Ippolita Di Majo - La lezione al tempo del coronavirus

 

Quando eravamo ragazzi c’era una strana Università telematica che noi chiamavamo l’Università dei ‘distanti’: “poi ci sono i distanti”, “c’è da fare lezione ai distanti”, “ma tu li hai mai fatti i distanti?”, si scherzava su questa cosa che a noi pareva un imbroglio: un certificato di laurea per un po’ di televisione ben fatta. Sembrava incredibile.

Adesso tutti i miei amici, quelli coi quali ho condiviso gli anni della passione bruciante per l’arte e per la letteratura, della curiosità e dalla voglia di sapere per diventare i più bravi di tutti, sono alle prese con i distanti. 

Il set: sei sola, a una scrivania o al tavolo della cucina, intorno qualche figlio, magari in pigiama, che gioca o smanetta al cellulare, poco più in là una moglie o un marito, indaffarato in una call coi colleghi dell’ufficio, intanto tu cerchi di concentrarti, attingi a tutta la tua capacità di disciplina e di astrazione per far sparire quel paesaggio domestico che porta il tuo pensiero altrove (“oggi ci mangiamo una bella mozzarella”)… immagini di avere davanti a te un uditorio di almeno un centinaio di studenti, il lavello però è in disordine, i cuscini del divano vanno sprimacciati guarda che mappine, e che ci fa lì la bottiglia del whisky? Faticosamente riprendi il filo, sei dentro e sei fuori, ti vedi dall’esterno mentre parli e ti annoi da morire, autoannoiarsi è una condanna terribile, allora provi a entrare meglio nel personaggio del professore anche se il contesto continua a tirarti maledettamente fuori, immagini librerie a perdita d’occhio, boiserie di legno scuro, una grande scrivania, facce di studenti davanti a te, sono tanti, giovani, belli e appassionati come solo nei sogni, la luce è bassa, la tua sedia è comoda, immagini di impugnare il microfono e inizi a parlare. Davanti a te però c’è lo schermo del computer, intorno la tua famiglia, e tu parli ore e ore al giorno, ti tollerano per amore, ma per loro è come avere una vecchia radio che sta sempre accesa, non ne possono più. La lezione è come il teatro, si nutre del rapporto con il pubblico, c’è un aspetto decisamente performativo nel farla, sono in gioco le tue conoscenze e la tua passione, ma è l’energia degli studenti che ti sostiene e mette in circolo il desiderio di insegnare e di sapere. Niente, di tutto questo, scordatelo, ora non c’è più niente. Tu tieni duro e tiri avanti, cerchi di spiegare il rapporto tra Bembo e Raffello, parte la centrifuga della lavatrice sul fondo, ti viene da ridere, sorridi, ma fingi sia per un certo passaggio degli Asolani che ti è sempre piaciuto da morire, intanto irrompe il senso del ridicolo, non puoi più fare niente per arginarlo, dilaga. Le immagini ti arrivano prepotenti: cosa staranno facendo “i distanti” mentre tu ti affanni nel tentativo di riportare in vita anche per loro quei grandi del passato? Magari stanno su youporn, oppure rifanno il letto, controllano le notizie sul coronavirus che inondano le loro chat, qualcuno fa i piatti, qualcuno non si è ancora alzato e soprattutto anche loro staranno immaginando te alla scrivania con la giacca e la cravatta e sotto il pigiama. Anche loro staranno facendo fantasie sulla tua casa, sulle tue cose, sulle persone che ti circondano. Malgrado la distanza, anzi proprio in forza di questa, sono catapultati in casa tua, in una situazione che ha del domestico e che porta con sé una strana intimità. Allora capisci che in questa lezione sono coinvolte persone e fantasmi, ci sono le forze in gioco, il professore e gli studenti, e poi le fantasie e le proiezioni che ciascuno di questi fa su ciò che non può vedere, ma che certamente accade nell’intimità delle case degli altri.  

La lezione al tempo del coronavirus è a prova di ferita narcisistica, è una scommessa con se stessi e, per chi ha la fortuna di averlo, una sfida titanica al senso del ridicolo. 

 

2 aprile 2020

 

Ippolita Di Majo

sceneggiatrice e storica dell'arte