Il Fascismo e la letteratura italiana
Introduzione
Cent’anni fa, migliaia di camicie nere sfilarono in armi nella Capitale, sancendo la fine della democrazia parlamentare e segnando il giorno zero del calendario dell’era fascista. I fatti del Ventennio lasciarono un segno indelebile nell’immaginario collettivo e costituirono una ferita profonda e lacerante, con cui sarebbe stato inevitabile provare a fare i conti (non sempre riuscendoci) nel secondo dopoguerra.
Di seguito, è proposto un percorso tematico incentrato sul modo in cui la narrazione letteraria ha affrontato alcuni snodi cruciali dell’esperienza fascista e dei suoi riflessi sulla società italiana: la marcia su Roma, la conquista coloniale dell’Etiopia, le leggi razziali, lo sbandamento dell’esercito regio dopo l’8 settembre ’43, la guerra di liberazione.
Il percorso, rivolto soprattutto alle classi terminali della scuola secondaria di secondo grado, intende porsi come un invito alla lettura e alla riscoperta di opere e autori fondamentali per la storia della letteratura italiana contemporanea e costituire un trait d’union tra l’insegnamento della storia e quello della letteratura, non mancando di offrire spunti per un dibattito critico sull’attualità.
Marcia su Roma e dintorni (1931; 1945) di Emilio Lussu [Link 1]
Il percorso si apre con l’estratto di un saggio che l’antifascista sardo Emilio Lussu compose durante l’esilio in Francia. L’opera uscì nel 1931 dapprima in francese e in inglese, con l’obiettivo di raccontare il fascismo al di fuori dei confini nostrani. Una prima versione in italiano vide la luce già nel 1933 a Parigi, ma, com’è ovvio, si dovette attendere il 1945 per un’edizione italiana del volume. I “dintorni” della marcia su Roma, espressione che restituisce con corrosivo sarcasmo la fumosità del progetto mussoliniano, sono i fatti ai quali Lussu assistette all’indomani della fine della Grande Guerra, dalla formazione dei primi fasci di combattimento fino alla legittimazione istituzionale del progetto reazionario di Mussolini nel corso degli anni Venti. La prospettiva straniante (i destinatari del volume erano, in prima battuta, i lettori stranieri) ma comunque soggettiva e appassionata (nella prefazione, Lussu rivendica il suo sguardo di «uomo di parte»), il piglio satirico e la prosa fortemente icastica sono tutti elementi che rendono il saggio un unicum tra i libri sul fascismo e che, a distanza di quasi un secolo, ne garantiscono la godibilità e la leggibilità.
Nel brano riportato, il narratore, con poche, lapidarie battute, fa emergere la farsesca viltà di Mussolini, che durante la marcia su Roma mandò avanti i propri camerati tenendosi lontano, lontanissimo dalla Capitale e rintanandosi a Milano (città, guarda caso, vicina alla frontiera svizzera). Non aveva comunque di che temere il futuro Duce dato che, come osserva l’autore, il governo liberale cedette immediatamente alla pressione della marcia eversiva e spianò subito la strada all’ascesa incontrastata del regime.
Una notte del ’43 da Cinque storie ferraresi (1956) di Giorgio Bassani [Link 2]
Il testo selezionato è tratto dall’ultima parte delle Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani, la raccolta di racconti che inaugurò il monumentale progetto del Romanzo di Ferrara. Nei racconti, Bassani sperimentò per la prima volta la tecnica del discorso indiretto libero, mimetizzandosi nella voce ipocrita e colpevole dell’opinione pubblica ferrarese, la quale, anche quando non sostenne apertamente il regime, ne legittimò gli orrori attraverso la noncuranza e la minimizzazione. In Una notte del ’43 – l’ultima delle cinque storie ferraresi oggetto, nel 1960, di una trasposizione cinematografica firmata da Florestano Vancini – il tragico eccidio di 11 antifascisti di fronte al castello estense, perpetrato il 15 novembre del 1943 dai fascisti della neonata Repubblica di Salò, si intreccia con i travagli matrimoniali del farmacista Pino Barilari e Anna Repetto.
