buone maniere a tavola aveva definito a partire dal XII secolo (le Cinquanta cortesie a tavola [De quinquaginta curialitatibus ad mensam] del milanese Bonvesin de la Riva, uno dei più antichi autori della letteratura italiana, non è che un esempio tra i tanti di manuali medievali di buone maniere), ma che traeva le sue origini lontane nel principio già fissato dalla Regula di San Benedetto (VI secolo), che in uno specifico capitolo (il 29°, De mensura ciborum) stabiliva le norme cui doveva attenersi il monaco nell’assunzione del cibo: un insieme di indicazioni rette dal principio della sobrietà e dell’autocontrollo, in cui veniva stigmatizzata ogni forma di intemperanza e di ingordigia («Nulla infatti – si legge in un passo del capitolo – è così sconveniente ad ogni cristiano quanto l’eccesso di cibo»).
3) Miti folklorici: Cuccagna e Bengodi
Il paese di Bengodi (o il paese di Cuccagna) è un mito folklorico diffuso in tutta l’Europa medievale e moderna; una sorta di articolazione popolare e plebea del mito letterario greco-romano dell’età di Saturno, quando la natura, generosa e incontaminata, nutriva gli uomini, non costretti a lavorare la terra e a cercare con arti e mestieri di che vivere. In risposta alla vita grama dei ceti popolari, vissuta tra lavori durissimi e malpagati, in uno stato costante di fame e di incertezza per carestie e malattie, Bengodi/Cuccagna rappresenta il sogno di una condizione liberata dai bisogni primari; un mondo in cui il cibo è a portata di mano, in cui tutti possono mangiare a sazietà senza dovere sottostare alla condanna del lavoro e della fatica. Estraneo a ogni vocazione rivoluzionaria o di riscatto sociale, estraneo a ogni consapevole contenuto etico, Bengodi rappresenta il puro e semplice vagheggiamento dell’assenza di privazioni: il sogno immediato e ’animale’ di un prolungamento all’infinito della festa, un Carnevale che copre tutto l’anno, nella gioia dell’abbondanza e dello spreco.
a) Boccaccio e il paese di Bengodi
Il recupero a fini artistici di aspetti caratteristici della cultura popolare (come il ruolo del cibo e dell’abbuffata), non è estranea (come si è visto con l’esempio di Pulci) alla tradizione fiorentina.
Un esempio notevole è offerto da Boccaccio, che in una famosa novella del Decameron (la terza della giornata VIII), quella di Calandrino e l’elitropia, riprende un antichissimo motivo del folklore europeo, che sarà riproposto a lungo da scrittori e artisti: quello del paese di Bengodi.
Link 3_A –Boccaccio: Calandrino e Bengodi (vedi allegato)
b) P. Bruegel e il paese di Cuccagna
Il sogno popolare del paese dell’abbondanza e del cibo gratuito, che Boccaccio denomina Bengodi, è spesso chiamato il Paese della Cuccagna (il termine forse deriva dal tedesco Kuchen, che indica genericamente un dolce). Termine diffusissimo in tutti i paesi d’Europa (ed entrato nell’uso comune delle sagre paesane, dove si allestiva l’Albero della cuccagna: un palo unto e scivoloso in cima al quale erano appesi cibi, che chi era abile e agile poteva fare suoi), ricorre già in una storiella comica francese del XIII, di autore ignoto, il Fabliau de Coquigne.
Una delle più celebri rappresentazioni visive del mito è del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio (1525 ca. - 1569) che nel 1567 rappresentò il Paese di Cuccagna in un quadro ora conservato nella Pinacoteca di Monaco di baviera.
Link_3_B_Bruegel (vedi allegato)
Tre uomini sono distesi a dormire ai piedi di una tavola costruita attorno a un tronco d’albero, dopo una lauta mangiata. Tutto il paesaggio indica la facile abbondanza del cibo: dal lago sullo sfondo che sembra essere di latte, alle grottesche creature che si aggirano nel quadro, quasi a raffigurare un delirante sogno in cui tutto è mangiabile e liberamente disponibile all’appetito. Un uovo sodo, già svuotato del suo saporito contenuto, munito di zampette, cammina sul prato; un maiale vaga tra i cespugli, recando con sé il coltello che dovrà ucciderlo e trasformarlo in insaccati. La piccola abitazione, in cui un uomo trova riparo, ha il tetto fatto di torte.
c) Pinocchio e Lucignolo nel paese dei balocchi.
