Vincenzo Caputo - Noterella (personalissima) su “presenza” e “distanza”

 

1. Preliminari intorno ad alcune ipotesi e a una certezza

 Diciamocelo subito, in modo da evitare perifrasi virtuosistiche o inutili contorsionismi: ormai è fatta. La didattica a distanza è entrata nell’Università, così come nella scuola, e difficilmente ne uscirà. Per lo scenario del futuro, quello del ‘dopo emergenza’, è possibile ovviamente fare solo qualche ipotesi (coabitazione tra corsi on line e corsi in presenza? DAD riservata a specifici contesti o specifiche attività d’insegnamento?); resta tra le ipotesi una certezza: questo scenario – ci piaccia o no – prevede la didattica a distanza.

Propongo di seguito una “noterella”, personalissima, che va presa per quello che è: una riflessione frammentaria e a bassissima voce su ciò che vedo e sento in questi giorni. Nulla di più.

 

2. “Mi vede? Non la sento…”. Prove tecniche di trasmissione

Vorrei partire da quanto accaduto qualche giorno fa durante i miei primi esami a distanza o – come direbbe un amico esperto della questione – “da remoto”.

La commissione da me presieduta ha verificato innanzitutto il numero dei virtualmente presenti. “Mi vedete?”, ho chiesto; “non la sentiamo…”, mi hanno risposto. E non mi è sembrato un buon inizio. “E ora? Ora mi sentite?”, ho continuato. “La vediamo a tratti”, hanno continuato. Per qualche minuto è andata in scena una sorta di versione aggiornata di quel famosissimo spot di qualche decennio fa in cui si annunciava – mirabilia degli anni Novanta – l’avviso di chiamata della SIP (“Mi ami? Ma quanto mi ami?”). L’appello è andato, gli studenti erano pochi e io ho tirato un sospiro di sollievo.

Amo iniziare con domande di ampio respiro: servono non solo a “rompere il ghiaccio” ma anche – per un esame di Letteratura italiana – a verificare la capacità dello studente di padroneggiare il discorso, strutturare in maniera appropriata il ragionamento, usare il lessico adeguato. Insomma tenere in maniera convincente una “linea”, che non è poi cosa scontatissima. È capitato di trovarsi di fronte a più di uno/a studente/essa che stranamente aveva lo sguardo – per dirla con altri e ben più alti contesti – rivolto verso “ultimi orizzonti” e “spazi interminati”, dai quali sembrava sgorgare una “sovraumana eloquenza” (per non parlare dello sguardo “googliano” fisso davanti al PC). È stato facile comprendere che il mezzo, quello diverso della DAD, rendeva la specifica, e consolidata, tipologia di domanda non adatta. Potevo mai insinuare io, seduto su una sedia della periferia orientale della città, che qualcuno a kilometri di distanza da me mi stesse in quel preciso istante gabbando?

Ho quindi accelerato il percorso verso altre tipologie di domanda, che prevedono confronti tra questioni, attraversamenti tra forme letterarie, riflessioni sulle letture: la “sovraumana eloquenza” si è trasformata in “profondissima quiete”. “Prof., mi vede?”, mi è stato chiesto; “la vedo”, ho continuato; “mi sente?”, mi si domandava; “la sento benissimo”, controbattevo… Insomma c’era un numero di studenti/esse, per i quali si verificava un caso “assai curioso”. Alcuni argomenti – incredibile dictu – “sembravano davanti ai loro occhi” (mi hanno detto perfino le redazioni dell’Arcadia sannazariana) e altri invece, per restare sull’immagine visiva, non volevano proprio come dire “apparire” (è bastata, in questo caso, la richiesta di un articolato commento su una specifica novella del Decamerone boccacciano).

 

3. La ‘fine di Machiavelli’ e un limite della didattica a distanza

Se il problema fosse veramente quello della “trasmissione”, potremmo paradossalmente dire che abbiamo pochi problemi (e non solo perché siamo stati tutti studenti). Gli attacchi al “mezzo”, che pure ho sentito molteplici in questi giorni, mi ricordano un partecipe studente dell’Istituto Tecnico, dove ho insegnato per anni prima di diventare ricercatore. Ogni qualvolta io esaltavo la sagacia politica del grande Machiavelli durante le lezioni a lui dedicate, il ragazzo mi interrompeva. “Vabbè – sentenziava – uno che dice che le armi da fuoco non hanno futuro…”. Il teatrino prevedeva tutte le scene del caso: uno stralcio di lettera a Vettori con la sua immancabile interruzione, un po’ di cap. XXV con il citato intercalare e così via: lui sempre lì con lo sguardo superbo di colui che sa a ricordare il “fatto delle armi da fuoco” [si riferiva ovviamente al refrain dell’intelligente Machiavelli stupidamente denigratore delle armi da fuoco a partire da Discorsi, II, 17]. La tecnologia migliorerà. Le piattaforme risponderanno a specifiche esigenze (magari – dopo l’emergenza – con la creazione di contenitori pubblici per gli studenti: le Università italiane hanno competenze altissime per crearne dei propri). Le “armi da fuoco” telematiche si affineranno sempre più e noi, in questo senso, rischieremmo di fare – a voler citare lo studente di prima – la ‘fine di Machiavelli’.