Il brano riferisce l’opinione di Sciagura, uno squadrista della prima ora che rievoca con disappunto l’esperienza della marcia su Roma, che per la frangia più estremista e radicale dello squadrismo fascista significò «una cosa soltanto: l’alt alla Rivoluzione, il tramonto definitivo dell’èra gloriosa delle squadracce». In alcuni passaggi del lungo monologo di Sciagura, nel quale è a più riprese rivendicato l’uso della violenza come strumento politico, è possibile anche cogliere la connivenza delle istituzioni dell’ormai esangue stato liberale, dato che viene precisato che a ogni tappa del treno verso Roma salì un «vero e proprio esercito di carabinieri e Guardie Regie disposto a protezione lungo l’intera linea» ferroviaria.
Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano [Link 3]
Nell’inverno del 1946, durante un incontro a Milano, l’editore Leo Longanesi chiese a Ennio Flaiano se gli andasse di scrivere un romanzo da consegnare entro marzo dell’anno successivo. Flaiano pensò a una battuta e proruppe in una risata, ma quando comprese la serietà della proposta colse l’occasione per trasfigurare in chiave romanzesca la propria esperienza di sottotenente durante la campagna d’Etiopia, un tema pressoché espunto dall’insegnamento della storia nelle scuole e largamente assente anche nella produzione letteraria dell’Italia liberata. L’anno successivo uscì Tempo di uccidere, il primo e unico romanzo dell’autore abruzzese che, proprio per quest’opera, fu insignito del Premio Strega. La vicenda è ambientata durante la campagna di conquista dell’Etiopia nel 1935-36, la prima grande impresa coloniale con la quale Mussolini fece ottenere all’Italia un “posto al sole” nell’Africa già depredata da altri stati europei. Il protagonista e narratore è un ufficiale italiano che, vagabondando su un altopiano alla ricerca di un dentista, si imbatte in una donna etiope intenta a lavarsi in un torrente. L’uomo non resiste alla tentazione di abusare di lei, ma la sosta rischia di costargli cara: si innesta infatti una serie disgraziata di reazioni a catena sempre più indistricabili, che determinano una sorta di discesa agli inferi per il protagonista.
Il brano selezionato registra il momento in cui il tenente ha già iniziato a insidiare la donna e, rifacendosi a uno schema tipicamente colonialista (e maschilista), tenta di “comprarla” regalandole delle monete d’argento e del sapone. Come si evince dalla lettura, il protagonista narratore ha qualche barlume di lucidità che lo porta a diffidare del proprio etnocentrismo (constata, per esempio, che «Forse, come tutti i soldati conquistatori di questo mondo, presumevo di conoscere la psicologia dei conquistati. Mi sentivo troppo diverso da loro, per ammettere che avessero altri pensieri oltre quelli suggeriti dalla più elementare natura»), lucidità dovuta forse alla distanza temporale tra il tempo della storia e il tempo della narrazione. Per il resto, però, si può osservare come il linguaggio sia costantemente la spia di una radicale disumanizzazione dell’Altro, dato che nel romanzo il popolo etiope è spesso descritto con metafore e similitudini naturali che hanno una chiara connotazione ideologica e razzista (per esempio, «tristi animali», «animali preistorici»).
Gli occhiali d’oro (1958) di Giorgio Bassani [Link 4]
Gli Occhiali d’oro è il secondo capitolo del Romanzo di Ferrara. Nel breve romanzo, Bassani abbandona la terza persona e affida la narrazione a un io narrante dai tratti fortemente autobiografici, trattandosi di un giovane ebreo iscritto alla facoltà di Lettere di Bologna. Durante il viaggio in treno da Ferrara a Bologna, il ragazzo rincontra il dottor Fadigati, il rispettabile e popolare otorinolaringoiatra che, di lì a poco, cadrà in disgrazia in seguito all’esibizione pubblica di una relazione omosessuale con il giovane e sprezzante Eraldo Deliliers. Nella parte finale del romanzo, si instaura un’inaspettata vicinanza tra Fadigati, ormai simbolicamente espulso dalla comunità benpensante ferrarese personificata dall’odiosa signora Lavezzoli, e il protagonista, che toccherà con mano le iniziali e violente avvisaglie della vessazione razziale contro gli ebrei.