Bengodi e Cuccagna diventano nella cultura popolare europea espressioni quasi proverbiali. Bene lo sa Manzoni, quando racconta di Renzo che giunge per la prima volta a Milano (cap. XI), e trova per terra della farina. L’ingenuo montanaro sa che i milanesi, in rivolta, stanno assaltando i forni, convinti che i fornai siano i colpevoli dell’insopportabile rincaro del pane (dovuto invece alla scarsità della farina, provocata dalla causa naturale della carestia, e dalla causa umana di una guerra improvvida). Stupore e incredulità di Renzo si oggettivizzano proprio nel richiamo all’immagine popolare del paese di Cuccagna:
Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d'un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a' suoi occhi; perché, diamine! non era luogo da pani quello. "Vediamo un po' che affare è questo", disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. – È pane davvero! – disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: – così lo seminano in questo paese? in quest'anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo?
Ma una vera e propria rivisitazione del topos del paese di Bengodi/Cuccagna propone Collodi, in Pinocchio: il libro che reinventa in modo geniale topoi e modelli della narrativa fiabesca e della cultura folklorica. Bengodi è in Pinocchio il Paese dei balocchi, che il burattino e l’amico Lucignolo raggiungono nottetempo, con una carrozza tirata da asini e guidata da un lucido e untuoso adescatore di bambini (Collodi lo chiama l’Omino di burro), che portati nel gioioso paese – dove non si studia e non si lavora, si gioca e si mangiano dolciumi tutto il giorno – saranno presto trasformati in somari, pronti per essere venduti al mercato. L’antico sogno di Bengodi, da mito compensatorio e ‘carnevalesco’ di un popolo affamato e sofferente, che si abbandona per un attimo al vagheggiamento impossibile della liberazione da una vita ingrata e penosa, viene riletto in chiave moralistica: non esiste Bengodi, ma solo la possibilità di un riscatto dignitoso attraverso il lavoro e la conoscenza.
Riportiamo, dal cap. 30° di Pinocchio, il passo in cui Lucignolo descrive all’amico burattino i piaceri e la bellezza del paese:
Link_3_C_Collodi (vedi allegato)
4) Dissacrazione e abbuffata: il ghiottone di Parini (da Il mezzogiorno)
Parlare di parodia e di rovesciamento dell’eroico chiama in causa, per via indiretta, uno dei maggiori capolavori della letteratura italiana del Settecento, Il giorno di Giuseppe Parini (1729-1799).
Nate in pieno clima illuministico, le prime due parti del Giorno, Il mattino e Il Mezzogiorno, furono stampate a Milano rispettivamente nel 1763 e nel 1765 – proprio negli anni in cui a Milano – capitale, assieme a Napoli, dell’Illuminismo italiano – usciva la rivista “Il caffè” dei Fratelli Pietro e Alessandro Verri e di Cesare Beccaria. Le altre parti del Giorno (Il vespro e La notte), rimaste incompiute, furono pubblicate solo dopo la morte dell’autore.
Con Il giorno Parini intendeva denunciare l’inutilità e l’insulsaggine dell’aristocrazia del suo tempo, richiamandola ai suoi doveri di classe dirigente, che era quello di essere un modello di civiltà e di cultura per l’intera società. Parini, non certo un rivoluzionario, non riteneva illegittimo il ruolo dell’aristocrazia, ma era in linea con le posizioni del cosiddetto ‘dispotismo illuminato’, che attribuiva ai sovrani e ai nobili il compito di favorire lo sviluppo civile e materiale della società per migliorare le condizioni di vita del popolo.
Per denunciare l’ignavia e i privilegi immeritati dell’aristocrazia Parini si serve delle armi della parodia e dell’ironia:
- Una parodia è Il giorno stesso, che si presenta come un serissimo poemetto didascalico, cioè un’opera in poesia (endecasillabi sciolti, cioè ‘non in rima’) in cui si insegna qualche cosa. In questo caso la materia insegnata sono le buone maniere e i comportamenti alla moda che un «precettore di amabil rito» (cioè un maestro di bon ton; è lui che nel poemetto parla) impartisce al suo allievo, un anonimo «giovin signore», rampollo di una nobile famiglia milanese. La parodia è appunto nel contrasto tra la serietà della forma e l’inutile marginalità della materia: si parla con toni seri di cose effimere e inutili (come muoversi; quali espressioni adottare; come corteggiare una dama), con un evidente effetto ridicolizzante.
- L’ironia nei confronti degli aristocratici è usata da Parini in varie maniere: principalmente attraverso le lodi iperboliche che toccano al «giovin signore» e agli altri nobili del suo giro, che sono trattati come semidei ed entità superiori semplicemente perché sanno scegliere la parrucca giusta o aprire con garbo squisito una tabacchiera.