Il discorso mi pare un altro. Chi vuole ragionare sulla didattica a distanza non dovrebbe credo impostare la sua riflessione sul piano del suo mero funzionamento (del “mezzo”, per intenderci) e degli inevitabili incidenti di percorso, che una prova del genere in tempi così brevi rende ovvi (e – a dire il vero – per esperienza personale anche “minimi”). Proprio su questo piano sono, invece, evidenti i vantaggi della DAD. È indubbio infatti, per fare qualche banale esempio, che la didattica a distanza consenta un uso immediato di supporti quali video, ppt et similia (la condivisione dello schermo lo permette facilmente). È indubbio, inoltre, che essa consenta l’ascolto della lezione in spazi diversi e la sua ‘ripetizione’ – parzialmente anticipata dalle registrazioni audio in aula e relative sbobinature – anche in tempi diversi: il che – capirete – è un vantaggio enorme per lo studente/essa. Infine è indubbio – l’elenco non è in ordine di importanza – che nelle nostre Università sempre più affollate e talvolta in difficoltà per spazi e strutture la didattica a distanza sia risolutiva (ma – sempre dopo l’Emergenza – bisognerebbe anche comprendere che se chi paga le tasse ha le aule dove ascoltare le lezioni, chi paga le tasse dovrebbe avere forse un equivalente per dir così telematico: agevolazioni su connessioni o acquisto pc). Last but not least è indubbio, infine, che la didattica a distanza abbia in sostanza salvato il semestre (lezioni, sedute d’esame e di laurea, commissioni di valutazione: tutto on line).

Insomma più che sul piano gerarchico o di contrapposizione tra vecchio e nuovo, presenza e distanza – lo ha qui sottolineato Giancarlo Alfano (Al tempo della distanza) – mi sembra che il discorso vada impostato sulla peculiarità dell’una e dell’altra con le inevitabili potenzialità che tale specificità porta con sé. Proprio tra i tanti pregi della DAD mi piace sottolineare anche, in modi sbrigativi e rozzi, quello che mi sembra un limite. Da più parti, negli ultimi decenni, si sono evidenziate le insufficienze della cosiddetta “lezione frontale”. Gli amici pedagogisti ci hanno ricordato la necessità di evitare una strutturazione, per la quale allo studente sia affidato il solo compito di “ascoltare”. Si è sottolineata l’importanza dell’interazione sociale nei processi di apprendimento in una bibliografia che ho imparato a maneggiare e spesso anche a criticare. Da questo punto di vista – sia consentita la provocazione – la moderna didattica a distanza mi sembra, però, “vecchia”. Rende ancora più complicato quel processo di “partecipazione” dello studente/essa nel percorso di apprendimento (su “empatia” e “apatia” ha ragionato Elisabetta Menetti, La mia esperienza di didattica a distanza ai tempi della quarantena Covid19). Non parlo solo delle lezioni registrate, che – si capisce – hanno il merito di essere reduplicabili nel tempo ma nel contempo hanno il limite da questo punto di vista di differire ogni ipotetica discussione, riflessione. Mi sembra che anche per le lezioni “in diretta” il grado di passività sia alto: lo studente si limita ad ascoltare; può certamente intervenire ma, con i numeri on line, una reale discussione sarebbe difficilissima; si può tutt’al più scrivere la domanda o il commento: che – potrei sbagliare – mi sembra un’altra cosa.

 

4. Presenza, distanza e idee che lampeggiano

Mi piace pensare che il lavoro di ricerca, di studio, di didattica abbia qualcosa dell’artigianato. Si lavora sugli errori, si discute di una ipotesi e, in merito al nostro discorso, sono convinto lo studente possa imparare confrontando stili diversi, modi di comunicazione diversi. Una volta – eravamo a una lezione dottorale – Alberto Varvaro ci raccontò che, giovane laureato, si fermava a Napoli, prima di dirigersi alla Normale per il Corso di Perfezionamento. Ascoltava le lezioni di Salvatore Battaglia e poi proseguiva il suo viaggio verso Pisa (credo, a guardare date e titoli, si riferisse al 1956-59). Ci raccontò che, quando ascoltava le lezioni di Battaglia, gli sembrava sempre che l’altro grande siciliano spiegasse, mutasse parole e argomenti per lui e per ciò che studiava in quel periodo. Mi viene in mente questo episodio, perché mi pare ponga in risalto l’elemento caratterizzante della didattica in presenza. Ripeto in modo peggiore molte delle affermazioni di coloro che mi hanno preceduto: la specificità della didattica in presenza sta, in sostanza, nel fatto che essa è appunto in presenza.