Nel brano selezionato, che restituisce la disperazione della comunità ebraica di fronte alle prime persecuzioni, è desumibile un dato che attraversa gran parte della produzione di Bassani e che Pasolini, riflettendo proprio sull’opera bassaniana, ha definito «il rimpianto del piccolo borghese ebreo di non essere un piccolo borghese qualsiasi, e il suo sforzo terribile di sembrare tale». Infatti, durante i giorni tremendi cui la campagna diffamatoria a mezzo stampa toccò il culmine e preparò il terreno per i successivi provvedimenti antisemiti, il padre del protagonista non si capacita di come il regime possa voltare le spalle e rivoltarsi contro a una comunità integrata che l’ha sempre sostenuto e che, dopo l’abolizione dei ghetti fisici, si vede nuovamente segregare all’interno di invisibili ghetti giuridici.
Il giardino dei Finzi-Contini (1962) di Giorgio Bassani [Link 5] [Link 6]
La catastrofe annunciata ne Gli occhiali d’oro diventa realtà nel successivo tassello della saga ferrarese: il Giardino dei Finzi-Contini, il più celebre romanzo bassaniano, racconta infatti le conseguenze dirette delle leggi razziali su un gruppo di giovani ebrei, tra i quali è presente lo stesso protagonista-narratore del romanzo precedente. La vicenda prende le mosse da un fatto autobiografico: come già per Bassani il campo privato di Elvira Samorani divenne un’alternativa al Circolo Marfisa d’Este dal quale gli ebrei furono espulsi in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, così i giovani ebrei ferraresi del romanzo bassaniano trovano rifugio presso il campo della magna domus (questo il modo in cui la città aveva ribattezzato invidiosamente e sprezzantemente la tenuta dei Finzi-Contini), dopo essere stati allontanati dal Circolo Eleonora d’Este con una lettera di “congedo”. Per rimediare a questo schiaffo alla gioventù ebraica, i Finzi-Contini rinunciano al loro congenito e ostinato isolamento dal resto della comunità ferrarese, poiché ormai si era «tutti quanti sopra la stessa barca» e sarebbe stato ridicolo «continuare a fare tante distinzioni».
Più in là nella vicenda, il protagonista viene allontanato dalla biblioteca comunale, il padre viene espulso dal partito fascista e dal circolo dei negozianti, il fratello Ernesto deve emigrare in Francia per iscriversi al Politecnico di Grenoble e la sorella tredicenne Fanny può proseguire il ginnasio soltanto nella scuola israelitica. Queste notizie vengono riportate dal protagonista in un acceso confronto con il Malnate, un amico di Alberto Finzi-Contini che muove alla comunità ebraica l’accusa di non essersi sufficientemente ribellata alle persecuzioni e, anzi, di aver supportato il regime non ravvisandovi un pericolo per la propria sicurezza e la propria integrazione cittadina. «Una delle forme più odiose di antisemitismo era appunto questa: lamentare che gli ebrei non fossero abbastanza come gli altri, e poi, viceversa, constatata la loro pressoché totale assimilazione all’ambiente circostante, lamentare che fossero tali e quali come gli altri, nemmeno un poco diversi dalla media comune» è la chiosa, arrabbiata, del narratore.
I piccoli maestri (1964) di Luigi Meneghello [Link 7]
Ne I piccoli maestri, l’autore vicentino Luigi Meneghello racconta la propria esperienza di partigiano sull’altopiano d’Asiago. A differenza di molti ex partigiani, che iniziarono a scrivere di Resistenza all’indomani della Liberazione, Meneghello attese una ventina d’anni prima di trasfigurare romanzescamente le proprie avventure, tanto che qualcuno, come la studiosa Maria Corti, vi ha ravvisato lo stesso atteggiamento che si avrebbe se si optasse per un racconto tardivo di un amore vissuto vent’anni prima e filtrato, perciò, dal distacco spirituale e materiale volto a tenere a bada il sentimentalismo. La finalità di questa operazione è esplicitamente dichiarata nella prefazione alla seconda edizione dell’opera, del 1976: «I piccoli maestri è stato scritto con un preciso proposito civile e culturale: volevo esprimere un modo di vedere la Resistenza assai diverso da quello divulgato, e cioè in chiave anti-retorica e anti-eroica. Sono convinto che solo così si può rendere piena giustizia agli aspetti più originali e più interessanti di ciò che è accaduto in quegli anni».