Il contrasto tra la mediocrità quotidiana della vita del nobile e la celebrazione iperbolica che ne fa il «precettore d’amabil rito» tocca nel Mezzogiorno anche l’azione del mangiare. Il contrasto tra celebrazione poetica e modestia della realtà è evidenziato, nell’incipit del Mezzogiorno, dai termini iperbolici con cui viene descritta la materia:
Ardirò ancor tra i desinari illustri
Sul Meriggio innoltrarmi umil Cantore,
Poichè troppa di te cura mi punge,
Signor, ch'io spero un dì veder maestro
E dittator di graziosi modi
All'alma gioventù che Italia onora.
(Parafrasi)
Io, umile Cantore, avrò l’ardire di parlare dei nobili banchetti
per procedere poi verso il Pomeriggio,
perché molto mi preme di te,
o mio Signore, che spero di vedere un giorno guida
e giudice delle buone maniere
per tutta la nobile gioventù che l’Italia onora
Il tono iperbolico tocca ogni aspetto del discorso: i pranzi («desinari») sono definiti «illustri», cioè sono indicati con un aggettivo molto impegnativo, legato all’idea di gloria, alla grandezza che risplende attraverso i secoli (illustri sono le azioni degli eroi, la cui memoria il tempo non può cancellare). Ma l’associazione stessa tra illustre e desinare costituisce, come è evidente, un’associazione ironica.
Inoltre il precettore è in ansia (ha «cura», che, latinamente, vuol dire ‘preoccupazione’, ‘affanno’) nel timore che il suo allievo non diventi un vero esperto e un «dittator» del buon gusto, cioè una di quelle persone ‘che fanno tendenza’. stabilendo che cosa sia di moda e cosa no, che cosa sia ‘in’ e cosa sia ‘out’. È quello che al giorno d’oggi si direbbe ‘influencer’ (l’oggetto del sarcasmo di Parini è diventato addirittura una professione riverita e invidiata: che Dio ci perdoni).
Descrivendo nel Mezzogiorno il pranzo del «giovin signore» Parini introduce due commensali che gli siedono vicino: uno è un incredibile ghiottone, l’altro è un vegetariano schifiltoso, che disdegna ogni cibo con disgusto, attenendosi a un ascetico digiuno.
Link 4 – Parini (vedi allegato)
L’esplicito meccanismo di ridicolizzazione dell’aristocrazia che Parini realizza attraverso l’iperbole, trova una forma esemplare nella figura del ghiottone che siede vicino al Giovin signore e la sua dama. Come nel frammento di Ipponatte da cui è partito il nostro percorso, anche qui il comico si situa nel contrasto tra la dimensione dell’eroico e l’eccesso divoratorio, che trasforma ogni manifestazione dell’esistente in cibo offerto all’appetito insaziabile dell’obeso ghiottone.
Ma nel Giorno il discorso di Parini è più sottile. Il poeta illuminista polemizza proprio nei confronti di un’aristocrazia che ha stravolto la dimensione dell’eroico (che non è solo coraggio, ma anche servizio per gli altri, generosità, protezione del debole), trasformandolo in un superficiale tendenza a ‘distinguersi’, a uscire dal grigiore dell’anonimato, indipendentemente dai mezzi che consentono di farlo. I due commensali – il ghiottone e il parco vegetariano – rappresentano un’estremizzazione grottesca dei comportamenti, che ha trasformato l’eccellenza dell’aristocratico (il migliore; l’uomo dotato di grandi qualità) nella sua ridicola parodia.
I due opposti del digiuno e dell’abbuffata fungono da emblema di un comportamento che ha perso ogni contatto con la dimensione naturale e biologica dell’assunzione di cibo, ed è diventata pura esibizione sociale, un ruolo assunto per distinguersi all’interno di un mondo di idioti tutti uguali. Ma nell’ottica pariniana, questa forma di distinzione dell’individuo non fa che far risaltare l’inanità di un’aristocrazia debosciata che ha smarrito ogni senso, tanto da confondere quella distinzione che deriva dal valore individuale (fatto di coraggio, intelligenza, cultura, continuo perfezionamento di sé), con quella parodia di eccellenza individuale affidata alla banalità del quotidiano, all’eccentricità scontata dei comportamenti, all’adeguarsi alla moda (con il suo paradosso irrisolvibile: la moda induce a sentirsi ‘speciali’ e a distinguersi proprio conformandosi ai comportamenti di tutti gli altri…)
Nel mondo di marionette senza qualità (tali sono gli aristocratici del Giorno) l’abbuffata non ha più nulla della gioia irridente e liberatoria del Carnevale: e non a caso abbuffata e astensione dal cibo possono essere poste sullo stesso piano, espressioni opposte e complementari di una stessa nevrosi, che appare una inquietante anticipazione delle contemporanee nevrosi alimentari di massa.
15 febbraio 2021