È affermazione – me ne rendo conto – che per il suo alto grado di ovvietà farebbe arrossire perfino monsignor de La Palice, ma che porta con sé una serie di importanti conseguenze. Cambiare rotta grazie agli stimoli dell’aula, riprogettare un percorso in base alla mancanza di quegli stessi stimoli, alzare o abbassare la specificità del lessico in relazione al numero di sbadigli, seguire un’immagine in seguito a una domanda provocatoria è possibile solo se esiste una presenza: ovvio che si può benissimo scegliere di non seguire un corso universitario, ma è altrettanto ovvio che – proprio per alcune delle ragioni elencate – si può liberamente scegliere di andare a lezione tutti i giorni (molto diverse mi sembrano le questioni legate alla scuola, per le quali rinvio agli utilissimi interventi nella sezione La scuola e la didattica a distanza). Non è un caso che una delle immagini più utilizzate negli articoli, che hanno preceduto queste indegne mie note sparse, è stata quella del “teatro”. È immagine (si veda – tra gli altri – l’intervento di Ippolita Di Majo, La lezione al tempo del coronavirus), che mi convince molto. La lezione in presenza è atto che, come la performance teatrale, prevede ruoli specifici, una funzionale scenografia. Prevede appunto la presenza di tutti quelli che vogliono partecipare – sia consentito il termine – alla “liturgia”. E in questa operazione anche il pubblico, per restare in metafora, ha una sua funzione. Ci saranno i pigri “abbonati” del corso (quelli che seguono ma non sempre ascoltano), gli amanti appassionati del genere (ascoltano tutto, confrontano tutto), quelli ‘cooptati’ (e mi limito a citare coloro che sono sempre a caccia di CFU). Sta in questa alchimia la specificità di una pratica che – occhio e croce – si ripete da poco meno di un millennio con formule che a ben guardare hanno subito pochissime variazioni. Mi si dirà a giusta ragione che queste categorie esistono anche “a distanza”. È cambiata, però, la forma della “liturgia”, dello stare insieme, e i modi per captare l’interazione con essa: come dire che si è passati dal teatro al cinema.

Vorrei riferire, per ribadire ciò che ho provato in modi frammentari a dire, un’altra testimonianza, d’inizio secolo scorso. In una commemorazione del 1903, che tanto spiacque a Benedetto Croce, Francesco D’Ovidio descriveva il maestro Francesco De Sanctis, ricordando i suoi difetti di pronuncia e la balbuzie contro cui egli stesso scrisse d’aver lottato durante la sua giovinezza. Eppure, nella parte conclusiva dello scritto, D’Ovidio si sofferma su una precisa sezione delle lezioni desanctisiane, che definisce il “momento d'elevazione”. È il momento che si prova nell’ascoltare le grandi lezioni: “Ma c'era sempre un punto, o più d’uno, che vinceva lui e vinceva gli ascoltatori. Ad un tratto gli lampeggiava una così alta idea, gli sorrideva una così sublime bellezza, si esaltava tanto, gli uscivano accenti di tale ispirazione e così sincera, che tutti si sentivano con lui e per lui come sollevati ad una regione superiore”.

“Lampeggeranno alte idee” anche con la didattica a distanza e anche con la didattica a distanza gli studenti si sentiranno sollevati verso “regioni superiori”. Quello che volevo evidenziare è che saranno forse necessari nuovi “accenti” e relativi toni: a noi spetta il compito, cruciale, di individuarli.

 

4. Postilla apocalittica

Se mi avessero detto qualche mese fa – è una delle formule più gettonate del momento –  che sarebbe accaduto (virus incontrollabili, quarantene preventive, ospedali saturi) ciò che sta accadendo, sarei esploso in una grassa risata. Lo avrei ritenuto impossibile. E invece – ahi noi – è accaduto. Nulla vieta che tra qualche anno – nel tempo della didattica a distanza – ci ritroveremo magari a dibattere ex abrupto, per cause oggi inimmaginabili, su vantaggi e svantaggi di quella che allora sarà considerata come una nuova soluzione: la didattica in presenza. Il mondo è strano.

 

8 aprile 2020

 

Vincenzo Caputo

Università degli Studi di Napoli Federico II