Il brano selezionato restituisce il disorientamento dei giovani soldati di fronte alla notizia dell’armistizio e della destituzione del regime, destituzione prosaicamente paragonata ai residui di un letamaio che si squaglia per effetto di un acquazzone.
Con il tono di ironico disincanto che costituisce la cifra stilistica più originale del volume e attraverso la commistione linguistica tra l’italiano anticlassicistico e il dialetto vicentino, Meneghello trasfigura lo sbandamento dell’esercito regio e la caduta simbolica del fascismo attraverso l’immagine allegorica (un’allegoria estremamente dissacrante e satirica) del ritratto di D’Annunzio, il poeta simbolo della pomposità verbosa della retorica del regime, che viene calpestato dal protagonista e dall’amico Lelio.
Gli inizi del partigiano Raoul è il terzo racconto della raccolta che costituì il travagliato esordio narrativo di Beppe Fenoglio, quei Ventitré giorni della città di Alba che gli scatenarono addosso il fuoco incrociato della critica marxista più ortodossa. In esso viene raccontata l’iniziazione partigiana di Sergio P., un giovane studente che, avendo subìto a distanza la fascinazione della narrazione partigiana, evidentemente già divenuta retorica, si separa dalla madre vedova per arruolarsi in un presidio badogliano. Nel brano è riportato “l’inizio dell’inizio”: Sergio cammina a cuor leggero, non sapendo che di lì a pochissime ore vorrà scappare a gambe levate da quell’«orribile avventura nella quale s’era cacciato da solo», colpevolizzando i partigiani perché «non erano come lui li aveva immaginati» e poi dando «la colpa a sé che aveva sbagliato a immaginarli».
Il racconto è la narrazione concitata della prima giornata da partigiano di Raoul, che si trova a fare i conti con la divaricazione tra la Resistenza edulcorata e mitizzata della quale aveva avvertito gli echi e l’ambiente grezzo e bestiale della ‘verità effettuale’ della lotta partigiana. Il brano permette di affrontare una questione trascurata nella riflessione sulla guerra di liberazione: il trauma di una generazione di giovanissimi (coetanei degli studenti ai quali si rivolge il percorso) che si trovò catapultata nel fitto della violenza partigiana senza avere una reale preparazione militare e, soprattutto, psicologica e che nel secondo dopoguerra faticò enormemente a reintegrarsi nella società pacificata (a questo tema Fenoglio dedicò un altro racconto della raccolta, Ettore va al lavoro).
Conclusione
Nell’insegnamento scolastico, la letteratura italiana viene spesso, quando non esclusivamente, affrontata come disciplina linguistica e come un riflesso di precise convenzioni o infrazioni retoriche. Ma la letteratura è anche una fonte storica e, più efficacemente forse di un manuale di storia, può contribuire a spiegare e problematizzare dei fenomeni storici. Inoltre i passi scelti, oltre a essere un efficace strumento didattico per il loro potenziale divulgativo, possono costituire un punto di partenza per condurre degli approfondimenti critici su questioni di stringente attualità: le persecuzioni politiche nella società contemporanea, la legittimazione della violenza sessuale sulle donne, l’effetto che una legislazione ingiusta può esercitare sulle minoranze, il trauma della guerra che irrompe nella tranquillità borghese, mentre la progressiva fascistizzazione dei mezzi di comunicazione della stampa può essere il preludio per una riflessione più ampia sullo stato di salute dell’informazione, che ha nel frattempo trovato delle forme più raffinate (ma non meno insidiose) di manipolazione.
27 giugno 2022